martedì 3 maggio 2022

My Review - The Maitlands - Live in Oldham






 My Review 


The Maitlands 

Live at Whittles @ Tokyo

Oldham - Manchester 

Friday 29 April 


We are nomads, children of the wind, vagabonds and souls driven by the desire for movement. And music sublimates all this.

You can move a lot, or a little, but it is always a journey that never ends, because it leaves you with the feeling that it will continue.

And so I find myself in Oldham, a place that seems to be enclosed within the smile of the meadows, surrounding a fresh and curious town.

I'm here to see The Maitlands again, Manchester's brightest band at the moment, that I love for its approach to culture and the curiosity of those who don’t feel the need to bind themselves only to the myth of the city. As humble people, they don't want a relationship of complicity with the decades-long history of this place that has become famous, but look for an autonomy and individuality that allows them not to be part of a scene.

Tonight they proved this once again with their best concert I have ever seen.

The compactness of these guys now lies in having eliminated tensions, jealousies. They were already very good but now they are better, a set of beauties that revolve within the complicity which makes the performance exciting and engaging.

They sound like new songs.

Having seen them recently with a line-up reduced to four members, tonight the new one was able to demonstrate their full value: considering they don't get many opportunities to stay together, the result is even more amazing.

The songs this evening were endowed with a spectacular array of colours: the notes gravitated into our hearts, the music was a continuous, powerful flight, and together they carried us towards an awareness of ever-increasing joy, since The Maitlands break the boundaries.

Rob Glennie's and Mike Foy's guitars are bees that sting, but able at the same time to give us honey with their perfect harmony.

Tom Sillitoe is the keyboards wizard who provides melody and vigour to the songs making them complete, while Matt Byrne, with lightness and precision, has taken his bass and made it harmonious.

Saul is not human, let's admit it: his love for drums is so great that all the technique and enthusiasm are combined in a masterful work.

Then there's Carl: his voice, the way he sings, is poetry and, like a shaman, leads us to seductive, total imposition.

A band with a solid present that can allow itself to look to the future with a smile: they have intense songs, capable of making us reflect and of enchanting, they are healthy vehicles of beauty and only the ignorance of a careless world can fail to give them the success they deserve.

Twelve tracks to make the venue full of sublime scents, rhythm and melody and inner richness that combined to make this evening the show of enchantment.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

4th May 2022



Matt Byrne - Bass

Mike Foy - Guitar

Saul Gerrard - Drum

Rob Glennie - Guitar

Carl L. Ingram - Voice

Tom Sillitoe - Keyboard



La mia Recensione: Rifrazione - Nico

 La mia Recensione 


Rifrazione - Nico


La dolcezza: questo nettare connesso alla bellezza che trasforma la tenebra in un raggio di sole.

Vi sono storie umane che ne sono pregne, altre che la cercano. In tutto questo vi è sempre la bellezza.

Poi certi volti, alcune storie umane, danzano sul ventre della riflessione per trovare un equilibrio.

Giuseppe Giannecchini, con il progetto Rifrazione, ha reso omaggio ad una stella dal respiro infinito, ha generato in noi la curiosità per tornare a guardare Nico, la dolcezza fatta bellezza, per lasciarcela ancora in vita, perché dove esiste un interruttore sulla modalità On niente e nessuno può morire.

Nel suo nuovo singolo, un 45 giri in vinile, vi è anche la canzone Terre Oblique, altro incanto a rendere evidente che Rifrazione è un portatore sano di riflessioni, con annesse abbondanti dosi emotive che abbracciano la nostra fame di elementi che subito sanno divenire preziosi.

Aprite le braccia e accogliete Nico e Terre Oblique, perché ci sentiremo davvero fortunati a beneficiare di queste perle bionde…


Nico


Su un tappeto di tasti e dita leggere si muovono cieli morbidi pronti a delineare una donna con il desiderio, prima sogno e poi realtà, di Rifrazione, con parole sottili ed un cantato che è un sorriso d’amore consapevole, profondo, veritiero.

Si piange, si balla, si va a cercare Nico mentre la canzone, come un velo ammaestrato di luce, ce la consegna dentro i nostri occhi. Con un fare artistico votato al pop acustico, dove vincono i sussurri e non le grida, il brano è maestoso, generoso di piume da cullare, rendendo “muta la tristezza”…


Terre Oblique


La coda di luce perfetta che rende la canzone Nico sempre viva: un pianoforte pieno di giochi magnetici volteggia su campi di fiori preparando i ciuffi d’erba per Nico, perché sia libera di camminare facendo poca fatica. Morbida, sensuale, la melodia libera le lacrime che cadendo per terra puliscono quel prato…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

3 Maggio 2022


Il singolo sarà disponibile, in versione digitale, su Bandcamp, dal 6 Maggio 2022.

E poi lo ci sarà anche il vinile formato 7"




sabato 30 aprile 2022

La mia Recensione: Fields of the Nephilim - Dawnrazor

 La mia Recensione 


Fields Of the Nephilim - Dawnrazor 


Spilli.

Ciglia dormienti.

Sale su ferite rotolate per terra.

La malvagità rantola sulle caviglie di anime in cerca di turbamenti.

Eravamo negli anni 80, tempio del Divino sfacelo che abbracciava la crescente stupidità, annodata al delirio di mode, cambi di rotta insensati e squallidi.

Ma dal nord di Londra si fecero avanti quattro oppositori, vestiti di letture sparse nel buio di rocce umide e fatiscenti.

