La mia Recensione:
Umberto Maria Giardini - La dieta dell’imperatrice
Non rimpiango le persone che ho perso col tempo, ma rimpiango il tempo che ho perso con certe persone, perché le persone non mi appartenevano, gli anni sì.
(Carl Gustav Jung)
Prendi una donna nel cuore e fatti guidare verso la ricerca interiore, e con la penna piena di stile scrivi la storia di un uomo fuori da certe strutture.
Lei è Anna Calvi, colei che in qualche modo stimola Umberto a inventare un nome nuovo nella sua carriera, senza perdere tutte le caratteristiche di uno degli autori di maggior talento di questa Italia musicale sempre confusa e non capace di produrre qualità nella quantità. Se non una musa sicuramente un punto di riferimento. Infatti sarà Antonio Cooper Copertino, produttore eccelso al lavoro proprio con Anna e Pj Harvey, a sedersi in studio con lui per co-produrre il ritorno discografico del più sensibile tra i musicisti dello Stivale.
C’è da perdere peso in questa abbondante proposta di album e artisti, c’è da ritrovare l’infinita intimità che meglio li protegge dall’esibire qualità forse non del tutto centrate.
Con un sentire psichedelico, senza per forza essere musica con quelle caratteristiche, Giardini scrive dieci fiamme avvolte in un cuscino, dove il calore trova la sua comodità: sono canzoni che scaldano il cuore ma allo stesso tempo incendiano la mente, perché si rimane oltre che commossi sicuramente stimolati a capire il tempo corrente.
Tutto graffia accarezzando, un quasi ossimoro che è inevitabile constatare quando si parla dell’autore marchigiano, bolognese di adozione, vista la propensione a mettere inchiostro dentro pensieri vellutati, ma anche con il dovere di posare una mano su pensieri che non potevano rimanere nascosti. Ecco che l’amato Post-Rock ben si presta in modo evidente in un paio di tracce, restando sempre presente con una maschera dai colori tenui.
Riuscire a collegare l’anima cantautorale ad altre miscele è la dote maggiore di Umberto, spaziando tra generi musicali che con le sue composizioni conoscono nuovo ossigeno, stimoli e direzioni diverse. Questo accade in un album che infetta i respiri di bellezza, in un mondo che ha perso la capacità di riconoscerla. La testa ogni tanto si piega verso il basso, ma senza essere afflitta da atteggiamenti vittimistici. Semplicemente questo autore sa come mostrare la realtà, i sogni, la parte di noi che disegna momenti improbabili in storie reali. Ed è la sua cultura personale a guidarlo con saggezza dentro scelte liriche e musicali che fanno l’amore lasciando a noi l’orgasmo, il piacere di ascolti prelibati, da conservare con preziosa attitudine. L’uomo Umberto vince la sua personale gara con la parte artistica, lasciando al passato la dicitura Moltheni e rimpicciolendo di molto i confini della sua dilatata e nota propensione a essere capace di scrivere bene qualsiasi cosa.
In questo album lui si raggomitola, con i suoi bisogni rivisti e liberi, per accendere una candela nel suo percorso umano e, una volta frullato, tutto si rivela con una intensità mai esibita prima.
In questa dieta Giardini nel suo menu mette fiori che aprono le porte del suo garage interiore, in una narrativa che scuote e innalza lo spirito per inebriarci di umori, pensieri, vicende che hanno addosso il respiro intellettuale del generoso artista che si spoglia e veste la nostra anima, bisognosa di essere educata nuovamente alla consapevolezza.
La lentezza ritmica consente la perdita di ogni esigenza frenetica per meglio fissare la grande quantità di concetti che sono all’interno di queste composizioni votate alla introspezione, in modo elegante sebbene esistano condizioni di paura e smarrimento innanzi a cotanta lucidità. Siamo permeati da concentriche esibizioni di talento che, grazie ad atmosfere dilatate, meglio consentono la comprensione con momenti di un progressive più mentale che musicale, sebbene non manchino episodi nei quali il sentire di quello stile si concretizza, seppur in modo misurato.
La chitarra disegna i volteggi delle parole, le bacia e si prende il giusto spazio per esibire talento e prolifica predisposizione a essere lo strumento su cui si sviluppano le trame. Le stagioni dell’esistenza in questo album paiono davanti al crepuscolo, davanti a giochi per adulti senza volontà di sprecare del tempo, in cui immacolata è la sensazione di un riposo della frenesia, conferendo alle canzoni il ruolo di un mantra interiore. Ed ecco che la sei corde risulta essere lo strumento migliore, la chiave di violino dove tutto si accorda per stabilire i fianchi di un percorso consapevole che l’agilità non sarà la prerogativa su cui tutto avrà modo di esistere.
