venerdì 29 luglio 2022

La mia Recensione: Duran Duran - The Chauffeur

 La mia Recensione:


Duran Duran - The Chauffeur



“Si possono intravedere i tormenti di una persona già attraverso le sue speranze.”

Mirko Badiale


La magia vive nell’aria, vestita di segreti e incantesimi: non sempre ama farsi vedere. Sarà per timidezza, imbarazzo o magari è proprio il non svelarsi troppo che la rende forte.

Ciò che conta è che per strane coincidenze nella musica la magia riesca a perdere una quota della sua essenza per guadagnarne altre e quando lo fa si crea sempre una forte attrazione con chi ascolta.

Dopo un album di esordio bellissimo, e forse il loro migliore, ecco che il secondo si riempie di nuovi percorsi musicali e in un brano di Rio appare, come se fosse  una miscela antica colma di fascino e mistero, la magia di una canzone intitolata The Chauffeur.

La band di Birmingham trova modo di entrare nella zona alta della storia musicale perché questo brano contiene frammenti di luce sparsi tra le ombre, regalando la sensazione di dolenza e sanezza al contempo. Come se fosse circondata da flussi mistici, questo mantra di Synthpop è un magistrale esempio di quanto i cinque fossero maturati e in grado di dimostrare quella bravura che anestetizza i dubbi che da molte parti affioravano. 

Come una ipnosi che seduce la storia raccontata (scritta magnificamente, tra immagini e dolore che si arrampica sino alla cima del monte per mostrare il suo volto tumefatto), la musica sorvola il tempo moderno e quello delle favole, lasciando all’ascoltatore l’impressione che si stiano guardando le scene chiusi dentro un armadio.

L’incedere lento, la drammaticità del piano, il loop del synth che entra per definire la bellezza di una struttura sonora votata a catturare i sensi e il cantato con le stampelle di Simon Le Bon conferiscono all’insieme l’ipotesi che quella magia ha catturato le note e le parole per depositarle dentro una fascina che brucia per scaldare l’eternità.

Brano che si discosta dagli altri dell’album Rio, uscita dal cilindro di un mago solitario di un teatro buio di una qualsiasi provincia, ha la caratteristica di formare nella mente la convinzione che l’amore di coppia abbia i suoi peccati che trovano sempre dei raggi di sole per non lasciarli nascosti, come la musica che, per quanto possa e voglia giocare a nascondino, si trova il modo di vederla e di goderne a pieni polmoni.

Perché The Chauffeur va respirato, portato a viaggiare dentro l’altra magia: i passaggi che abitano le nostre stanze mentali segrete.

Dentro una forma canzone benedetta da uno splendido intro, si arriva poi al delirio del lungo finale con i fiori sui fianchi di un flauto che fa schizzare il brano verso la fine dell’800, supportato da una batteria che sembra chiedere aiuto alle valli per poter far arrivare il suo incedere e il pianoforte che tratteggia il volto di questa poesia dal labbro inclinato verso la tristezza.

Se l’amore, come descritto nel testo, può conoscere il suolo duro della farsa, ecco che i cinque escogitano il modo di non connettere la musica totalmente a un sentimento attitudinale arcigno e prendono i pennelli con i colori tenui: Nick Rhodes e John Taylor stendono la loro capacità su un telo dove pulsioni e melodie si mettono d’accordo, e lo fanno bene, perché tra queste note si scrive la storia, un dipinto che rimarrà per sempre nelle magiche gallerie del nostro cuore.

Con l’indubbia capacità di farci vibrare con emozioni a tappeto, il testo suggerisce però una sedia, un tavolo, una birra e la volontà di tuffarsi, con prudenza, dentro parole che, unendo la fantasia e la morale, sanno circondare la verità senza essere troppo dirette, schiette, ma conservando l’autenticità comunicativa che non può né deve mancare.

Si rivelano musicisti strepitosi, con l’eccellente produzione di Colin Thurston, le cui qualità sono state a servizio di David Bowie, The Human League, Magazine, Gary Numan, Talk Talk e altri ancora.

Il lavoro del produttore Londinese è evidente: i suoni, la capacità di controllare i flussi di idee dei ragazzi di Birmingham, quella patina di sole e sale, vento e mistero che si vede all’ascolto fanno della canzone uno splendido esempio di cosa sia una produzione. Tutto fila liscio, dentro la melma di parole con la tensione sulla schiena, e questa sensazione di sacralità che aleggia per tutta la durata della favola triste diventa la sciarpa con la quale circondare le nostre paure.

Una canzone che sa commuovere, confondere, dare l’impressione che l’inaspettato abbia le fauci pronte ad azzannare, anche se provenienti da dei giovani musicisti che stanno cercando il successo e lo ottengono con un album pieno di singoli e circuiti musicali dalla presa facile.

Questa no.

La coinvolgente The Chauffeur è la carta d’identità di una band che è diventata maggiorenne con questo episodio, portando i detrattori a confrontarsi con la sapienza, la consapevolezza, il talento di scrivere una sfera sonora che si presta a letture diverse, durante ascolti stregati, che ci fanno appartare nel nostro io dove la nebbia e l’ombra attendono di avvolgerci.

Tutto scricchiola qui: non c’è presenza alcuna di boria, di eccesso di personalità, di perseguire note che possano arrivare comodamente dentro  ascolti disimpegnati.

Piuttosto, ed è evidente, si è voluto prendere il pentagramma, buttarlo nei primi vapori degli anni 80 intrisi di synth, sì, ma assolutamente caldi e parsimoniosi, quasi come se non dovesse esserci nessun disturbo dell’anima all’ascolto. Però tutto si rivela maturo, profondo, per portarci in dono un benessere dal cappotto grigio dal bavero alzato in quanto questo gioiello potrebbe anche congelare ciò che abita la spavalderia e la presunzione perché i tradimenti non hanno dalla loro parte l’eternità, questa canzone invece sì, proprio perché ha saputo rivelare un aspetto che tendiamo per convenienza a nascondere.