Liberati dai loro moti di ansia e noia, si sono immersi in campi pieni di flusso sanguigno che hanno colorato di nero. 

Ubriachi fradici di Aleister Crawley e H.P. Lovercraft, si sono buttati sulle rive di comete impazzite, guardando angeli impegnati a cercare donne da ingravidare. Iniziato il viaggio verso l’apocalisse, hanno saccheggiato i respiri, donando polvere per insaccare i polmoni e spegnerli.

Come terremoti senza cuore, hanno stretto un patto con il buio, afferrata la gola della bellezza e generato un percorso di indagini colme di unto, colte come volumi infiniti di libri dai codici scomodi e urticanti. Viandanti sbilenchi con pensieri tossici, hanno anestetizzato la luce per consegnare al Maestro del Buio la loro fedeltà.

Hanno imbracciato strumenti per sparare tossine, farci precipitare nel delirio della confusione che gode quando tutto vaga perduto, privo di senso, di regole, di stupidità dalla coda di topo.

Hanno inventato vascelli mentali che banalmente noi definiamo canzoni: sono urla strappate alla sofferenza per crearne altre, come una perfida giostra che sfinisce.

Hanno fatto della nostra tristezza la loro atomica risata collettiva, brindando sulle nostre paure, sui nostri stomaci arrovellati. E ci hanno sequestrato i palmi che hanno cosparso di antica remissione: senza presa non possiamo che cadere nel vuoto che Santificano e benedicono come loro nettare supremo.

Ma semplifichiamo…

Uscì Dawnrazor e quelli che avevano a cuore la sorte del muro gotico tirarono un sospiro di sollievo: le tenebre erano state allargate con nuovi scrigni da aprire, regalando una ossessione che generava brividi e singhiozzi.

Dopo che il Post-Punk e la Darkwave avevano incominciato a divenire una banale ripetizione di cliché privi di eccitazioni percorribili, ecco che i quattro, ora in cinque, si sono gettati sulle terre sporche, piene di liquami dalla faccia stravolta, per partorire scosse elettriche erudite dalle tenebre più intense e sincere. Canzoni come mappe della perdita, come carni strappate alla inutile corsa verso il piacere. Loro hanno deciso che era giunto il tempo che nuovi predicatori scendessero per cambiare il verbo del nostro credo. 

Un esordio come un funerale: quello delle banalità che davanti a codesta esibizione di follia si sono sentite smarrite e abbattute. Morte su morte per inneggiare al nuovo Re del cielo: Cthulhu.

Come è profondo il mare della paura, senza fondale, senza un confine che non si vede nemmeno con un cannocchiale: tutto si fa lontano, irraggiungibile.

Ma quale musica!

Figuriamoci delle canzoni.

Sono lapidi che vociferano preghiere non afferrabili, fuochi di terra in assalto sui nostri timpani.

Non aspettatevi delucidazioni tecniche, non ora, perché lo scriba sta viaggiando dentro l’impossibile, conoscendo dirottamenti, piangendo al millesimo ascolto di questo tripudio di rovi, senza possibilità di avere cognizioni da scrivere.

Sono ancora perso, ora come allora, nel disastro che ho compiuto quel pomeriggio, decidendo di addentrarmi in un labirinto che da quel momento è un latrato da cui dipendo.

Sentirsi una pergamena presa a calci da cani infedeli è sconvolgente: non c’è un solo momento in Dawnrazor nel quale tu possa pensare che sia solo un delirio con un timer. Te ne accorgi quando la musica tace. Perché tu continui a bestemmiare, inveire, supplicare un perdono che i cinque non concederanno. 

Mi chiedo perché si debba essere così ingenui e al contempo così privi di mancanza di rispetto per gli altri andando a scrivere una recensione su questi diavoli sordi: ma certo, che idiota che sono, è colpa loro, mi hanno portato dalla loro parte, neutralizzando la ragione che avevo sino a quel pomeriggio.

Dunque: mi conviene parlare della loro immortalità, dei loro mantelli sui quali troviamo la loro Bibbia, l’urgente bisogno di renderci ubbidienti e apostoli di una nuova religione.

Allora non puoi che adorare le chitarre come scimitarre arrugginite, il basso come il castigo delle rocce, la batteria come il fiato dello scorrere della nostra ignoranza: questa è la prima colpa da espiare.

La seconda è il moto perpetuo di difese scardinate: niente può fermare la malsana scrittura, la voce con cristalli scoppiettanti verso la rupe impregnata di fango di Carl McCoy.

Ed è stratosfera accecante, grumi nell’ugola per parole che come una genuflessione senza sconti sbuccia la pelle. Delirio su delirio infinito, come vulcano inceppato senza possibilità di fermare la lava.

Un album che sentenzia la separazione tra ciò che deve far male e quelle band affamate di imitazioni. Si è perso tempo nel definirli i fratellini dei Sisters of Mercy: sarebbe ora di fare chiarezza, di saper ascoltare e di capire che non vi è finzione nell’arte dei FOTN, il che costituisce il primo tassello per affermare la loro differenza. Dawnrazor è il fulmine che separa la massificazione mediocre di un gothic rock che aveva perso smalto rispetto alla vivida scissione nucleare dei cavalieri di Stevenage, che hanno scartato ciò che anime vuote avevano spacciato per utile.

L’ascolto di questo esordio rivela maestria, scaltrezza, coraggio, acume. E modalità di scrittura come nessuno prima e nessuno dopo: hanno fermato le nuvole e le hanno riempite di stratagemmi irripetibili e in quanto tali eterni.

