venerdì 3 giugno 2022

La mia Recensione: Angst4 - Was Bleibt

 La mia Recensione:


Angst4 - Was Bleibt


Tentacoli notturni rendono selvaggio l’impulso di una danza simmetrica, come contrabbando di note sparse e raccolte da mani sapienti e capaci di veicolare la saggezza del suono proveniente dalla patria del frastuono ordinato, la mastodontica Germania.

Un afflato vagante, permeante, permanente sui nostri istinti che a scatti seguono la stella cometa all’interno di una nuvola: la si sente, non la si vede, ma la sua esistenza pulsa con i nostri raggi bisognosi.

Sono sette, una consecutio temporum che mette tutto a posto, l’educazione che determina l’ordine, uccidendo la confusione.

Angst4 è un plotone di disciplina che nello specifico agisce nel nostro vocabolario ritmico spoglio: urge modificare lo spreco, indirizzandolo verso i territori dove l’unica legge è la conoscenza.

Come sia possibile essere così meticolosi nel dettaglio senza sembrare eccessivi lo sa solo il nucleo operativo della loro intellighenzia, viale ombroso e allucinato in roteanti e straboccanti flussi di energia, che partendo da nervi di acciaio confluisce nella foresta nera, da sempre luogo di ispirazione cilindrica.

Dadi metafisici saltano tra la cittadina di Saarbrücken, per una notte capitale della fragranza sonica, bevendo lapilli di Coldwave attrezzata all’accoglienza di quell’Electropunk capace di incidere tatuaggi cosmici in agguato continuo.

Questo viale imbevuto di ribellione in ascesa si intitola Was Bleibt, miscela liquida/solida che aggroviglia la mente in percorsi di labirinti che sconfinano nella confusione attrezzata per una acclamazione senza fiato: nella discesa verso il piacere le tappe sono trappole in attesa del nostro sangue elettrico.

Ci ritroviamo collocati in una dance floor dalle pareti che pulsano musica in avanscoperta, fulgida e magnetica, come una guerra nucleare dei sensi che cadono per terra, stremati.

I nostri corpi come selvaggina, come cavie senza abbellimenti, al cospetto di una follia che deturpa il cielo dei nostri sogni. 

Un album che piazza il suo tergiversare nevrotico tra considerazioni rese limpide dai suoi gioielli in fase di decodificazione continua, con il linguaggio dell’intensità che diviene petroso e lunatico. 


Nulla è nuovo, all’interno di questo ventre, ma supera l’entusiasmo di chi potrebbe essere deluso davanti a una mancata occasione di creare un genere sconosciuto, di inventare avamposti mai incontrati prima. I tedeschi curano quelli che altri hanno mancato di perfezionare, calibrano generi musicali che stanno conoscendo l’usura e la noia.

Ed è questa l’occasione per sentire la loro ribellione, capace di operare questo malato, non immaginario, che si chiama Coldwave, con suo cugino l’Etectropunk, anch’esso in precario stato di salute. 

Nella condensa di questo salone dove corpi obbedienti danzano inebetiti, robotizzati, grigi e con le manette nei pensieri, l’ascolto di questo album rende possibile il congedo dalla noia accumulata per trovare una forma di divertimento edulcorata e potente, consegnando voluminosi sorrisi in propensione a chi cerca nuove forme di conquista.

L’approccio alle canzoni è una scelta, ma da solo renderebbe sterile ciò che entra nell’apparato uditivo: nel caso di queste sette conturbanti tracce sismiche occorre un decalogo comportamentale che ammazzi un eventuale spreco, perché tutto nel disco è un evento che va riconosciuto e consegnato alla Storia.

Non sentirete atti di sconvolgimenti penetrare il vostro udito, bensì quelle migliorie che viaggiano abilmente segregate e nascoste: a voi spetta diventare maghi sapienti capaci di sciogliere l’arcano e nutrirvi di ricchezze a portata di gioia.

Adottate le misure precauzionali di un giudizio accantonato (non servirebbe, vi distruggerebbe), siate generosi nello studio di movimenti a tenuta stagna, di levitazioni continue nel fracasso che può nutrire le mancanze sicure di una conoscenza specifica di queste lande desolate ma generose di semi sublimi.

E sarà estasi cavalcante dentro l’emisfero di questa sfera di note: metà saranno riconosciute, l’altra metà viaggerà solitaria nello spazio, irraggiungibile e sovrana. L’invito è immergersi in uno scafandro per visitare le particelle di H2O che vagano nei fondali della conoscenza, in attesa che i vostri ascolti diventino carezze.

Saranno allucinanti le spranghe che assaggeranno le vostre gambe, aghi acquiferi entreranno muti sotto la vostra pelle per farne un altare, sconclusionato e perso nel buio del dolore che, è bene ricordarlo, non è mai innocuo.

Potrebbe essere una sfida calarvi nell’oscurità di canzoni come rocce ipnotiche che cadono, come onde, come voli senza paracadute, come urla dalla bocca cucita, perché questo lavoro è una allucinazione senza sostanze chimiche ma altrettanto devastante.

Il mio ascolto si ripete, la lente di ingrandimento scova altre gemme dalla veste scura, come un tesoro all’interno di una piramide, con il vortice che si colloca non solo nelle estremità: si rimbalza dentro birilli ignoti che conducono alla soffocante tristezza di cui è permeato questo pazzesco insieme.