The Chauffeur: il capolavoro dei Duran Duran dimostra che non tutto era sbagliato in certi nuovi movimenti musicali, che non era plastica quella che usciva dalle dita ma una poderosa dimostrazione di qualità, che smentendo molti sono arrivate a tantissime anime che all’ascolto di questa torcia medievale dall’abito moderno hanno potuto riconoscere che ciò che vale può uscire da ogni contesto.

La voce di Simon, spesse volte alla ricerca di un registro vocale troppo alto, qui si accorda con la perfezione e sa rendere tutta la musica del brano come la gemella perfetta del suo racconto. Ma tutto il nono pezzo del secondo lavoro è una voce argentata, dalla sfumatura blu, per potersi confondere nel cielo delle stelle che sorrideranno per sempre…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Torino

29 Luglio 2022


https://open.spotify.com/track/4kZOi9K2i06Syi2DiSfEqT?si=zXuvLWjfR6Ok6MNNU2_aeg







giovedì 28 luglio 2022

La mia Recensione: Andrea Chimenti - Il Deserto, La notte, Il Mare

 Andrea Chimenti - Il Deserto La Notte Il Mare


La mia recensione


“C’è un libro sempre aperto per tutti gli occhi: la natura.”

(Jean-Jacques Rousseau)


Come dare alla Classe una passata di vernice color gioia matura.

Questo è ciò che accade nel decimo album di Andrea Chimenti, l’albero pazzo della canzone italiana che resiste all’usura del tempo e che, anzi, aumenta lo spazio della sua natura fatta di bellezza nella profondità, caso più unico che raro.

Ascoltarlo è da sempre una emozione, ma all’interno di queste undici tracce possiamo accorgerci di una maturità evidente e che porta il suo passato come un robusto anticipo di questo gioiello.

Qualcosa di nuovo appare, come una stella cometa tra milioni di stelle, in una natura celeste che bacia quella terrestre con nuove storie intriganti e sensuali.

Un lavoro che risulta una adunata di talenti, visti i suoi collaboratori e partecipazioni illustri, capaci di mietere il grano della sua ispirazione e progettualità.

Canzoni come arcobaleni visti da vicino, misteri che non appesantiscono il fiato lasciando solo qualche atomo di preoccupazione, alcuni mantra che stabiliscono il contatto morboso con la necessità di dipendere da quei pochi secondi che rimangono appiccicati per il resto delle canzoni.

Come sempre, più di sempre, si viaggia con Andrea, la valigia che si riempie di stazione in stazione, undici per essere precisi, per sognare la realtà…

Si viaggia nel tempo, nello spazio, nello strazio umano, nei fiumi delle necessità che lui sa rendere evidenti, esplicite in un modo che non feriscono: ancora una volta la bruttezza del mondo lui ce la mostra con la possibilità di riscatto, non infierisce, anzi, alleggerisce il tutto senza ingannarci.

Un album che mostra un suono poderoso, robusto, allineato alla sua poesia, dove la canzone pop si fa internazionale, dove la lingua italiana riesce finalmente a connettersi con una musica che ruota dentro il globo terrestre. 

D’altronde lui è il Maestro del cielo e dei sogni, che sono linguaggi universali.

Le sue composizioni soffiano via la polvere: tutto si rivela ed è questa la vera bellezza, poter vedere ciò che è reale.

Allora sono brividi che entrano nella spina dorsale, che ci rendono singoli individui nel bisogno di una collettività sempre più necessaria.

Si viaggia tra generi musicali che sono abbracciati, carni non distinte ma assolutamente connesse tra loro. Che poi ci sia della word music, del pop, della new wave con la faccia fresca senza trucchi, tracce di prog, dell’elettronica come maschera di Carnevale e molto altro è solo un dettaglio che non specifica la grandezza delle stazioni che il buon Chimenti ci mostra.

Un insieme di canzoni che porta le conchiglie dal mare su nel cielo con le note a lavar loro i volti e a consegnarle all’eternità: se Andrea voleva fare un album degno del suo passato, beh si è sbagliato alla grande perché questo è il suo migliore di sempre,  ci fa precipitare completamente dentro la sua magnetica alleanza con la brillantezza e la concretezza.

Dieci scintille, due che illuminano con il Maestro Antonio Aiazzi e una con Cristiano Roversi (basso, progr, pianoforte, synth), musicista dal talento indiscutibile che ha prodotto il disco insieme a Chimenti. 

Andiamo ora a farci un giro nel suo universo: non copritevi troppo perché Andrea saprà donarvi il giusto calore e il buio diventerà una candela con la giusta luce per vedere l’immensità di note sublimi.

Vivace, puro, intenso, estremamente denso, senza dubbio Album italiano del 2021.



Dove ho posto il mio amore


La prima scintilla è data da chitarre elettriche e i fiati del SignorDavid Jackson: si parte con la garanzia di un’amalgama avvolgente e travolgente con l’esperienza dell’uomo dei Van der Graf Generator a legare come in un abbraccio la canzone  illuminante di Andrea.


In Eterno


Prendi Shakespeare e lo conduci dolcemente in questo nostro Tempo.

Andrea lo ricorda e ci stimola a ritornare davanti a questo incommensurabile scrittore e drammaturgo inglese setacciando dentro la sua classe con un sonetto.

E lo fa con una musica moderna, come a segnare la differenza tra il mondo di William ed il suo mantenendo però quelle parole come un eterno bagliore. 

E allora sia il synth con la chitarra a portarci la poesia, in un affresco temporale di brillante lucentezza.


Beatissimo


Canzone mantra, la danza che dal medioevo arriva a noi come una filastrocca sonora immersa in parole che portano “luce nei sepolcri”: la voce, spesso raddoppiata, nuota sui tasti di un pianoforte che porta a sé una chitarra semi acustica e altri strumenti in coda, uno ad uno, per una ammucchiata ordinata e pulsante. C’è un vento su questa canzone che arriva ad accenni tzigani che arrossisce gli occhi: saranno le parole, sarà il profumo delicato di una saggezza che ci afferra, scuote le nostre paure e la nostra ignoranza.