Proverò a descrivere ciò che è indescrivibile, mi annienterò per darvi i loro graffi, cercherò una terapia che mi aiuti a trovare il coraggio che manca a chi si sente indegno, perché questi tredici uragani ci aspettano nella loro tana per congelarci con la paura ed il mistero senza più cielo.


Song by Song


Intro (The Armonica Man)


Prendi una lama insanguinata, vai a scovare Morricone con la sua eleganza e mettigli del sale: tutto sarà più tetro e catastrofico. 

Le chitarre creano uno scenario horror da capogiro ed è subito caos con un drumming che abbassa il Pianeta Terra: si va negli inferi.


Slow Kill


Epica, esoterica, cilindrica e sconvolgente, la seconda traccia è un sorriso scaduto, putrefatto, veloce per portarci davanti a un nuovo Messia, senza possibilità di scelta, per naufragare dentro i vortici ellittici di chitarre velenose.


Laura II


Quando il basso pulsa come il respiro atroce della gramigna soffocante. Ed è una nuova corsa per una canzone rivisitata, corretta, resa la Regina del regno vocale di Carl, Signore del racconto malsano. Le chitarre si incrociano, ci portano ad avvilupparci al goth senza però rischiare la noia. Il giro della morte passa di qui, rapisce, saccheggia il cuore e saluta. Nel finale, dove troviamo un cambio di ritmo e di atmosfera, sembra che il cielo si apra per donarci un sorriso: sia mai, è solamente un raggiro meraviglioso…


Preacher Man


Non è Morricone qui ma Giuliano Gemma nel film “ARIZONA COLT/MAN FROM NOWHERE” di Michele Lupo, a donarci la polvere di pistole dentro un deserto dove la morte spara i suoi proiettili. Ed è il regno della confusione, di mantra obliqui, del senso di morte che ai cinque serve per eliminare il senso del bello per sostituirlo con l’alienazione e la madre dell’inferno: la paura. Mentre le città dormono loro iniettano veleno a raffica.

Incalzante, nevrotica, è polvere di muffa ad avvolgerci, con radiazioni e contaminazioni…


Volcano (Mr. Jealousy Has Returned)


Chi detiene il destino mostra il suo ghigno dentro il cuore di una donna, per farla bruciare nel suo vulcano malefico: è una devastazione psichedelica di chitarre irritanti e malate a marcare il terreno della follia. I FOTN mostrano muscoli che si incollano con il gothic rock supremo e vincono la partita del dolore, della sopraffazione. 


Vet for the Insane


Tutto prende il fiato necessario per resistere all’oppressione e cosa è meglio di un inganno lento? I sacerdoti rallentano il ritmo, ma facendolo sferrano un attacco che, attraverso un fare onirico, spezza le gambe e dichiara il loro potere assoluto.

Il suono affoga per paralizzare i fiori di una cucina devastata. Non c’è più la casa, tutto è sommerso nella delicata presa in giro di un finto basso delicato, come le sue chitarre, che come gemelle cruenti adoperano una melodia ingannevole per far saltare in aria la nostra abitazione: ciò che era saldo in noi muore. Fine.


Secrets 


I sacerdoti reclamano un percorso nel quale li si segua con pura ubbidienza. Lo si fa per perdersi del tutto, con il perdono a celebrare il loro trono. È la vittoria di chitarre in piena forma, serpenti che si incrociano con il basso che detta legge mentre la batteria scuote la polvere delle nostre ossessioni. Maestoso esempio di come il loro desiderio si compia staccandosi dai limiti di quel genere musicale, trovando la giusta via di fuga per determinare la strategia della complessità.


Dust


Un cervello nuota in una piscina per conoscere l’affollamento del nulla: Dust è la bomba atomica Londinese che distrugge il nemico. I FOTN mangiano il sangue e bevono l’aria cristallina della polvere cadaverica. Una marcia militare dove gli ordini sono dati da un basso che rimbalza nel cervello, la voce ansima esplodendo in toni bassi camuffati e rauchi: sia dato spazio agli eroi muti e mutilati che la batteria scuote e invita all’attacco. 


Reanimator


Una donna viene aiutata, sul letto di morte, con poche chances. Cristalli liquidi danzano dentro a quel paio di sei corde semplicemente connesse in arpeggi sublimi e incantevoli. Si trasformano, questi angeli neri, come cattivi Samaritani, per donare illusioni, conficcando la loro lama e usandola come grovigli sonici complessi ma esaustivi. 

E quando accade che il ritmo ci scuoti in questo modo rimane la pelle sudata ad accertare il nostro tremore.


Power 


Ciò che conquista sequestra la libertà: i FOTN compiono furti con parole sibilline e chitarre che si addentrano in un blues che vive in un saloon: sornione, amaro, ma devastante. È un treno che sbuffa, il suo carbone annerito inquina il cielo, mentre scende sotto la pelle della terra per renderci sognatori devastati. Un raro solo di chitarra sorprende e confonde per poi consegnare alla sezione ritmica il potere di incendiare i sogni.


The Tower


Quanto è adorabile la corona di lacrime che Carl depone sul capo di questa donna sfortunata?

Una storia fatta di ortiche che lentamente salgono nel cielo per creare il ritmo e divenire il martello disperato che schiaccia ogni resistenza. È il post-punk che si congeda e lascia la scena al gothic-rock per una catarsi sanguinolenta. Un su e giù ritmico che sembra un elettrocardiogramma a determinare il cortocircuito di quella donna esangue.