Una fatica ascoltarlo, ma un piacere sublime entra nello smarrimento, nello stupore che riesce ad allargare le mie fauci: sarà così anche per voi se indosserete il camice da studiosi scrupolosi.

Una raccolta di foglie gravitanti intorno allo spazio degli anni 80, minuti di telecamere tra i beats, le pulsioni di un basso alla ricerca di un territorio da rendere martire, una tastiera che compare con apparente leggerezza: suo il compito di stregare definitivamente. Alla chitarra il ruolo di regina generosa ma mai esagerata, l’equilibrio sottile che trasforma l’acqua in oro. 

Non possono nascere dubbi: a volte parrebbero voler essere invisibili, sottili come un pensiero congelato ma poi sanno come prendere calore e donarlo a noi, anime corrose di cotanta maestria.

Andiamo, dobbiamo entrare nei loro cubetti di ghiaccio sino a intossicare ogni nostro battito che diventerà obbediente e malizioso.


Song by Song 


In Gefahr


Sin dalle prime note si rende evidente il territorio espressivo, la dote che sviluppa, amplifica e certifica una zona di interesse che nobilita espressamente due generi musicali che si trovano a braccetto, in uno splendido connubio. 

Il basso e la tastiera sono due mondi cupi che si prestano a generare meteore e meteoriti con il loro tracciato specifico. Post-Punk e Coldwave di profonda attitudine alla volontà di ipnotizzare, usando poche ma incisive note. Ed è polvere da sparo immediato.



Erinnerungen


Tensione nel cantato, una vocazione ad un esistenzialismo scenico notevole che lascia spazio alla parte strumentale, che si appoggia alla scena Jugoslava dei primi anni 80 per un risultato di grande spessore, dove molto gravita verso la sospensione climatica per generare una nebbia che condensa la nobiltà di una tristezza ritmata.



Namenlos


Pioggia trasversale, con l’introduzione che paralizza come estasi dalle piume gelate, si danza poi con il basso dal plettro scintillante, una tastiera tenuta nella retrovia per salire poi davanti ai nostri occhi, per generare estasi e turbinio. Scheletrica, ridondante, misteriosa, con una parte elettronica liofilizzata ed efficiente, scivola dentro il ventre  pieno di elementi tipici dei D.A.F. tenuto volutamente seminascosto per poter riascoltare ricordi sottili, per poi trovare il suo volto di gran classe.



Ein Bild (erste Version)


Un suono, una attitudine profetica di un futuro melmoso esce allo scoperto con questa canzone che mette in rilievo una complessità strutturale interessante.

Si sta in attesa, mentre tutto accade con ingressi di malinconia multipli, che come un serpente assetato ci circondano minacciosi. Un esempio di un lavoro complesso, di soluzioni di arrangiamenti efficaci, il brano che si ferma per poi tornare con la sua ipnosi e nevrosi tipicamente germanica.



Überall 


Essenziale, giocato sull’ampiezza immaginifica, che scarta il superfluo, questo è un esempio di fluida e tossica disciplina sonora, dove tutto è capace di circondare ciò che è brutto e annichilirlo. Echi e bagliori del locale The Cave Club di Francoforte sembrano conservare il magnetismo e la necessità di rendere i battiti corporei di questi minuti un collante di monossido di carbonio per spargere una morte ipnotica sui nostri muscoli rapiti.



S/W


Apoteosi, flagranza di devastante intensità, fiumi di Coldwave incollati con il sangue stagnante conducono a una danza dal cuore genuflesso e riconoscente: il clima della canzone è una lastra semovente dai scintilli pieni di tenebra, un ossimoro necessario e di antica memoria che necessita di essere tenuto in vita. Di una atroce intensità, gli Dei del dolore sentitamente ringraziano: anche loro si ritrovano ad essere immischiati in questa losca frenesia, danzano sino all’ultimo colpo di questo basso assassino.



Sternschnuppen (live im Proberaum)


Atomi di morte trovano la loro dimora in questa frastornante esibizione di lussuria, resa volutamente sacra e lenta, avvolgente dimostrazione di un teatro che ha saputo saccheggiare la violenza della perdita di ogni contatto di sentimenti per raggelare i respiri. Si freme, si invoca la luce ma questo buio non dà scampo: si trema mentre tutto il terrore minimalista echeggia nelle vene che si sfilacciano e muoiono, senza nessun testimone…


E' tempo di prendere questo album, metterlo tra gli artigli del nostro desiderio, farlo riposare per qualche ora e poi tornare al suo cospetto e farci usare, senza ritegno: sarà ingordigia senza barriere...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Giugno 2022


https://angst4.bandcamp.com/album/was-bleibt






mercoledì 1 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together

 La mia Recensione:


Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together


"It was written with Johnny Marr in mind and it is the only song that I have written with him in mind, post Smiths. I saw him in the music industry being used and being pushed around and being manipulated and I felt I was in a situation and I thought, 'Look at me, look at you - it's the same, it's a mess and this is as far as we will go' which wasn't quite true in the end but at that moment it felt pretty despairing for both, I felt despairing for both of us but I was wrong.”

Morrissey,  1992


Dovremmo imparare a guardare il cielo come un luogo dove le presenze si avvertono ma non si vedono, dando alla profondità del pensiero l’assenza della fisicità, che tanto banalizza e annulla la verità perché in grado di creare i presupposti delle scelte che si ritengono fondate, legittime, consequenziali.