Brano nato a quattro mani con il Marchese Antonio Aiazzi, si sviluppa senza aver bisogno di grandi cambiamenti, la forma canzone che non insiste per imporsi, una lunga strofa con tante varianti ad arricchire lo stupore…

Qui si viaggia, senza sosta, con la consapevolezza che tutto continua, con i rintocchi di un piano danzante con voci che sfumano nella tenebra senza però portare tristezza.

Sono minuti nei quali lui trasforma la realtà da tinte grigie a sogni colorati, soffiando con i suoi registri di voce per farci tremare, è come lo fa? Facendoci sudare di stupore…


Ky


Ecco un brano che sorprende, porta il suo ardore, la potenza necessaria per connettersi a forze che abbiamo sempre più bisogno. 

Si rimane in un volo robusto: scrollate e disperse le foglie alle nostre spalle c’intendiamo conto di quanto Andrea possa spaziare nello stile, nei generi, mantenendo tutte le gocce de suo talento.

Sono affascinato in modo tremendo da questo brano: sembra una corsa senza sudore che toglie comunque le tossine di questa esistenza. 



Bimbo


Viaggiare stanca, ed è il momento di dormire.

Però vogliamo che sia un accadimento lieto, che arrivi con dolcezza, provo di ansia.

Ma siamo qui, in questo brano suggestivo e cangiante, di dosi malinconiche di una ninnananna che seduce per questa nenia che aggiunge scorza e coriandoli di autunno.

Sia dato spazio allora ad archi come ipnosi, al pianoforte che come una rugiada appena sveglia ci mostra la bellezza del mondo e a una chitarra che che è il sigillo eterno di quella zona rarefatta dove il Principe Andrea alberga da anni.

Tutto lieve, tragico e immenso, lui continua a camminare maestoso tra le rive del cielo e questa canzone cammina dentro di noi.



Milioni 


Andrea veste  la notte con la sua eleganza: mette in fila milioni di atomi facendoci capire ancora di più l’immensità del cielo, i suoi colori ed esplosioni. 

Allinea la vita con scintille in poche parole: quando il talento fa da setaccio e ci risparmia la fatica.

David Jackson conferma lo Status di Andrea, la piacevolezza di collaborare insieme per dare alle note, alle sue armonie una veste sensuale e completa. Tra fuoriclasse a volte capita di darsi del tu, dove la beneficiaria è questa stella tra milioni di stelle.

Orecchiabile, come nave a navigare tra i nostri battiti, MILIONI saprà conoscere ascolti ripetuti e braccia e occhi spalancati a testa in su.


Allodola nera


Stupore e sorpresa fanno l’amore in questo brano che vede la magnifica voce di Ginevra Di Marco donare petali primaverili notturni; il vestito è lungo, cosa seria, occorre attenzione per farsi accompagnare dai due che ad un certo punto cantano insieme. Si è paralizzati dal fato plumbeo che ci circonda. Il pianoforte è il comandante del Big Bang che esplode nel petto, e i due disegnano il legame tra il tempo e lo spazio per arrivare al sentimento più importante, come spada dai denti profondi perché l’amore è l’unico appuntamento che sfiora, manca, si desidera e che rende l’esistenza accomunata a questo elemento. 




Garcia 


Due poesie che cercano una terza: partendo da una di Federico García Lorca che abbraccia David Jackson per arrivare ad Andrea.

Che siano matrimoni artistici allora: progressive puro e intenso che attira a se un blues pieno di brillantini per un brano che diventa un caleidoscopio con fascinazione immediata e irresistibile. Al suo interno moti vari che variano il ritmo ma non la sua lucentezza.


 Felice


Il talento ha la faccia seriosa di Antonio Aiazzi: i suoi occhi chiusi con le dita ad accarezzare la fisarmonica per farci sentire a nostro agio in un viaggio musicale a ritroso , un verticillo che bacia la corolla e supporta Andrea nel fare di questo brano un gioiello uscito da un tempo remoto.


 Oltremare


Il nostro attraversamento celeste sta per concludersi con la penultima tappa: sembra che il cantante di Reggio Emilia abbia deciso di non essere dimentico della sofferenza e da alla sua voce scintille come una saldatura necessaria per compattare e specificare. 

Da al suo cuore e alle sue corde vocali una dimostrazione di forza dove il sassofono sorprende, la chitarra acustica incanta, il pianoforte volano in parti descrittive crude, vere e necessarie.

Spiazza ma convince, si pone su piani altissimi di qualità e bisogno.



 Niente è impossibile


L’album chiude le finestre ma il cielo ed il nostro viaggio non finiscono.

Per rendere perfetto questo gioiello Andrea silenzia la sua voce (che è un canto strepitoso della nostra esigenza immaginifica…) con un brano strumentale che mostra la sua propensione nel suono di questa modernità fatta di synth ed elettronica per stenderci muti sul divano del cielo per dare la buonanotte ad un album intenso, strepitoso, assolutamente necessario di ripetuti e incantevoli ascolti.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

7 Novembre 2021



martedì 26 luglio 2022

La mia Recensione: Wall of Voodoo - Dark Continent




 La mia Recensione:


Wall of Voodoo - Dark Continent


Umori, rumori, odori, traversate infinite, stelle planate sul pianeta terra, radici di fiati elettronici, perversioni con la maschera, follie elettrificate e suggestionate, il western con la pistola sulla tastiera, frenetica e ansimante, tiepidi scenari pericolosi, oscurità e pericolosità.

Potremmo partire da qui per capire il contenuto di un album assolutamente seminale, cucina di ingredienti conosciuti e sconosciuti servita nel piatto ricco dell’arte con la a maiuscola.

Non una band, non un insieme di canzoni, ma la vitamina della follia sintetizzata e lanciata a razzo verso le nostre menti abbagliate. Tutto ciò che di sperimentale, dal fare elettronico miscelato a diversi generi musicali, era stato creato nel corso di almeno due decenni, qui trova una evoluzione, un miglioramento, uno spargimento di classe e spunti assolutamente nuovi che non si possono mettere in discussione.