Dawnrazor


Ed ecco morsi cruenti attaccare la resistenza dei sogni: lotta all’ultima goccia di sangue. Le chitarre sferrano l’attacco, la batteria rotola sui respiri, il basso spinge la cenere a impolverare la scena. 

Carl prende la voce e la getta nel cratere infernale: il suo guanto diviene lametta e il suo canto è preghiera volgare, tumefazione in corso, in attesa che il flusso maligno smetta di imperversare. La curva gotica esplode con l’applauso delle creature macabre che si inchinano, devote.


The Sequel


L’album finisce con la morte che torna: terrore, brividi, lacrime inutili a illuminare un volto smarrito. Tripudio, la vittoria del male, la successione dei fatti accaduti in questo album determinano il senso di dipendenza dal fragore, dalla resa che era messa in preventivo. La formazione inglese è un corsaro dall’incubo allenato ad infierire, per vincere sempre. Ci si ritrova con il brano che è l’unico che può chiudere questo percorso: bisognava creare l’apoteosi concettuale, con un testo ed un attacco musicale pieno di lapidi gioiose. Certificata la nostra sconfitta, cantiamo inni rivolti a Cthulhu. Lo spirito di Howard Phillips Lovecraft vaga tra le bolle infuocate: The Sequel è l’altare dove si mostrano i sensi arresi e il martellare del drumming è la celebrazione di un vanto esplosivo. 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1 Maggio 2022


  • Carl McCoy– vocals
  • Peter Yates – guitar
  • Paul Wright – guitar
  • Tony Pettitt – bass
  • Alexander Wright – drums




My Review: Fields of the Nephilim - Dawnrazor

 My Review 


Fields Of the Nephilim - Dawnrazor 


Pins.

Sleeping eyelashes.

Salt on wounds rolling on the ground.

Wickedness wheezes on the ankles of souls in search of disturbances.

It was the 1980s, a temple of divine decay embracing growing stupidity, knotted to the frenzy of fashions, to senseless and bleak changes of direction.

But from north London four opponents came forward, dressed in scattered readings in the darkness of damp, crumbling rocks.

Freed from their motions of anxiety and boredom, they plunged into fields full of blood flow which they coloured black. 

Drunk from Aleister Crawley and H.P. Lovercraft, they threw themselves on the shores of comets gone mad, watching angels busy looking for women to impregnate. As the journey towards the apocalypse began, they plundered the breaths, donating dust to bag our lungs and extinguish them.

Like heartless earthquakes, they have made a pact with the dark, grabbed the throat of beauty and generated a path of investigations full of oil stain,   cultured like endless volumes of books with uncomfortable and stinging codes. Lopsided wanderers with toxic thoughts, they anaesthetised the light to deliver their loyalty to the Master of Darkness.

They have taken up instruments to shoot toxins, to plunge us into the frenzy of confusion that is satisfied when all wanders lost, devoid of sense, of rules, of rat-tailed stupidity.

They have invented mental vessels that we banally call songs: they are screams snatched from suffering to create new ones, like a wicked merry-go-round that wears us out.

They have made our sadness their atomic collective laughter, toasting our fears, our troubled stomachs. And they have seized our palms, sprinkling them with ancient remission: without grip we can only fall into the void that they sanctify and bless as their supreme nectar.

But let us simplify...

Dawnrazor was released and those who cared about the fate of the gothic wall breathed a sigh of relief: the darkness had been enlarged with new chests to open, giving an obsession able to generate shivers and sobs.

After Post-Punk and Darkwave had begun to become a banal repetition of clichés devoid of possible excitement, the four guys, now five in number, threw themselves on the dirty territories, full of slurry with a twisted face, to give birth to electric shocks erudite by the most intense and sincere darkness. Songs like maps of loss, like flesh snatched from the useless race towards pleasure. They decided it was time for new preachers to come down to change the word of our creed. 

A debut like a funeral: that of the banalities that in front of this exhibition of madness felt lost and dejected. Death after death to praise the new King of Heaven: Cthulhu.

How deep is the sea of fear, without a backdrop, without a border that cannot be seen even with a telescope: everything becomes distant, unreachable.

Here it cannot be said that we are talking about music!

Let alone songs.

They are tombstones vociferating ungraspable prayers, earthly fires assaulting our eardrums.

Don't expect technical explanations, not now, because the scribe is travelling inside impossible, experiencing hijackings, weeping at the thousandth listening to this riot of brambles, with no chance of having any knowledge to write about.

I am still lost, now as then, in the disaster I made that afternoon, deciding to enter a labyrinth that from that moment is a howl on which I depend.

Feeling like a parchment being kicked around by faithless dogs is unsettling: there's not a moment in Dawnrazor when you can think it's just a delirium with a timer. You realise this when the music falls silent. Because you keep swearing, railing, begging for forgiveness that the five of them won't grant. 

I wonder why you have to be so naive and at the same time so lacking in respect for others writing a review about these deaf devils: of course, what an idiot I am, it's their fault, they brought me to their side, neutralising the reason I had until that afternoon.

So: I'd better talk about their immortality, their cloaks on which we find their Bible, the urgent need to make us obedient and apostles of a new religion.

Then you can't help but adore the guitars as rusty scimitars, the bass as the chastisement of rocks, the drums as the breath of the flow of our ignorance: this is the first guilt to be expiated.

The second is the perpetual motion of unhinged defences: nothing can stop the unhealthy writing, the voice with crystals crackling towards Carl McCoy's cliff full of mud.

And it is blinding stratosphere, lumps in the uvula for words that like a genuflection with no discounts are capable of peeling the skin. Delirium after infinite delirium, like a jammed volcano with no possibility of stopping the lava.