E allora in questa volta celeste può trovare posto un angelo che accoglie inviti appassionati, profondi, disperati, in un cammino mentale con il piombo: dove esiste una disperazione tutto può divenire ingarbugliato, come un’edera, che non esclude la bellezza ma complica lo sguardo.

Stephen Street, musicista e produttore degli Smiths, mandò a Morrissey una linea melodica precisa, lui la valutò e decise di chiamare John Metcalfe e altri cinque violinisti per poter conferire al brano una poesia greve, dal sapore ottocentesco, da spedire al cielo. L’inizio di una bomba dalle piume color Disperazione trovò nel laboratorio mentale di Morrissey i suoi primi elementi essenziali per poter dare alla canzone l’unicità che era insita nella sua mente.

C’era bisogno di un vortice, di un limite, di poche note, le variazioni non erano richieste: avrebbero fatto tutto il testo e l’interpretazione del bardo di Stretford.

Accordata la voce con i petali di un disastro, date alle parole la guida per una scorribanda personale, i sei violinisti si ritrovarono a sudare di pelvica gioia innanzi a questa performance dove il tempo fu messo in pausa, dove il messaggio era essenzialmente uno solo, ma dalle tante diramazioni. 

AADWGT è l’amore nei confronti di premure precise, all’interno di una amicizia andata persa dentro il deserto che secca tutte le cose. E da quel deserto Moz si è preso cura di una fine, l’ha gestita, mantenuta in vita solo per novantanove secondi, quelli che bastavano per dare al dolore la bellezza e l’ultima armonia.

L’invocazione a non commettere un suicidio nel sepolcro notturno è il primo elemento per capire l’enfasi, il dramma, la polvere da sparo che vorrebbe trasformarsi in quegli antichi gladioli che un tempo coloravano le stanze di due amici dalla pelle fresca.

C’è un vestito di dolcezza in questo involucro che sfida l’estate, perché il calore fa morire l’intensità dei colori e quello dell’amicizia più di altri corre il rischio di scomparire. C’è una quota di paura enorme che consegna sia alla musica che alle parole il ruolo di fertilizzare chi disunisce, chi gode nel separare ciò che voleva essere eterno. Ed è proprio l’eternità il ricevente di questa lettera dalle foglie caduche.

In un album come Viva Hate, dove la responsabilità era enorme (bisognava tener conto del percorso di cinque anni immensi e significativi), l’esordio solista era atteso con fiori, mitra, tuoni e tantissime paure da parte di chi aveva visto il ragazzo dalla penna dorata essere uno dei pochissimi portavoce di una classe così infinita e indiscutibile.

L’album piacque, conquistò, ma non uccise il lutto.

Ma Angel, Angel Down We Go Together fu un gladiolo che spuntò dalla sabbia del deserto e rese magico l’incontro per una modalità espressiva mai entrata nel campionario effervescente, potente, devastante degli Smiths.

Si finisce per diventare tutti genitori dalle lacrime in caduta libera, come quelle che Morrissey sparge nelle sue righe dalle rughe appena nate: si rimane sedotti da come la voce racconti questa necessità donando a se stessa il privilegio di una modalità mai cantata in precedenza, abbandonando il concetto di pop per avvicinarsi a quello della musica classica. Ipotesi, tentativi di avvicinarsi alla verità potrebbero suggerire che solo questo genere musicale abbia in seno la propensione verso l’eternità.

Ascoltare questo effluvio ferisce il nostro olfatto, perché i sapori buoni sono lontani dall’essere accarezzati, siamo in presenza di un addio che mostra i suoi polsi lacerati ma ancora innamorati. Allora davvero il pianto infinito può durare per novantanove intensissimi secondi, nei quali la clessidra sembra avere la grandezza di una pietra enorme di una montagna chiamata pena.


Si ha, all’ascolto approfondito e ispessito da una pergamena che affianca le parole di Morrissey, l’impressione che esse siano il luogo del cielo adibito alla melodia e alla frustrazione, con questa vena artistica che stordisce le nuvole. Si vive l’esperienza di una compattezza che vuole lasciare libero il rifiuto al nostro abbandono emotivo per poi sequestrarlo del tutto.

Tutta la vampa che scalda i muscoli dei nostri sentimenti ci indirizza verso la struttura della canzone, che è il vincolo essenziale, voluto,  abbandonarsi al quale crea sensi in disunita propensione a fuggire da tutto ciò che eravamo abituati a conoscere del cantante Mancuniano.

Eccolo il rifugio della verità essere grattato da violini gravidi di pioggia dai fianchi graffiati, liberi di avere poco spazio per poter vivere questa storia dal viso scuro che abita le cellule del brano in modo appropriato.

E come uno scontro continuo, la velocità inchioda l’attenzione verso una forma canzone sottile che trova nella parte finale la modalità di farci inginocchiare insieme a un amore che è più forte della vita: l’apogeo diviene manifesto, divinamente.

Due sezioni separate di archi, con struttura e significato, avvolgono le parole per dar loro anche la sensazione che una guerra piena di pallottole melodiche possa finire in un devastante pareggio, dove a vincere è senz’altro il bisogno di tenere tutto perfettamente inserito nell’autostrada vergognosamente felice di un cuore isolato dalla mente.