Apoteosi senza dubbi: stargli accanto anche oggi, dopo 41 anni e migliaia di ascolti, non ci toglie la convinzione di un disco che ancora insegna e stupisce, semina suggestioni e riflessioni che non può che condurre alla definitiva affermazione che fu, è e sempre sarà un capolavoro. 

Con un fare stilizzato, visionario, cinematografico, ipnotico, ossessivo e capace di gravitare con agilità nel post-punk come nell’elettronica (sempre di matrice Americana), le trame e le invocazioni sonore sono impulsi, beats, deflagrazioni ritmiche e sensoriali verso la scarnificazione e la proiezione futurista proveniente da un passato che incominciava a essere stantio. Ci hanno pensato loro: Stan Ridgway, Joe Nanini, Bruce Moreland, Chas Gray,  Marc Moreland.

La band di Los Angeles ha seminato, sviluppato e parzialmente raccolto: la grandezza e l’importanza non ha avuto la cassa di risonanza che meritava ma ha saputo essere rilevante e determinante, entrando di diritto nell’Olimpo della musica.

Vi parlo di questo esercizio di stile e di acrobatiche circumnavigazioni sonore che hanno reso Dark Continent il padre di un atteggiamento diverso nei processi creativi e nelle loro forme, il fiume che divide la terra e che nutre il cielo. Trentacinque minuti di fecondazioni artificiali, di bacchette magiche travestite da transistor ed effetti moderni che non cancellano di certo il passato. Anni dopo si coniarono i termini Crossover e Miscelanze, ma molto prima tutto questo era già stato progettato e creato e i WOV sono sicuramente da annoverare tra questi. Un disco pionieristico, spavaldo, assurdo e a suo modo esasperante: il coraggio del menefreghismo che si connette al delirio ragionato. Lo studio Acme Soundtracks è stato il papà di questo terremoto razionale, la base da cui partire e che ha messo nella valigia di Stan pillole magnetiche ad espansione termica ed emotiva. Lentamente, dopo quattro anni, lui e gli altri messaggeri di Luna e Sole hanno procreato una vita che non muore, peculiarità che tocca solo alle Divinità.

Le canzoni hanno testi complessi, con la faccia dentro i vistosi pericoli naturali, l’avanzata delle problematiche connesse alle tensioni dei processi industriali. In tutto questo vi è spazio anche per una nutrita quota di interesse verso le relazioni, sociali più che sentimentali, in bilico tra coraggio e battagliere presenze nello sconvolgere equilibri sicuri, come forma di contrasto verso una società moderna che incominciava a costruire il senso di velocità e di scarto nei confronti del passato. 

Molte cose risultano essere incredibili in questo viaggio immaginifico: prendi la parte del drumming. Credi che sia spesso una drum machine quella che ascolti e poi scopri che esiste un batterista vero a rendere spettrale e robotica quella parte essenziale e che trasforma il tutto in un prodotto creato in laboratorio quando invece esiste sudore umano che scende sopra le pelli di una batteria spettacolare.

E allora quelli che sembravano dei pad di synth e di pattern restituiscono qualcosa di antico e legato alla nostra natura. La postura post-punk della chitarra, spesso tremolante e che assomiglia alla corsa di un centometrista  si trova a lavorare con sintetizzatori che sembrano uscire dai tardi anni 50 in miracolosi complotti del Tempo. Prendiamo il basso: meteora grigia che appare a scatti, senza continuità, spesso assente, quando mostra la sua granitica presenza che pare aver studiato la semplicità fiabesca di Peter Hook dell’altra seminale band chiamata Joy Division. Non mancano le vicinanze metodiche con gli spaventosi cigni diabolici dei Suicide: i WOV sembrano i figli devoti che scrivono scintille ipnotiche su fogli di plastica che potrebbero essere stati progettati dal duo di New York. Se si pone attenzione alla parte dei testi, allora dobbiamo aggiungere a ciò che ho scritto prima il quantitativo di paranoia post-industriale che riempie di profumo sintetico parole che paiono essere più soffocanti e oscure di molte band gotiche del tempo. Stan ribalta convinzioni centenarie scrivendo scenari apocalittici con il timbro di una colata di ghiaccio. Tutto sembra un tappeto senza sbalzi sulla sua anima: lineare, ipnotico, il suono di questo palazzo mentale, che diventa fisico, mostra una continuità eccellente rendendo difficile determinare momenti a cui dare la preferenza. La loro vicinanza ai Devo può essere compresa nella visione cinematografica che i ragazzi di Los Angeles sembrano voler esprimere molto più di altre, però è un accostamento che dura meno di quello che si pensa: perché se la band di Akron era più interessata a scenari provenienti da pellicole di fantascienza, nel lavoro di esordio di Ridgway e compagnia bella quasi tutto pare derivare dalla polvere di scontri nel Far West con le sue illusioni dentro la nuvola grigia di un Western pieno di pallottole elettroniche per saldare un matrimonio temporale inimmaginabile.

Come un lungo weekend di Halloween che sembra ipnotizzare il futuro e restringerlo in soli due giorni di baldorie folli, di scherzi e quant’altro, ecco che il tutto suona come una giostra di lustrini elettronici in un campionario visivo di montagne russe senza volontà di fermare la paura di vene gelide e ipnotiche.

Un album essenziale, come frutto di un lavoro scientifico che, uscito da laboratori in località segrete, viene pubblicato da giornali specializzati: i WOV hanno aperto una nuova era espressiva, lanciato avvertimenti senza l’eccessiva carica emotiva del post-punk per diradare il tutto e compattare nuove soluzioni dentro un artificio artistico non così lontano dalla realtà. È la libertà espressiva del quintetto che produce materiale non prevedibile dentro il circuito dei primi anni 80 così bisognosi di energie nuove e ammalianti: si è dovuto andare nella città dove la finzione prende il sopravvento per bilanciare nuovamente le nostre convinzioni per questo insieme di undici scosse marine dentro i labirinti di scie di graffi di carta vetro liquida.