An album that sentences the separation between what must hurt and those bands hungry for imitations. Time has been wasted in calling them the little brothers of The Sisters of Mercy: it would be time to clarify, to listen and to understand that there is no fiction in the art of FOTN, which is the first step to affirm their difference. Dawnrazor is the lightning bolt that separates the mediocre massification of a gothic rock that had lost its edge compared to the vivid nuclear split of the knights of Stevenage, who discarded what empty souls had passed off as useful.

Listening to this debut reveals mastery, cunning, courage, insight. And writing methods like no one before and no one after: they stopped the clouds and filled them with unrepeatable stratagems and as such eternal.

I will try to describe what is indescribable, I will annihilate myself to give you their scratches, I will seek therapy to help me find the bravery that those who feel unworthy lack, because these thirteen hurricanes are waiting for us in their den to freeze us with fear and mystery with no sky left.



Song by Song


Intro (The Harmonica Man)


Take a bloody blade, go find Morricone with his elegance and add salt: everything will be more gloomy and catastrophic. 

The guitars create a dizzying horror scenario and it's chaos immediately with a drumming that brings down Planet Earth: we go in the underworld.


Slow Kill


Epic, esoteric, cylindrical and upsetting, the second track is an expired, putrefied smile, fast to bring us in front of a new Messiah, with no choice, to wreck inside the elliptic vortices of poisonous guitars.


Laura II


When the bass pulses like the atrocious breath of the suffocating Bermuda grass. And it's a new run for a song which is revisited, corrected, made the Queen of the vocal kingdom of Carl, Lord of the unhealthy tale. The guitars cross, leading us to wrap ourselves in goth without risking boredom. The tour of death passes by, ravishes, plunders the heart and says goodbye. In the end, where we find a change of rhythm and atmosphere, it seems that the sky opens up to give us a smile: heaven forbid, it is only a wonderful deception...


Preacher Man


There is not Morricone here, but Giuliano Gemma in the film "ARIZONA COLT/MAN FROM NOWHERE" by Michele Lupo, who gives us the dust of guns in a desert where death fires its bullets. And it is the kingdom of confusion, of oblique mantras, of the sense of death that the five guys need to eliminate the sense of beauty in order to replace it with alienation and the mother of hell: fear. While the cities sleep they inject poison in bursts.

Incessant, neurotic, it is mould dust which envelops us, with radiation and contamination...


Volcano (Mr. Jealousy Has Returned)


The one who holds the destiny shows his grin inside the heart of a woman, to make her burn in his evil volcano: it is a psychedelic devastation of irritating and sick guitars to mark the ground of madness. FOTN show muscles that stick to supreme gothic rock and win the game of pain, of overpowering. 



Vet for the Insane


Everything takes the breath it needs to resist oppression and what is better than slow deception? The priests slow the pace, but in doing so they launch an attack that, through dreamlike manner, breaks the legs and declares their absolute power.

The sound drowns to paralyse the flowers of a devastated kitchen. There is no more house, everything is submerged in the delicate teasing of a delicate fake bass, like its guitars, which as bloody twins use a deceptive melody to blow up our home: what was firm in us dies. The end.


Secrets 


The priests demand a path in which you follow them with pure obedience. You do it to lose yourself completely, with forgiveness celebrating their throne. It is the victory of guitars in great shape, snakes that cross with the bass that lays down the law while the drums shake the dust of our obsessions. Majestic example of how their desire is fulfilled by detaching from the limits of that musical genre, finding the right escape route to determine the strategy of complexity.


Dust


A brain swims in a pool to know the crowding of nothingness: Dust is the London atomic bomb which destroys the enemy. FOTN eat blood and drink the crystalline air of cadaveric dust. A military march where the orders are given by a bass that bounces in the brain, the voice wheezes exploding in camouflaged and hoarse low tones: let there be space for the mute and mutilated heroes that the drums shake and invite to attack. 


Reanimator


A woman is helped, on her deathbed, with little chance. Liquid crystals dance within that pair of simply connected six-strings in sublime and enchanting arpeggios. They transform, these black angels, like bad Samaritans, to give illusions, sticking their blade and using it as complex but exhaustive sonic tangles. 

And when the rhythm shakes us in this way, the sweaty skin remains to ascertain our trembling.


Power 


That which conquers entraps freedom: FOTN make robberies with sibylline words and guitars that delve into a blues which lives in a saloon: sly, bitter, but devastating. It's a puffing train, its blackened coal polluting the sky as it descends under the skin of the earth to make us devastated dreamers. A rare guitar solo surprises and confuses and then hands over to the rhythm section the power to ignite dreams.


The Tower


How adorable is the crown of tears Carl places on the head of this unfortunate woman?

A story of nettles slowly rising into the sky to create the rhythm and become the desperate hammer that crushes all resistance. It is post-punk that says farewell and leaves the scene to gothic-rock for a bloody catharsis. A rhythmic up and down that sounds like an electrocardiogram to determine the short circuit of that bloodless woman.


Dawnrazor


And here are cruel bites attacking the resistance of dreams: a fight to the last drop of blood. The guitars launch the attack, the drums roll on the breaths, the bass pushes the ashes to dust the scene. 

Carl takes his voice and throws it into the infernal crater: his glove becomes a razor blade and his song is a vulgar prayer, swelling in progress, waiting for the vicious flow to stop raging. The gothic curve explodes with the applause of the macabre creatures who bow down in devotion.