Non sappiamo cosa abbia deciso l’angelo della canzone: rimane dopo trentaquattro anni il timore che non abbia ascoltato le invocazioni di Morrissey, che l’amore non abbia consegnato a se stesso il respiro che desertifica ogni bisogno di abbandono. Ci rimane in dono un volo con le catene sulle labbra di una canzone che da sola farebbe felice ogni essere umano dotato di buonsenso. Ma non abbiamo dubbi che l’uomo che aveva Wilde dalla sua parte abbia incominciato a creare a partire da questa canzone le tristi connessioni con una solitudine che invecchia anche la più angelica propensione alla protezione di chi si ama.

Abbiamo conosciuto attraverso questo brano la volontà della ricerca dei nemici di chi si ama, le avventure di una mente che, incollata alla sua voce, ha dato alla Storia della bellezza la corona, dalla quale per sempre scenderanno lacrime felici del loro addio al sogno eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

2 Giugno 2022


Words: Morrissey

Music: Stephen Street


"Angel, angel
Don't take your life tonight
I know they take and that they take in turn
And they give you nothing real for yourself in return
But when they've used you and they've broken you
And wasted all your money
And cast your shell aside
And when they've bought you and they've sold you
And they've billed you for the pleasure
And they've made your parents cry
I will be here, oh, believe me
I will be here, believe me
Angel, don't take your life
Some people have got no pride
They do not understand the urgency of life
But I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life"







martedì 31 maggio 2022

La mia Recensione: Gene - Speak To Me Someone

 La mia Recensione:


Gene - Speak To Me Someone


Quanto la notte sia la madre delle insicurezze, delle paure, dei vuoti si è scritto sin dall’antichità, come appuntamento doveroso. Con poco fiato, attacchi di panico, una confusione che velocemente si toglie la maschera per mostrare la sua faccia caratterizzata da una certezza devastante e negativa.

Poi una canzone.

Esplosiva, verace, lapidaria, connessa all’unico sentimento che offre spiragli e realtà positive: l’amore.

Speak To Me Someone è l’impatto tra il bene e il male in una storia dentro un mare alcolico, figlio di una depressione che mette le catene ai respiri, che ruba alle braccia ogni possibilità di trattenere l’armonia di una vita sognata per legittimarne l’esistenza.

Sognante, con i suoi archi elettronici, e la chitarra che ci fa dondolare la testa, in pochi istanti ci ritroviamo storditi con la mente tra aghi velenosi.

I Gene sin dagli esordi hanno saputo attraversare ciò che è impervio, per costrizione personale, per un disagio preferibile ad una mancata gioia perché non sempre l’arte cammina nel territorio del fittizio. Qui le forze convergono davanti all’acclamazione globale di un connubio che restringe il sogno e il benessere, rendendoli inermi. 

La musica è comunicativa con sottile propensione alla drammaticità, mentre il testo scivola inesorabilmente verso la solitudine di un’attesa solitaria, tra il bisogno di parlare e la voce dell’alcol, l’unica che riesca a rendere effettivamente pratica la presenza.

Martin Rossiter colora la voce con parole come petardi che intontiscono e scavano il terreno per le ferite interiori che provocano nel suo animo, dove non è possibile vederne le tracce. Sulla pelle emergono brividi e lacrime, il piacere malvagio di un ascolto ripetuto, come un rito pagano in attesa della sua concimazione totale tra le vie emotive di un malessere coniugato con un perverso piacere.

Perché fa male cantarla.

La band Londinese trova la modalità di descrivere l’amore più tormentato donando frammenti di bellezza mischiati all’assoluta certezza che comporre una canzone simile significa entrare nell’Olimpo, dove risiede una perfezione che non sottintende la volontà di mostrare la felicità.

Con una voce raddoppiata nel ritornello sino ad un urlo raggelante, tormentato, assassino, si rimane con le ossa che si sbriciolano davanti al terremoto emotivo.

La notte apre il cielo dove le parole arrivano, come preghiera arresa, con la musica che scivola insieme a loro sorvolando l’inutilità di una definizione stilistica: conta il contesto, la direzione, minuti nei quali si rivela assolutamente necessario ripetere sia la strofa che il ritornello per morire nell’ultimo verso, dove il tutto si specifica e ci uccide i respiri già martoriati in precedenza.

La compattezza infrange la nostra tentata fuga: ciò che pretende una osservazione avrà sempre il vantaggio di disarmare le nostre intenzioni. Ed eccoci allora ancora a cercare un’adorazione triste, una gioia col barattolo di vernice grigia su meteore di un dialogo reso impraticabile. Non si può parlare con nessuno durante l’ascolto di questa canzone.

È la volontà dei ragazzi dalla faccia pulita che fanno del nostro battito cardiaco una testa spettinata, un urlo composto e decisivo per lasciarci basiti.

E se l’unica bottiglia da bere come liquido contiene il sentimento più nobile, in qualsiasi forma, non ci resta che una ubriacatura continua, dolce e amara, devastante e limpida, perché l’amore vero, per quanto intriso di tristezza, non hai mai un colore torbido.

Con l’oscurità i quattro trovano la modalità vincente per farla divenire una possibilità di confronto, una indagine dove inserire le priorità e buttarsi in un inseguimento che comprende la speranza, non di manifestare il proprio desiderio di libertà bensì di ostacolarlo. Solo in questo modo la canzone chiude il cerchio togliendo ogni dubbio, lasciandoci un senso di sconforto immenso.