Un’apoteosi di deliri trattenuti, con la cravatta e le scarpe lucide, ma pilotati da anime nere insospettabili.

L’importanza e la bellezza di ciò che è unico diventa un’onda selvaggia che non può essere ripetuta perché la corrente dell’oceano dei WOV è destinata alla propria solitudine, mentre generazioni di artisti cercheranno di rubare ogni molecola della loro classe non riuscendo mai nell’intento: è anche così che si comprende come ciò che è selvaggiamente senza possibilità di repliche sia confinato nella solitudine. 

Dark Continent è la porta di quel laboratorio che chiude e divide ciò che è perfetto dalla dannata natura umana, un lavoro semplicemente pazzesco e rigenerativo, la massa violenta di una cascata che oltre a lavarci e a purificarci ci porterà in luoghi fisici e mentali sconosciuti. 

Ed è proprio lì che l’arte della perfezione rivela se stessa: è da questi solchi che possiamo imparare a mettere i camici sulla nostra pelle per entrare nelle loro stanze segrete come alunni rimbambiti senza possibilità di rubare caramelle a questi maestri eterni. Se la bellezza ha un prezzo, con poco denaro ci portiamo dentro un oceano infinito di brillanti atomici…


Song by Song 


1 Red Light

Puntura horror con venatura synth Punk primordiale per l’esordio: la voce da scatola di Serenase si ritrova nella palude di semigioiose chitarre proto-punk e synth vorticosi.



2 Two Minutes Til Lunch

Il basso baldanzoso su una vaporiera diretta verso il saloon crea un’atmosfera tenebrosa, sino a quando la chitarra graffia il ritmo e il cantato di Stan si fa tremolante per un brano uscito dalla fabbrica degli Ultravox.



3 Animal Day

Prendi i Suicide imbevuti di whiskey, fai vedere loro gli indiani dei film di John Ford e chiudili in una fabbrica: sarà puro caos, con i Devo ad applaudire mentre fanno l’occhiolino.



4 Full Of Tension

The Fall, Cabaret Voltaire, Ultravox e Tuxedomoon: nel pentolone dell’arte che vince su qualsiasi forma di vita, ecco il brano che lancia la band verso la goduria senza attriti. Breve, pirotecnica e schizoide, è un manifesto di ritmica e nevrosi nella valle dalle colline brulle.



5 Me And My Dad

Gary Numan va a cena dai Devo più lenti: sarà un ballo cupo, synth lunghi con propensione ad un volo esitante e chiari inserti di Suicide in apnea.



6 Back In Flesh

Il post-punk con la febbre e la chitarra quasi uscita da zone balcaniche invoca una sirena d’allarme su cui il synth balbetta fraseggi provenienti dalle sperimentazioni tedesche. Maestosa, è la manifesta capacità di fare del pressing a tutto campo. 



7 Tse Tse Fly

Il lungo loop che, come una frusta, delinea le zone del proprio comando sensoriale, diventa il palcoscenico di una compagnia di teatro dentro grotte di sale. Ruvida, pesante, con il basso che salda la chitarra nervosa al fiume sintetico, conduce all’estasi con il cantato di ordinanza di Stan.




8 Call Box - 1-2-3

Il carillon dentro una giostra piena di luci e ritmi ossessivi concedono inserti industrial schizzati per velocità e materie prime. Delirante, diventa un gioco di riferimenti su cui sono state messe coperte di vetro e carton gesso.



9 This Way Out

Gli Einsturzende Neubauten di Halber Mensch suggeriscono l’apertura del brano ma poi si rientra nella ormai classica cavalcata dei WOV, per una ulteriore esibizione di pietre lanciate da fionde elettroniche con il basso uscito dai quartieri di Macclesfield e Salford.



10 Good Times

Un valzer del terzo millennio diventa una marcia piena di lividi, con spazi di giocosità non calcolata che concede alla band giochi armonici malati perché contaminati dalle scie di fumi usciti da fabbriche di armi. Straordinaria.



11 - Crack the Bell

L’album ci saluta con spruzzi di Cabaret Voltaire e dei primi The Human League mentre rovistano tra ticchettii di una tastiera in vistosa esibizione. Il ritornello quasi pop dentro il caotico canto di Stan definisce, conclama il capolavoro di questo gioiello salito a bordo di un treno nucleare.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

26 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/0d3TWCJ5Pk8OYONvB5bWZc?si=5ZTOebT3Rq-Vm-op_x4Yqw






My Review: Wall of Voodoo - Dark Continent

 My Review:


Wall of Voodoo - Dark Continent


Moods, noises, smells, endless trips, stars gliding over planet earth, roots of electronic horns, perversions with a mask, electrified and suggested madness, western with a gun on frenetic and panting keyboards, tepid dangerous scenarios, darkness and danger.

We could start from here to understand the content of an absolutely seminal album, a cuisine of known and unknown ingredients served in the rich dish of art with a capital letter.

Not a band, not a set of songs, but the vitamin of madness synthesised and rocket launched towards our dazzled minds. Everything that had been created over at least two decades of experimental, electronic music mixed with various genres, here finds an evolution, an improvement, a shedding of class and absolutely new insights that cannot be questioned.

Apotheosis without doubt: to stand by it even today, after 41 years and thousands of listens, does not take away the conviction of a record that still teaches and amazes us, sows suggestions and reflections that can only lead to the definitive affirmation that it was, is and will always be a masterpiece. 

With a stylised, visionary, cinematographic, hypnotic, obsessive manner, capable of gravitating with agility in post-punk as in electronic music (always of American matrix), its structures and sonic invocations are impulses, beats, rhythmic and sensorial deflagrations towards its stripping away and futurist projection coming from a past that was beginning to be antiquated. They took care of it: Stan Ridgway, Joe Nanini, Bruce Moreland, Chas Gray, Marc Moreland.

The band from Los Angeles sowed, developed and partially harvested: they didn't get the sounding board they deserved, but they managed to be relevant and decisive, rightfully entering the Olympus of music.