The Sequel


The album ends with death returning: terror, shivers, useless tears illuminating a lost face. Triumph, the victory of evil, the succession of events in this album determine the sense of addiction to the roar, the surrender that was anticipated. The English band is a nightmarish privateer trained to act cruelly, to always win. We end up with the song that is the only one that can close this path: it was necessary to create the conceptual apotheosis, with lyrics and a musical start full of joyful tombstones. Having certified our defeat, we sing hymns to Cthulhu. The spirit of Howard Phillips Lovecraft wanders among the fiery bubbles: The Sequel is the altar where surrendered senses show themselves and the pounding drumming is a celebration of explosive boasting. 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st may 2022


  • Carl McCoy – vocals
  • Peter Yates – guitar
  • Paul Wright – guitar
  • Tony Pettitt – bass
  • Alexander Wright – drums




venerdì 29 aprile 2022

La mia Recensione: Auge - In purgatorio

 La mia Recensione 


Auge - In purgatorio


Uno stato di allucinazione che viaggia dentro un tunnel con nove finestre scure: un briciolo di luce appare a quietare la mente sudata.

Questo è l’album di esordio della band Fiorentina Auge, composta da tre canne di fucile col silenziatore, che rovistando negli spazi silenti di anime in tensione termica, compiono il loro viaggio per stendere fogli di carta vetrata dalle piume di petrolio e alghe, lasciando la nostra pelle unta da una bellezza con la febbre costante.

È un volo pindarico e ben organizzato, le tappe si fanno trovare pronte all’amalgama e scattanti come rapite da se stesse, si spostano nel cuore per avvolgerlo tutto.

Sono angeli dalle mani potenti Sara Vettori, Matteo Montuschi e Mauro Purgatorio, capaci di scrivere sin dall’Ep di esordio Magnetic Domain canzoni che erano da me descritte come “taglienti, spigolose, complesse”, cantate in inglese e già capaci di emozionare lo scriba.

C’è stato un cambiamento di lingua nel cantato decidendo che l’italiano potesse meglio specificare le nuove composizioni e direi che la scelta si è rivelata perfetta. Con la produzione di Flavio Ferri tutto si è fatto adulto, fermo, combattivo, energico e devastante, come sa essere un viaggio dentro se stessi. Il musicista e produttore Milanese ha saputo compattare il progetto fiorentino con la sua esperienza e capacità conoscitiva dei propri mezzi e di quella della band per un risultato finale eclatante ed entusiasmante.

Le canzoni sono ipnosi con i freni e l’acceleratore ben sintonizzati, in un lavoro comunicativo esemplare, di grande impatto, capaci di condurre l’ascolto dentro ad una bombola di ossigeno, tra molecole e respiri profondi.

C’è un senso di purezza nell’album che ci rende neofiti, fanciulli curiosi e al contempo smarriti, nel quale questa sensazione non ci lascia timorosi ma incredibilmente spavaldi: si desidera perpetrare l’ascolto come rapiti da unguenti che lisciano la pelle malgrado scariche emozionali continue. 

La miscela tra l’impianto musicale e quello lirico è di sicuro effetto, come disturbi collettivi allineati per lo scuotimento di menti poco allenate allo stupore e alla responsabilità. Sono minuti nei quali la fierezza risiede nelle abilità che sono radici in movimento per fare di noi operai per il futuro, votato con convinzione estrema ad un nostro progetto interiore. Quando si è scossi esiste un grazie da cedere, da fissare nella mente, in questo caso, di questi tre artisti, che hanno stabilito connessioni multiple in un pianeta musicale italiano in notevole fermento, dichiarando la propria presenza ed un posto di assoluto rilievo.

I generi musicali che troviamo sono sapientemente amalgamati e fluttuanti, come anguille nel deserto capaci di sopravvivere creando abbracci come ristori e cascate di acqua per mettere in contatto esigenze diverse. Ed è rock che si tinge la superficie cutanea di grigio e nero, con il post-punk a prendere pennelli ruvidi sino a rendere l’atmosfera vicina a impianti gotici, senza esagerazioni che tolgano quella attitudine positiva che comunque alberga dentro ad un album che non rinuncia ai sogni.

L’amore afferra gli abissi e ci contagia con il metallo più prezioso e l’impressione di uno stordimento che stende le labbra in un sorriso piccolo ma che rende il cielo soddisfatto.

Un esordio significativo e prezioso da approfondire: mi appresto nel farlo consapevole che l’ascolto sarà come giocare con una strega in un giorno di festa…


Canzone per canzone


Questo sentiero di calore incomincia con “L’avvento”, con un iniziale tappeto sonoro riconducibile agli U2 di The Joshua Tree, per poi separarsene e diventare una Desert Rock song con grovigli che a partire dal testo (un dialogo con il Divino, con la fierezza di un disaccordo sul suo ruolo) si prende la musica con spine e sangue sparso per fare di questo pezzo iniziale una bomba lenta ma con effetto micidiale.

Il cantato superlativo apre la granitica “In auge”, che sembra uscire da una cascata Darkwave che strizza l’occhio agli Afterhours scuri come non mai. Perché è proprio l’abisso il piedistallo di questo percorso nevrotico, come la gramigna più libera, capace di soffocare. Qui lo fa con una melodia secca e breve per determinare l’amore, visto da eclissi in libertà non vigilata.