È un brano che sembra sospendere il tempo, rendendo limpida la sensazione che il dolore sia stato vissuto in primis, senza una invenzione artistica. Sarà forse il cantato dotato di una sicurezza disarmante, oppure per via di una musica semplice, con echi di R.E.M. di Everybody Hurts, a renderci vibranti con cupa attitudine, a implorare la canzone di non finire.


E che le nostre lacrime siano le coperte delle sue...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

31 Maggio 2022


Testo della canzone


"When darkness folds
Across this old sky
Yes, I'll open up 
For you that night
But still shadows they come
Am I safe in your grasp?
Can I be your arms
Of strength tonight?
I'll wait for the day
When you creep through the window and hold me
Smash into my life now and hold me
Don't set me free
I've waited too long, yes I'm dying
Smash into me someone and hold me
Speed into this life now and hold me
Hold me
Hold me
Can you tell me
Will I ever dream again?
In your arms
I now know that I'm home again
I'm home again
I'm home again
I'm home again
I'm drunk for your love
Speed into my life
Speak to me now
Just speak to me someone
For I know your taste
And I can supply"

Gene:

Steve Mason
Matt James
Kevin Miles
Martin Rossiter












lunedì 30 maggio 2022

La mia Recensione: The Mission - Butterfly On A Wheel

La mia Recensione:


The Mission - Butterfly On A Wheel




Non ci resta che perdere la testa del tutto e credere ad angeli che si erigono a controllori della nostra esistenza, in un gioco fatto con il fuoco dove la complicità è l’unica consolazione.

Non è possibile rilevare dove inizi la tristezza ma spesso in una canzone riusciamo a vederne la forma, dove vive, a volte addirittura quando si spegne. E non è detto che si sia sempre spettatori. 

Tutto ciò accade per questa traccia dei Mission che hanno rivelato finalmente la capacità di non essere solo e specificatamente una band di genere. Saputa conservare la loro tipica decadenza, hanno finalmente scritto una piuma sonora che si eleva e ci eleva su un piano riflessivo e suggestivo, con una storia seducente ed una musica capace di connettere anche elementi di cui loro, precedentemente, erano privi. Rimane un episodio unico ma bellissimo in una carriera che non ha mai entusiasmato lo scriba. Questa eccelle, invece, per diversi motivi.

Non esiste reticenza, resistenza, piano strategico, motivazione che possa condurci nella scatola trasparente dell’indifferenza ascoltandola: come un aspirapolvere ci si ritrova nella trappola, immersi dentro un magico labirinto incosciente, dove la nostra mano preme sul pube. Tutto convoglia nella zona regina del sentire. 

Brano che placa, avanza, scava l’elenco infinito di connessioni romantiche/decadenti per dare all’ascolto un abbraccio che profuma di rassegnazione, con gocce di fantasie senza catene, in un circolo piacevolmente vizioso.

Il drumming che col passare dei minuti si ispessisce, come il basso, consente di dare alla tastiera piangente una posizione specifica, libera di straziare insieme al cantato di Wayne che, dopo aver scritto un testo magnetico, lancia la sua voce tra le braccia di una farfalla soddisfatta.

L’atmosfera è piacevolmente soffocante, una cantilena che mette in contatto il desiderio di una melodia ridotta nei centimetri ma perfettamente connessa ad un trasporto coinvolgente dove ritrovarsi sudati, scossi, imbambolati è cosa buona e giusta.

È una trappola, un volo di cui si conosce in anticipo lo schianto: solo nell’aria si apprezza il cielo delle emozioni, e dove esiste una data di scadenza tutto vive in una forzata coalizione. Si avverte l’unicità, l’appuntamento con la deliziosa propensione ad un incanto che travestendosi da strega ci costringe ad un canto che imprigiona il mondo in una storia dai sogni spezzati.

Si scopre la perfezione di una euritmia che circonda questo delirante ascolto, nel quale la storia raccontata attraversa l’inverno per inchiodarlo nel volo sterile di una testimone che è al contempo la vera protagonista di un rimbalzo emotivo, trasportato in una storia per trovare l’infinito.

È un abbandono totale verso il cerchio magico e simbolico di elementi che sono strutturati per creare la dipendenza che fa escludere il resto: l’ascolto ripetuto è garantito per la vistosa gamma di semi caduti nella perfezione di un pozzo dove la farfalla ci invita, sorniona e cattiva, per farci ammirare le stelle di un cratere emotivo.

Alla sezione ritmica viene ordinato lo stretto necessario, i frammenti di arrangiamenti volutamente limitati liberano la mente verso la concentrazione che nel ritornello si ritrova messa al tappeto da una intensità di difficile comprensione ma dalla resa efficace, intensa, perfetta, trascinandoci verso la constatazione che si possa urlare un amore dalle ali insanguinate.

Segreti nella voracità di un freddo autunnale, non ancora severo ma che già limita il volo, sono gli arcieri magnetici di parole che aprono il consenso di dolori dalla faccia pulita. Non si può che essere anime devastate nello spettacolo di un vento che schiaccia le ali di un insetto che, con grazia infinita, ci muore tra le braccia.

E siamo tifosi di una resurrezione primaverile per ridare alla farfalla un battito, un impulso di vita, per restituirle la bellezza del volo. Il tutto tra le nostre lacrime scomposte. 

Wayne dà all’amore il ruolo di guaritore, con parole generose di intensità atte ad essere generatrici di speranza: nel testo la morte non deve essere concepita, perché nella farfalla si contempla la bellezza e la perfezione. 