I speak of this exercise in style and acrobatic sound circumnavigations that have made Dark Continent the father of a different attitude to creative processes and their forms, the river that divides the earth and nourishes the sky. Thirty-five minutes of artificial fertilisation, magic wands disguised as transistors and modern effects that certainly do not erase the past. Years later, the terms Crossover and Miscellany were coined, but long before that, all this had already been planned and created, and WOV are surely to be counted among them. A pioneering, swaggering, absurd and, in its own way, exasperating record: the courage of indifference connected to reasoned delirium. The Acme Soundtracks studio was the daddy of this rational earthquake, the base from which to start and which put in Stan's suitcase magnetic pills with thermal and emotional expansion. Slowly, after four years, he and the other messengers of the Moon and the Sun have procreated a life that does not die, a peculiarity that only the Deities possess.

The songs have complex lyrics, with their eyes on the enormous natural dangers, the advancement of issues related to the tension of industrial processes. In all this there is also room for a large share of interest in relationships, social rather than sentimental, poised between courage and battling appearances in the upheaval of safe balances, as a form of contrast to a modern society that was beginning to build up a sense of speed and of rejection towards the past. 

Many things turn out to be incredible in this imaginative journey: take for example the drumming part. You think it is often a drum machine the one you listen to and then you discover that there is a real drummer to make that essential part ghostly and robotic, turning the whole thing into a product created in a laboratory when in fact there is human sweat descending over the skins of a spectacular drum kit.

And then what sounded like synth pads and patterns give back something ancient and related to our nature. The post-punk attitude of the guitar, often shuddering and resembling the running of a sprinter, finds itself working with synthesisers that seem to come out of the late 1950s in miraculous conspiracies of Time. Take the bass: a grey meteor that appears in jerks, without continuity, often absent, when it shows its granitic presence that seems to have studied the fairy-tale simplicity of Peter Hook from the other seminal band called Joy Division. There is also a methodical affinity to Suicide's devilish swans: WOV sound like devoted sons writing hypnotic sparks on plastic sheets that could have been designed by the New York duo. If we pay attention to the lyrical part, then we have to add to what I wrote earlier the amount of post-industrial paranoia that fills with synthetic perfume words that seem to be more suffocatingly gloomy than many Gothic bands of the time. Stan overturns centuries-old convictions by writing apocalyptic scenarios with the timbre of an ice flow. Everything seems like a smooth carpet over his soul: linear, hypnotic, the sound of this mental palace that becomes physical shows an excellent continuity, making it difficult to determine which moments to give preference to. Their connection to Devo can be understood in the cinematic vision that the guys from Los Angeles seem to want to express much more than others, but it is a juxtaposition that lasts less than one would think: because if the band from Akron was more interested in scenarios from science fiction movies, in the debut work of Ridgway and company almost everything seems to derive from the dust of Far West fights with its illusions within the grey cloud of a Western full of electronic bullets to weld an unimaginable temporal marriage. Like a long Halloween weekend that seems to hypnotise the future and shrink it down into just two days of crazy revelry, pranks and whatnot, the whole thing sounds like a merry-go-round of electronic sequins in a visual rollercoaster of unwillingness to stop the fear of icy, hypnotic veins.

An essential album, like the fruit of scientific work that came out of laboratories in secret locations and was published by specialized magazines: WOV have opened up a new expressive era, they have issued warnings without the excessive emotional charge of post-punk to thin it out and compact new solutions within an artistic artifice not so far from reality. It is the expressive freedom of the quintet that produces unpredictable material within the circuit of the early 80s, the era so in need of new and charming energies: we had to go to the city where fiction takes over to balance again our convictions for this set of eleven sea quakes within the labyrinths of trails of liquid sandpaper scratches.

An apotheosis of restrained delusions, with tie and shiny shoes, but piloted by unsuspected black souls.

The importance and beauty of what is unique becomes a wild wave that cannot be repeated because the current of the WOV ocean is destined for its own loneliness, while generations of artists will try to steal every molecule of their class, never succeeding: it is also in this way that we understand that what is without the possibility of repetition is confined to loneliness. 

Dark Continent is the door to that laboratory that closes and divides what is perfect from doomed human nature, a work that is simply incredible and regenerative, the violent mass of a waterfall that not only washes and purifies us, but also takes us to unknown physical and mental places. 

And it is precisely there that the art of perfection reveals itself: it is from these grooves that we can learn to wear scrubs to enter their secret chambers like dumbed-down pupils with no chance of stealing candy from these eternal masters. If beauty has a price, with little money we bring in an endless ocean of atomic diamonds...



Song by Song 


1 Red Light

A horror sting with a primordial synth punk vein for the beginning:  the voice with a mode that seems created by antipsychotic find itself in the swamp of semi-glorious proto-punk guitars and swirling synths.



2 Two Minutes Til Lunch

The bold bass on a steamer headed for the saloon creates a gloomy atmosphere, until the guitar scratches the rhythm and Stan's vocals become trembling for a track straight out of the Ultravox factory.



3 Animal Day

Take Suicide soaked in whiskey, show them the Indians from John Ford's movies and lock them in a factory: it's pure chaos, with Devo clapping as they wink.



4 Full Of Tension

The Fall, Cabaret Voltaire, Ultravox and Tuxedomoon: in the cauldron of art that triumphs over all forms of life, here is the track that launches the band into frictionless enjoyment. Short, pyrotechnic and schizoid, it is a manifesto of rhythm and neurosis in the valley of the barren hills.



5 Me And My Dad

Gary Numan goes to dinner at the home of slowest Devo: it's a sombre dance, long synths with a propensity for an uncertain flight and clear inserts of Suicide in apnea.



6 Back In Flesh

Post-punk with fever and the guitar almost coming from Balkan zones invokes an alarm siren over which the synth stutters phrases from German experimentation. Majestic, it is the manifest ability to do wide-ranging pressing. 