Continua la catarsi con “Cadendo”, un temporale che ci fa cadere, danzare, preoccupare con la sua storia tra sogni e la realtà più marcia. Nel suo essere un micidiale mantra che potrebbe gonfiare le radio, si prova la scomoda sensazione che sia il testo che la musica nascondino una drammaticità in questa nostra esistenza e allora non ci resta che chiudere gli occhi e muovere i nostri corpi, scevri di tutto per poter godere di questo proiettile bellissimo, precipitando…

Ascolti la successiva “Sai” ed entri nelle grinfie di un amore rapace e devastante, con tutto l’album nel mio modo di percepirlo rappresentato da questo brano,   è un flash illusorio che trova giorni ridimensionati dal sentimento più potente, capace di essere creativo come distruttivo. Ed è un saliscendi di suoni come di penitenze, di funi con sangue torbido impresso in ogni secondo, dove la musica si muove acuta e sbilenca sino al fragore per tornare a farsi piccola. Una clamorosa esibizione di classe compatta che lascia brividi nel cervello, ipnotizzando e facendo tremare ogni certezza acquisita.

Chiude il lato A del vinile “Indispensabile”, torbida corsa di una obbedienza e lo fa con la sua robusta propensione Americana, quella che aveva preceduto il grunge, con maggiore snellezza, con una chitarra sibillina che sa cogliere l’incubo, cosa che il protagonista non sa fare: ed è strategico il cambio ritmo, le atmosfere che vivono dentro una matrioska maligna e dicotomica. Saper far coesistere suoni multipli, di decadi diverse, e miscelarli con altrettanti generi differenti è segno di una qualità innegabile e alla fine del brano indispensabile…

Il senso di sorpresa questa volta è dato da una cover che non ti aspetti, ma che nel congegno dell’album funziona perfettamente: diviene come per mistero parte della band che la sequestra mutandone la pelle. Un serpente di rara bellezza che si chiama “Anima Latina” di Lucio Battisti (che amerebbe di sicuro questa trasformazione) apre il lato B come un bagliore che spoglia le paure, ma inietta veleno sibilante con questo flusso di elettronica e rock compattato e sigillato per aggiungere alla band Fiorentina i segni particolari di un fare complesso, sposato alla fascinazione e al corso del tempo. Una rivisitazione che illumina la superficie del corpo lasciando la scia di una bava corrosiva.

“Tu sei me”: un piano inatteso e triste apre la strada ad un proiettile acuto e sbilenco nato per uccidere le illusioni e i ricordi. Si corre nel deserto con chitarre e basso gonfi di polvere e spietate melodie contagiose, dove ciò che è fugace muore e rinasce nella bellezza di questo vapore acqueo che svela ancora di più come i tre sappiano assorbire l’energia per liberarla in una storia sonora amletica e potente.

Ed è tuono: partendo dai primissimi secondi che odorano di The Mission del secondo album Children, “L’ultimo pensiero” è il diario sonoro che scrive la sua direzione con un fare armonioso e lacrimevole, dove i Livornesi Malfunk sembrano resuscitare.

Il cantato è un rasoio melodico che nuota su chitarre come rovi trattenuti, pronti per cadere ed esplodere ma che si trattengono dal farlo. E giunge un fischio sensuale che attira ancora di più la nostra attenzione su un crooning ipnotico per far scemare la canzone dopo aver sudato e conosciuto l’estasi.

Tutto si conclude con la schiena di una duna colma di rock che si chiama “Fantasmi”, con la sua abilità nel variare propensioni e nel gestire pulsioni quasi psichedeliche e donarci una bufera lenta di sabbia. Le voci raddoppiate ad un certo punto sembrano provenire da una antica sessione dei Black Sabbath, mentre le chitarre diventano rivoli che trattengono il calore ed il senso di morte che si aggira sornione tra le note. E sembra una siringa che punge il tempo questo brano, un insieme di crepacci tenuti in vita miracolosamente, dove tutto sembra pronto per congedare la propria esistenza. Ogni cosa scivola e rende evidente che lo stile è il marchio del dna della band toscana che può guardare il mondo con fierezza.


Un album che rivela l’ottima condizione di salute del tanto criticato rock che in questo caso, anche se mischiato ad altri generi, dà la sensazione che la sua attitudine abbia nel suo ventre migliaia di vene pulsanti perfettamente in attività. E quelle degli Auge brillano per intensità e capacità. 



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Aprile 2022

L'album è acquistabile presso la casa discografica Vrec 
















giovedì 28 aprile 2022

La mia Recensione: Flavio Ferri / Alex Dematteis - Speakdown

 La mia Recensione 


Flavio Ferri / Alex Dematteis - Speakdown


Un fiume nero scorre nelle vene di chi crede di averlo ancora rosso: un’incoscienza colpevole che addormenta i sensi, la ragione, camuffa e distorce la verità per finire dentro la zona della comodità, la nemica numero uno della saggezza, del benessere, del buonsenso e della verità che costruisce le basi di un miglioramento prima personale e poi collettivo.

Esiste un colpevole: l’ingannatore egoista.

Esso ha sodomizzato lo scorrere del tempo che aveva dei limiti ma ragionevolezze varie.

Flavio Ferri e Alex Dematteis l’hanno trovato e affrontato: atto disumano, crudele, ingiusto, violento e così non si deve fare, speriamo che abbiano scherzato.

Il loro lavoro si chiama Speakdown, tre angoscianti e dissacratorie cavalcate con spade tratte e lucidissime dentro questo cattivo che si nasconde e mostra solo il presunto benessere che contagia la civiltà moderna.

Non hanno fotografato la realtà perché le immagini sono fatte per essere dimenticate, servono a poco se non coniugate ad una ragione che scatta in piedi per reagire e agire, se è il caso di farlo.