Un sibilo feroce apre la canzone per paralizzarci sin da subito, delineando la zona musicale che viene sostenuta dal ritmo che avvolgendoci protegge le immagini, per renderle capaci di vivere nella nostra commozione vera, audace, devastante. 

Butterfly On A Wheel è un tuono delicato, con piani sonori complici, quasi nascosti, posizionati perfettamente in una forma canzone che equilibra l’intensità della strofa con quella del ritornello, in un insieme dove la straziante infelicità unisce entrambe.

Nell’ascolto si prova la felice sensazione di non dover vivere e subire interruzioni ellittiche o invenzioni di sorta che banalizzino questo accadimento dallo stupore immenso. Tutto è progettato nella zona terrestre che si riempie di gocce celesti per accoglienza, per tributare all’amore la sua fedeltà nel desiderare l’esistenza della farfalla che vola magneticamente tra le corsie di note musicali pregne di credibilità, come un amplesso che ne determina consistenza e valore, oltre che integrità.

Esiste un microcosmo sociale, su un tappeto metaforico evidente, che conquista e spaventa per quanto il soggetto della storia sia il valore dell’amore, che in questo brano ha il sorriso di una sconfitta preventivabile.

La voce di Wayne è un’ala dalla traiettoria consapevole della sua caducità, costruita per essere robusta e romantica seppure nella sua ugola siano evidenti segni di una morte che felicemente attende la fine del suo canto magnetico.

Se le canzoni possono essere viaggi questa si rivela essere un qualcosa di più: scavalca l’attualità di un inizio ed una fine per renderlo eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Maggio 2022


https://open.spotify.com/track/2d1vGDzaGWbCkupDsPniA7?si=B7SGsnfmTAmnXLiNSb4C3Q






domenica 29 maggio 2022

My Review: Rita Tekeyan - Green Line

 My Review:


Rita Tekeyan - Green Line


Columns of smoke, in the eyes of men already blind, because they are devoted to see what is not there, for convenience. It is usually men who invent wars and then ask others to make them concrete.

Splinters and tears remain that they will never see nor can they see: there are people who experience losses within their wounded dignity. 

There are records that are born to bring on the table of the powerful with colored buttons the feedback of those secrets, deliberately armed with determination not to let them remain as such. And they are songs like hand grenades, loaded with blanks.

For their will is to make people understand and not to kill.

Rita Tekeyan has now come to her second album and has unfortunately not run out of stories to throw, along with hand grenades, before the blindness of the powerful, and also before us. 

How she can create poetry, melody and rhythm with those wrinkles in her soul is an intense and beautiful mystery, yes, beautiful, because it reveals a force capable of illuminating. They are 12 nails that trace the boundary of a hidden Lebanon, though paths of tense and damaged lives. 

The not famous Green Line, where atrocities pierced the sky of desperate existence: Rita brought light to those streets, to the stories of homes always lit by daily terrors.

She uses her voice like an antelope that still has energy to escape, that does not lose heart and has breath to be the messenger of hope, to finalize her desire for flowery streets.

But at the same time her singing has the desire to take those stories and erase their wrinkles.

The music is a procession of notes through clouds and the melody of a still-living dove, through piano scores and a necessary electronic music, deliberately kept on an evocative plane. These are minutes of magic within tragedy, revealing an energy that encircles our minds. The traumas, wounds and deaths in the album are those of human beings, but especially of women, who know the rays of the sun, and Rita, with her high-pitched singing, with the register of her voice that is sharp, imbued at times with crooning that shakes, makes us aware. We find ourselves with an artistic project that only in its lyrics, for those who are superficial and disinterested, could be indigestible: we should rack the brains of these  people, through the lanes of selfish mental attitudes. 

But I am convinced that the music can be received with less difficulty, given its propensity for interesting and certainly digestible melodic lines.

Rita's voice is white, in touch with the angels: soft yet robust, vibrant, trembling breaths.

Her singing is lyrical and vibrational, conscious and eclectic, portentous and magnetic. It surely makes harmony a dance with a powerful language that fixes our gaze among the rubble of a city brought to its knees.

Electroacoustic, crystalline ballads, syncopated rhythms, trajectories that bring dust which sticks to the mud make these songs a sampler of cues, insights, with ramifications like breaths of wind in the heart of a music that is also wounded, but that has the strength in itself not to be sad.

She does not deny herself dreams, moments of sweetness, but she wants to encircle the burden of pain in front of consciences with low, closed ears.

This musical journey offers us magnets to find atoms of melancholy, kilos of experimentation, miles of an East that was very close to our world. One can hear her deep work on the voice that is capable of moving, of making our emotion intimate. The inner gasps that come are able to activate the senses confining us in the space of a sacred silence, which we feel the need to respect. A passionate singing permeated with spectacular sharp lights, acting on the stage of a theater of confusion and reason. In her deep cuts of poetry connected to drama find place rows of insights and flashes of remarkable dynamism, for a purpose that while being challenging teaches and perfects us. 

A heroine who on the front lines offers her soul to make us understand how the gift of life can be wasted by violence: for this reason alone she deserves our deepest Thanks.

Pack your bags: we leave for Beirut's Green Line, to visit the 12 nails and understand the wounds of others...



Song by song


Once we have presented our boarding pass, we are ready to fly to Beirut: B.L EXPRESS awaits us and we are immediately in Rita's intense expressiveness, with a musical movement that recalls the atmospheres of the Middle East, including European fragrances for a truly evocative whole.