7 Tse Tse Fly

The long loop that, like a whip, outlines the zones of one's sensory command, becomes the stage for a theatre company inside salt caves. Rough, heavy, with the bass welding the nervous guitar to the synthetic river, it leads to ecstasy with Stan's ordinance singing.




8 Call Box - 1-2-3

The music box inside a merry-go-round full of lights and obsessive rhythms concedes industrial inserts splattered with speed and raw materials. Delusional, it becomes a game of references on which glass and plasterboard blankets have been placed.



9 This Way Out

Halber Mensch's Einsturzende Neubauten suggest the opening of the track, but then we fall back into WOV's now classic ride, for a further display of stones thrown by electronic slingshots, with a bass coming out of Macclesfield and Salford areas.



10 Good Times

A waltz in the third millennium becomes a bruising march, with spaces of uncalculated playfulness that grants the band sick harmonic games because contaminated by the trails of fumes coming out of weapons factories. Amazing.



11 - Crack the Bell

The album says goodbye with splashes of Cabaret Voltaire and The Human League of the first period as they rummage through the ticks of keyboards on full display. The almost pop-like refrain within Stan's chaotic vocals proclaims the masterpiece of this gem that boarded a nuclear train.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

26th July 2022










domenica 24 luglio 2022

La mia Recensione: Morrissey - This Is Not Your Country

La mia recensione 


MORRISSEY - This is not your country 


Il titolo è tratto dal film australiano sugli skinhead intitolato "Romper Stomper".

L’eleganza di un respiro che dura il tempo di una canzone è sempre un grandissimo e prezioso appuntamento, anche quando è composta di parole al vetriolo camuffate.

L’ascolto deve sempre essere un quinquennio, minimo, di studio, dove imparare non significhi solo saperne un po’ di più ma diventare intimi con essa, fiori che toccano l’eternità, l’unica concessa, perché una splendida canzone può essere infinita nel tempo e durare millenni.

Il Maestro dell’incanto, il poeta del sorriso storto, il condottiero delle cause perse ma sempre vincitore per il suo coraggio continuo ed estremo, Mr. Morrissey, da Stredford, ci ha consegnato una raccolta di ferite con saggezza in pochi minuti.

Con questo brano siamo testimoni, inermi e addolorati, principi cupi senza trono, le mani bucate che parlano del nostro incessante sbandamento, la strada che, diventata sentiero, ci disperde tutti.

Qui non troverete varianti, momenti esaltanti dove poter cantare, solo una fiumana di lacrime mute, bollenti dentro gli occhi ed una voce che farà sentire il brivido di un dolore aggiunto a questa storia che, sia che unisca o che divida, è molto più di una fotografia, è un raggio X impietoso, una tac, quello che vi fa più comodo pensare.

Rimane l’amarezza e la bellezza che si trovano contemporaneamente nello stesso posto. Moz li fa stare lì per sette minuti e ventitré secondi, un infinito che scende tra le sue note e parole per non morire…

Alain Whyte, musicista dotato di mille petali e sensibilità ormai rare, scrisse questo vento di piume con una breve successione di accordi, un arrangiamento struggente, dando così a Moz la possibilità di devastarci, di inchiodarci alla collina dei pensieri, dove fa freddo e piove tutto il giorno.

E poi lei, unica, inimitabile e qui più struggente che mai: la voce, con il suo cantato trascinato, le piccole incursioni verso saliscendi di tonalità di registro, senza però mai togliere dal suo timbro una cupezza quasi insostenibile, arriva nella mente, prima che nel cuore, per essere quel graffio che potrebbe svegliare le nostre coscienze.

Prodotta in modo magistrale da Danton Paul Supple, capace di dare brillantezza ad un suono mentre cavalca la nebbia e di completare l’arrangiamento, la canzone parte buttandoci sin da subito, nei primissimi secondi, in musica da film thriller. D’altronde siamo in quei dintorni, con le parole di Morrissey che, guardando e annotando lo schifo crescente, non può che fissare il tutto con parole con la testa bassa. 

Chitarre e tastiere che cercano un richiamo alla musica popolare inglese, tintinnii a illuminare le tristi scene, sino a graffi e tamburi che prepotenti si affacciano per calcare la mano.

Quando un brano profuma di rassegnazione, il soldato britannico punta la sua arma e non ci resta che cucirci la bocca: davanti a questa canzone si può rimanere solo muti.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Luglio 2021



https://open.spotify.com/track/23gGkKRkuelLmEV1VTA11Z?si=H-DXkQWrS96Y8Auak26Vww



Road blocks and fire

Barbwire upon barbwire

This is not your country

Armoured cars, corrugated scars

Graffiti scrawls:

"This is not your country"

"Home sweet fortress"

"Gunshot" - "We hate your kind"

"Get back!"

"This is not your country"

I need some air 

And I'm stopped and repeatedly questioned 

Born and raised

But this is not MY country 

We're old news 

All's well 

Say BBC scum 

One child shot, but so what?

Laid my son 

In a box, three feet long 

And I still don't know why 

A short walk home becomes a run 

And I'm scared 

In my own country 

We're old news 

All's well 

Say BBC scum 

Everybody's under control 

Of our surveillance globes 

We're old news 

All's well 

And thirty years could be a thousand 

And this Peugeot ad 

Spins round in my head 

British soldier pointing a gun 

And I'm only trying to post a letter 

A short walk home becomes a run 

And I'm scared, and I'm scared, I'm scared 

Old news 

All's well 

BBC scum 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth

sabato 23 luglio 2022

La mia Recensione: Tuxedomoon - In a Manner of Speaking

 La mia Recensione:


Tuxedomoon - In a Manner of Speaking


 L’abbandono: questo mistero che parte dalla fisicità e arriva ai sensi, sostando nella mente come libertà, nel caso sia stato scelto. E allora tutto pare un nuovo cosmo che lubrifica le possibilità, arrivando ad essere pura genialità anche solo per averlo ritenuto possibile.