Tutto quello che hanno prodotto è una dura lotta, centimetro per centimetro dentro il Capitalismo e il Mercato, fratelli siamesi di una esistenza anestetizzata e resa volgare. I due hanno pianificato un delirio, un contrasto pieno zeppo di frammenti indigesti atti a grattugiare l’apparato uditivo prima e la coscienza dopo.

Missili su crateri colmi di pece, dove non esistono barlumi di lucidità che possano confortare ed essere spunti propositivi.

Si sono dati il ruolo di distruttori di ciò che era già annientato di per sé, creando scenari apocalittici, cancellando la gradevolezza dell’ascolto della musica, che è divenuta magma, scintille di catrame, nebulosa, devastazione sonora, annullando e schiacciando la noiosa e inutile forma canzone.

Coraggioso e combattivo oltre ogni limite accettabile, Flavio Ferri ha operato scientemente non interessandosi al consenso (altro elemento catastrofico del Mercato) e ha costruito invece un micidiale marchingegno nel quale tutta la sua vorace combattività ha generato stridori come conseguenza del rapporto tra il concetto ed il mezzo utilizzato.

Facendo così l’artista milanese ha avuto modo di liberare l’espressività, la precisione, ha mirato e fatto fuoco con il suo ordigno, ha voltato le spalle alla comodità per farci sgranare gli occhi: rimane solo l’indifferenza a tutta questa follia. Per lui sarebbe la manifestazione evidente che il Mercato e soci vari sono scontati e in tal modo paleserebbe la sua vittoria, consapevole che in tutto questo la felicità non troverebbe luogo.

Purtroppo.

Dal canto suo Dematteis, su incarico di Ferri, ha scritto storie, scorticato la ragione dell’egoismo, inveito, arrossato il respiro e pianificato un insieme di pensieri che potessero resocontare il fallimento.

Ha insistito a descrivere la tossicità umana e vivisezionando lo squallore di una comunicazione massiccia, ma priva di un messaggio colto ed elevato, ha deciso di filmare con le parole amare gocce di veleno e micce di pensieri insoluti e di difficile  codificazione.

I rapporti, gli egoismi, il senso del possesso degli oggetti, la gravità di silenzi umani a favore del caos del consumo sono stati la scintilla creativa dei due per fare un disco pesante, ostico, indigesto, ma non scontato. Sono stati determinati e consapevoli e hanno portato l’arte nel luogo dove appare più assente: quello della volontà di fare dei disastri un punto di partenza, come un invito ad un senso collettivo che possa cambiare le carte.

Ma falliranno: il mondo ha troppe follie piatte per accettare questa che è lucida e iperdinamica.



Canzone per Canzone 



Daily Snapshot n.1


La luce del dopo nucleare comportamentale si apre su un tappeto elettronico e giunge la voce della Borsa a segnalare l’orrore di ciò che sopravviverà: la fame di speculazione, del guadagno. Ferri cammina lento con la processione analogica che rappresenta il tremore, la precarietà, la banalità che lotta per vincere. Suoni, come distruzione accesa e confermata, che si affacciano sino a quando un giro di basso pesante si accorda con un vibrato paranoico ed ossessivo. Da quel momento è un susseguirsi senza sosta di detriti fuori ritmo a sentenziare il vuoto che ha stravinto sul sistema umano di alienazione. Diciassette minuti di strazio e vertigine, con segni di terrore e al contempo di rassegnazione: la catastrofe è appena incominciata.


Fuck the Style


Dematteis e Ferri iniziano subito con la rappresentazione teatrale del vuoto che si compiace, la fiumana di sciocchezze che entra nell’illusione di una solitudine che pensa di trovare nella tecnologia l’unica modalità per valorizzare la comunicazione, divenuta proprio per questa ragione inesistente. Flavio crea angoscia, film muti con onde psichedeliche e industriali, beats e strati sonori ad alta densità termica: tutto viene congelato, quasi polverizzato da flussi catastrofici a ciclo perpetuo. Alex esamina il disastro umano e l’ignoranza con la sua assenza, seguendo Flavio per avanzare drammaticamente in una processione violenta: non rimane che quella modalità per mostrare l’imbecillità umana. Quasi sedici minuti di tortura sonora sconvolgente per divenire l’atterraggio sulla pelle della morte e per celebrare e definire la fine di tutto. Senza repliche. 



Understress 


Il balletto degli illusi, gli incubi che diventano un grido infinito trovano sede definitiva nell’atmosfera plumbea e agghiacciante delle rovine a battito impreciso di Ferri, che crea una simil danza allucinata, a tratti sensuale, con accenni melodici che illudono, come illude la realtà che inganna se stessa. Un mantra sidereo smette di gravitare nella volta celeste e plana su un mondo incattivito e sotto stress. Sono aghi le parole di Dematteis come lo sono i circuiti tetri di Ferri: uniti nel certificare il Mercato che, compatto, schiaccia i cervelli. Mantra bellici e astuti graffiano le orecchie con l’opposizione al senso ritmico, tutto si spezza, si interrompe e riprende come scatti inevitabili, sino a sconquassare la resistenza dell’ascolto. Parole come vermi contagiosi esplorano e sentenziano e la musica non è tale bensì un fungo allucinogeno che deturpa la lucidità. È un cataclisma a flussi, violenza perpetrata che su una elettronica bastarda, saccheggia tutto ciò che rimane della nullità umana…



Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

29 Aprile 2022


https://www.vrec.it/prodotto/ff01/




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  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...