With FORÊT NOIRE the roughness gives way to a more delicate tension, as the Lebanese singer thickens her gaze within the reality of a tormented area.

The poignant ROOFTOPS takes us into a particularly vivid dimension near an esotericism hinted at with her singing that recalls Lene Lovich. 

The tragedy of that city turns out to be no longer questioned with ABRI, with its clear propensity for an ascetic-philosophical rancour that strikes us in full. A song that mutates, a hungry snake shooting venom inside our mouths.

NORA'S TREE, a furious daily dance that seems to act out its suffering on the theater of conspicuous cuts, is a blood clot basing on a piano only to find support from a lineup that pushes toward autumnal-flavored rock.

Drops of gunpowder in the drizzly DEVIL'S OB, the saddest of the twelve nails: the recitative vocals reveal contact with the devilish hemisphere which seems to turn into the smile that flies over our mediocrity. All the blackness of a city that cries out for help not to lose its mind.

DIAMANDA GALAS seems to begin YOUR SIN, a neo-Gothic ballad with an Arabian flavor, with a license to paralyze, because of its dominant theatricality and with killer strings leaning on Rita's voice which once again dominates.

With WEIGHT OF PAIN we come to an apparent gentle music, but after a few seconds a tear-starved violin allows the entry of heavy words sung with a residue of immense pain, an invoked return that proves to be the prayer of those who can achieve nothing more...

Like a timeless ritual the enthralling DK arrives, a necklace of silent visions that envelop the sounds making the song majestic, slowly picking up pace to become a dance among the rubble.

Y: calling Virgin Prunes to vision the situation, the artist creates a cantilena that seduces until her voice register, amid roaring discharges, goes in search of heaven, reaching it.

The lullaby that is about to make us close our eyes, amid sighs and sobs, is titled WHITE ANGEL and is a torrent of spirits held back with the string of courage, the voice seems to generate a gothic reverberation, with Rita's uvula painting the screams. The singing then becomes agitated towards the end to achieve perfection.

The album is concluded with the title song of her second album: GREEN LINE is the author’s farewell from a hospital bed. With its almost neofolk nature, the song sounds like a procession with a wounded face through increasingly silent streets. Declamatory and theatrical, elegant, it succeeds in consoling the inhospitable and corrupt world. Until the final guitar solo that breaks up any remnant of hope, to make way for the explosive, sharp voice, and it is precisely the latter that leaves us helpless among its streets.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29th May 2022


If you want buy the Cd you can contact directly the Artist


https://soundcloud.com/rita-tekeyan/sets/green-line?utm_source=mobi&utm_campaign=social_sharing










La mia Recensione: Rita Tekeyan - Green Line

 La mia Recensione:


Rita Tekeyan - Green Line


Colonne di fumo, negli occhi di uomini ciechi a prescindere, perché dediti a vedere quello che non c’è, per convenienza. Di solito sono gli uomini che inventano le guerre, e poi demandano ad altri di renderle concrete.

Rimangono schegge e lacrime che non vedranno né potranno mai vedere: ci sono popoli che vivono lutti dentro la loro dignità ferita. 

Esistono dischi che nascono per portare sul tavolo dei potenti dai bottoni colorati il feedback di quei segreti, volutamente armati di determinazione per non lasciarli tali. E sono canzoni come bombe a mano, caricate a salve.

Perché la loro volontà è quella di far capire e non di uccidere.

Rita Tekeyan è giunta al suo secondo album e non ha purtroppo esaurito le storie da buttare, insieme alle bombe a mano, davanti alla cecità dei potenti, e pure davanti a noi. 

Come possa creare poesia, melodia e ritmo con quelle rughe nell’anima è un mistero, intenso e bellissimo, sì, bellissimo, perché rivelatore di una forza che illumina. Sono 12 unghie che tracciano il confine di una Libano nascosta, tra sentieri di serenità affannate e colpite. 

La non famosa Green Line, dove le atrocità squarciavano il cielo di esistenze disperate: Rita ha portato luce in quelle strade, nelle storie di case sempre accese dai terrori quotidiani.

Lei usa la sua voce come un’antilope che ancora ha energia per scappare, non si perde d’animo e ha fiato per essere la messaggera di speranze, per finalizzare il suo desiderio di strade fiorite.

Ma allo stesso tempo il suo canto è di permanenza, con il desiderio di prendere quelle storie e cancellare loro quelle rughe.

La musica è una processione di note tra le nubi e la melodia di una colomba ancora viva, tra spartiti di pianoforte ed una elettronica necessaria, tenuta volutamente su un piano evocativo. Sono minuti di magia dentro la tragedia, rivelando una energia che accerchia le nostre menti. I traumi, le ferite e le morti nell’album sono quelle di essere umani, ma soprattutto delle donne, che conoscono i raggi del sole, e Rita, con il suo cantato acuto, con il registro di voce che è tagliente, imbevuto a tratti da un crooning che scuote, ci rende consapevoli. Ci troviamo con un progetto artistico che solo nei testi, per chi è superficiale e disinteressato, potrebbe risultare indigesto: a queste persone bisognerebbe spremere bene le meningi, tra le corsie di atteggiamenti mentali egoisti. 

Ma sono convinto che la musica possa essere accolta con meno difficoltà, data la sua propensione a linee melodiche interessanti e sicuramente digeribili.