 È quello che hanno fatto i Tuxedomoon nel 1985: nuove fiammate creative ma senza considerazione per quello che era stato composto in precedenza, per una carriera che aveva generato clamori, gemme di piena avanguardia sonora, trame artistiche poi studiate e copiate da molti, per un insieme perfetto di post-punk e cabaret sino ad approdare a espressioni di elettronica diversa, valida, sempre oscura. Avevano portato la paura e il terrore nei loro Live set e la loro musica era studiata, rispettata e in grado di sconvolgere. 

 Invece nell’album Holy Wars arriva l’eleganza, la ricerca della “bella” canzone e forme multiple di sentimenti a rendere le cellule sonore dipinti dall’ombra decadente e piovigginosa, il passo della vecchia Europa che si mette l’abito per andare a bere un cocktail tra la polvere grigia di una stagione con poca luce. Dove i Japan e i Wall of Voodoo sembrano presenze poco velate, i Tuxedomoon spingono verso la frammentazione degli antichi slanci e si rotolano nel fango della ispirazione per respirare progetti che li porteranno a separarsi dal passato in modo definitivo.

 Il brano in oggetto è la summa dell’intero lavoro, lo specchio di una decadente propensione alla confidenza, il posare le maschere su un lettino dove l’amore risulta finito con in dotazione solo domande. Il fuoco dei ruoli, la responsabilità e le conseguenze di tutto questo viaggiano dentro la nebbia sonora della voce incatramata e piangente di Winston Tong, nel momento più lucente della sua carriera, con i lavori spigolosi/destrutturati di Peter Dachert e la meravigliosa esplosione di sibili taglienti di Luc Van Lieshout, il flauto spaziale di Bruce Gedulgig e il controcanto di Steven Brown a regalare maggior pathos.

 IAMOS è una marcia che si prende subito una pausa, entra nella piramide egiziana per seppellire il dolore e parlare con l’eternità, il medico seduto accanto al lettino. Una cantilena che abbraccia togliendo il fiato, sbattendo contro il muro di parole che cercano il vuoto per morire, insieme a noi.

Quando una canzone arriva a sintetizzare una vicenda comune ecco che si genera il contatto con l’evidente stupore, il riconoscersi che non ci rende più unici. Il percorso artistico però fa proprio questo: il tema portante del testo si impossessa della pelle di molte anime, unendole.

 La litania di Winston diventa il chiodo sulla pelle in una settimana fatta solo di lunedì, dove il riposo del weekend non si può nemmeno intravedere e la voce di Steven sembra quella di un Gavin Friday educato: tutto nelle parti cantate serve per conferire alla musica il ruolo di spatola e culla amniotica, in una aspra convivenza che gratta la luce.

 Come una danza macabra di un film di Sergio Leone, le note musicali diventano immagini che escono dalla pellicola per sprofondare dentro una sconfitta dalla perfetta colonna sonora, con due mantra diversi che si dividono la strofa e il ritornello.

 Il brano, lucente di una straordinaria declinante bellezza, sembra la raccolta di lacrime copiose che si sono date appuntamento proprio in queste note: tutta la frustrazione dell’ascolto ci porta a fasciare di rose l’involucro per non dimenticare il nostro destino che è incastrato perfettamente nelle parole “Give me the words that tell me nothing”, dimostrazione assoluta del vuoto di cui ci impossessiamo con la comunicazione.

 Ci ritroviamo con i battiti ingobbiti e le mani arrese, con questo suono che sembra il canto del vento del funerale che viviamo giornalmente, senza alcuna consapevolezza. E la paura diventa una lezione conscia stabilita da questo pulsare tenebroso, questa mancanza della batteria che annulla il tempo ci priva di ogni danza per dondolare tristemente nella melodia che ci percuote molto di più. Il rimprovero accennato dal testo diventa anche quello degli strumenti, un vagare dentro spalle che si stringono perché è consapevole del fatto che sbagliare sia solo il frutto di una pochezza che sembriamo negare. 

 L’amore che non parla ma che definisce la realtà e forse la verità lascia nel testo un senso pesante di sgomento, un brivido che approda al terrore accennato, dove nessuna sentenza pare definire gli accadimenti. Fascino, attrazione, sconvolgimento si riuniscono nella gola di Winston per incendiare il buio di questa storia, vista dalla tenebre di una canzone che risulta alla fine una frusta su cicatrici in espansione. Ci possiamo accontentare della bellezza artistica quando poi ascoltando il brano siamo circondati da pallottole di vetro, quelle di uno specchio grande come il pianeta in cui viviamo, che ci mostra chi siamo in realtà? Allora sì che il nostro modo di sentirsi può essere sacrificato, come sentenzia il testo, per avere un mondo senza parole, un buio semovente che cancella l’udito. Come se provenisse dalla coscienza senza tempo del franare umano, la canzone sembra essere una Divinità che lascia cadere pillole di saggezza che dobbiamo imparare a masticare, digerire, sino a contaminarci di quella profondità che la condizione umana non ci permette.

 I Tuxedomoon scrivono il comandamento che lo stesso Dio non ha osato creare: affannarsi per trovare il modo di dire parole che stabiliscono il vuoto forse è un processo evitabile e la meraviglia implosa di questo fiato sonoro che si chiama IN A MANNER OF SPEAKING potrebbe divenire la saggezza che dentro la culla del fiume Nilo ci porta a passeggio nel mondo, bocca chiusa, la speranza pura, sino a quando un flauto si spegnerà dentro di noi…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

23 Luglio 2022





In a Manner of speaking

I just want to say

That I could never forget the way

You told me everything

By saying nothing

In a manner of speaking

I don't understand

How love in silence becomes reprimand

But the way that i feel about you

Is beyond words

O give me the words

Give me the words

That tell me nothing

O give me the words

Give me the words

That tell me everything

In a manner of speaking

Semantics won't do

In this life that we live we live we only make do

And the way that we feel

Might have to be sacrified

So in a manner of speaking

I just want to say

That just like you I should find a way

To tell you everything

By saying nothing.

O give me the words

Give me the words

That tell me nothing

O give me the words

Give me the words

Give me the words


https://youtu.be/1ak1bckaKS4





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