La voce di Rita è bianca, in contatto con gli angeli: soffi morbidi ma al contempo robusti, vibranti, tremanti.

Il suo canto è lirico e vibrazionale, cosciente ed eclettico, portentoso e magnetico. Sicuramente rende l’armonia una danza dal linguaggio potente che fissa il nostro sguardo tra le macerie di una città messa in ginocchio.

Ballate elettroacustiche, cristalline, ritmi sincopati, traiettorie che portano polvere che si appiccica al fango fanno di questi brani un campionario di spunti, intuizioni, dalle diramazioni come soffi di vento nel cuore di una musica anch’essa ferita, ma che ha la forza in sé di non essere triste.

Lei non si nega sogni, momenti di dolcezza, ma le preme circondare il peso del dolore davanti alle coscienze con le orecchie basse, chiuse.

Questo percorso musicale ci offre magneti e calamite per trovare atomi di malinconia, chili di sperimentazione, chilometri di un Oriente che era a due passi dal nostro mondo. Si sente il suo profondo lavoro sulla voce che è capace di commuovere, di rendere intima la nostra emozione. I sussulti interiori che arrivano attivano i sensi confinandoci nello spazio di un silenzio sacrale, che sentiamo la necessità di rispettare. Un canto appassionato permeato di spettacolari luci taglienti, di recitati sul palco di un teatro della confusione e della ragionevolezza. Nei suoi tagli profondi di poesia connessa alla drammaticità trovano posto file di intuizioni e guizzi dalla notevole dinamicità, per un fine che pur essendo impegnativo ci erudisce e perfeziona. 

Una eroina che in prima linea offre la sua anima per farci capire come si possa sperperare il dono della vita con la violenza: già solo per questo merita il nostro Grazie più profondo.

Fate la valigia: si parte per la Green Line di Beirut, per visitare le 12 unghie e capire le ferite degli altri…



Song by song


Con il boarding pass consegnato, siamo pronti a volare a Beirut: ci attende B.L EXPRESS e siamo subito nell’espressività intensa di Rita, con un movimento musicale che richiama le atmosfere del Medio Oriente, comprese di fragori Europei per un insieme davvero suggestivo.

Con FORÊT NOIRE il ruvido lascia spazio a una tensione più delicata, mentre la cantante Libanese ispessisce il suo sguardo all’interno della realtà di una zona martoriata.

La struggente ROOFTOPS ci porta in una dimensione particolarmente vivace nei pressi di un esoterismo accennato con il suo cantato che rimanda a Lene Lovich. 

Il dramma di quella città risulta non più messo in discussione con ABRI, con la sua chiara propensione ad un livore ascetico-filosofale che colpisce in pieno. Una canzone che muta, serpente affamato che spara il veleno dentro la nostra bocca.

NORA’S TREE, furibonda danza giornaliera che sembra recitare la sua sofferenza sul teatro dei tagli vistosi, è un grumo sanguigno appoggiato ad un piano per poi trovare sostegno da una formazione che spinge verso un rock dal sapore autunnale.

Gocce di polvere da sparo nella piovigginosa DEVIL’S OB, la più triste tra le dodici unghie: il cantato recitativo rivela il contatto con l’emisfero diabolico che sembra trasformarsi nel sorriso che sorvola la nostra mediocrità. Tutto il nero di una città che reclama aiuto per non perdere la propria mente.

DIAMANDA GALAS sembra incominciare YOUR SIN, ballata neogotica dal sapore arabo, con licenza di paralizzare, per la sua dominante teatralità e con archi assassini appoggiati alla voce di Rita che ancora una volta domina.

Si arriva con WEIGHT OF PAIN ad una apparente musica dolce, ma dopo pochi secondi un violino affamato di lacrime consente l’ingresso di parole pesanti cantate con uno strascico di dolore immenso, un ritorno invocato che si rivela essere la preghiera di chi non può ottenere più nulla…

Come un rito atemporale si affaccia la coinvolgente DK, collana di visioni silenziose che avvinghiano i suoni rendendo maestoso il brano, che lentamente prende ritmo per divenire una danza tra le macerie.

Y: chiamati i Virgin Prunes a visionare la situazione, l’artista crea una cantilena che seduce sino a quando il suo registro di voce, tra scariche roboanti, va alla ricerca del cielo, raggiungendolo.

La ninnananna che sta per farci chiudere gli occhi, tra sospiri e singhiozzi, si intitola WHITE ANGEL ed è una fiumana di spiriti trattenuti con lo spago del coraggio, la voce sembra generare un riverbero gotico, con l’ugola di Rita a pitturare le urla. Il cantato poi si fa concitato verso il finale per raggiungere la perfezione.

L’album termina con la canzone che dà il titolo al suo secondo album: GREEN LINE è il congedo da un letto di ospedale da parte dell’autrice. Con il suo carattere quasi neofolk, il brano pare una processione con il volto ferito tra vie sempre più silenziose. Declamatoria e teatrale, elegante, riesce a consolare il mondo inospitale e corrotto. Sino al solo finale di chitarra che spezza ogni residuo di speranza, per fare spazio alla esplosiva e tagliente voce, ed è proprio quest’ultima che ci lascia inermi tra le sue strade.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29 Maggio 2022


Se volete comprare il Cd potete contattare direttamente l'Artista



https://soundcloud.com/rita-tekeyan/sets/green-line?utm_source=mobi&utm_campaign=social_sharing






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