Il coraggio di tornare in territori che l’hanno in qualche modo non accolto adeguatamente ci svela il suo coraggio, la flemma inglese che è nel suo DNA, uomo ostinato che riesce a sbarazzarsi degli ostacoli e a vincere un’ipotesi sfida con un’industria musicale mai troppa avvezza a riconoscere il suo talento. Mettere a dieta la musica gonfia e tronfia è la vera impresa di questo lavoro, che seguendo l’etimologia sa offrire modi di vita diversi, per innaffiare lo stile di incredibile profondità, sbaragliando la concorrenza. Come un’anima che non necessita una mutazione ma il coordinarsi con i propri antichi movimenti, Umberto, con la sua voce sottile, obliqua, che il mistero ha preso sottobraccio per conservarne l’intensità, arriva lentamente ad aprire il varco delle nostre distrazioni, delle incertezze, con un fare sognante che invece di cullarci e favorirci il sonno, sveglia le nostre pulsioni, sia attraverso arpeggi, sia mediante giri armonici che si appiccicano alla nostra dipendenza, sia con chitarre lente e con schitarrate che non hanno bisogno di grandi distorsioni per immobilizzarci. La canzone viene sostenuta da un impianto rock onirico, come i suoi testi, che sono mattoni ricoperti di gladioli.
È melodia, fantasia, poesia dentro un’ampolla piena di liquidi intossicati che cercano consolazione, riguardo, considerazione e complicità: dieci incursioni dalla tonalità cupa e mite capaci di sconfiggere certe esagerazioni della luce ma, poi, in fondo, queste cellule sono in grado di restituire la giusta dose di fasci per non farci accecare.
L’equilibrio è sempre stato l’elemento che ha contraddistinto tutta la carriera di Umberto Maria Giardini: canzoni con il metronomo, il compasso, la matita sottile che penetra nei moti più surreali e complessi, il setaccio che oltre a scegliere leviga, indurisce e specifica argomenti e storie che guardano dentro il percorso folle della letteratura alla quale dà modo di prendersi cura di testi e musiche per lubrificarne il corpo.
L’artista qui adopera genio e progettualità, prendendosi la rivincita nei confronti di chi l’ha sempre sottovalutato o evitato e per vincere la sfida rimane se stesso, l’arma migliore per non vergognarsi, dimostrando la fiducia e una ostinazione meravigliosamente efficace, per approdare dove il suo impeto dalla faccia densa necessita di soggiornare.
Eccole in fila, vestite di lontananza, lampade del 1800 approdare nelle strade ancora più buie del terzo millennio, cibarsi delle proprie invenzioni, di consapevolezze che si inchiodano nei solchi per dare credibilità a un mestiere che sembra avere una data di scadenza prossima, vista l’ignoranza e la poca capacità di maneggiare l’arte della musica.
E quella di Umberto scavalca le speranze, gonfiandoci gli occhi, concedendoci montagne da scalare e soffi da congelare per il futuro perché questo fa l’album: stimola e congela, ma non raggela, anzi scalda sempre più, come fanno le brave persone dentro un qualcosa che pare sempre non avere troppa credibilità. Lui si concede a noi, nei suoi raggi lunari, tra le sue camminate dentro le vette del suo respiro, all’interno dei suoi slanci con il gel che lucida tutto di vero, nel trionfo dei suoi occhi intensi.
Se si prende solo la musica ci si accorge della veemenza della lentezza, di acqua di lago pronta a quietare la sua indole, di non aver bisogno della parte più chiassosa del rock per generare brividi a lunga gittata. Sarà perché in queste passeggiate sonore tutto deve essere descritto perfettamente e si sa che nella velocità il rischio di perdere di vista la realtà è molto elevato. Lui non vuole, si adopera per sottolineare che in questi ritmi rallentati batte il cuore di un oceano, di un temporale in montagna con il freno a mano tirato. Musica evocativa, che gira attorno a idee illuminate di buonsenso e coperte notturne dal tessuto che si precisa, ascolto dopo ascolto, in un raso sofisticato, che lascia la nostra pelle totalmente intatta, anche se non mancano degli strattoni (Il desiderio preso per la coda), capaci di connettere il presente al passato: un elisir esaustivo e nutriente che non odora di nostalgia ma lo vedremo più tardi, nella descrizione delle canzoni.
LA DIETA DELL’IMPERATRICE è il suo album più estremo, con un raggio visivo che parte dalla natura per finire nella silenziosa esistenza di un uomo che non urla ma sussurra alla vita, usandola come una carezza dalla mano ferma e calda. Un lavoro dove la voce svetta, per intonazione, interpretazione, come una presenza che mostra la maturità, come un sottile passo sulla neve che non facendo rumore riesce a far sentire la sua poesia interiore. Le parole, molteplici e capaci di girovagare perfettamente assestate in una moltitudine di argomenti, sono il segno evidente di una centralità che non lascia dubbi su una scrittura che ha allungato la distanza rispetto a quella di tanti altri, elevandolo, elevando pure noi perché sono parte di un romanzo che sembra un trattato poetico sul chaos che Umberto ha saputo governare.
Posiamo ora i nostri passi sulle sue orme e cerchiamo di indagare in merito al motivo che fa dire al vecchio scriba che questo album è una dottrina con un mantello soffice in grado di avvilupparci con maestria…
Song by Song
L’imperatrice
Che bella l’assenza della voce, seppur miracolosa, di Umberto: il brano di apertura è la nascita di un raggio solare, tra gli scogli del vento e la brina, un tratteggio con la punta delle dita su chitarre che rimbalzano tra ritmiche e piccole note che fanno capolino, a creare suspense e ad aprire la porta a ciò che verrà. Tra Post-Rock e Vini Reilly che cercano un accordo atmosferico, tutto si dipana in mezzo a note in punta di piedi.
Anni Luce
Tra rimpianti, amarezza, desideri, tutti insieme per costruire dubbi che viaggiano solo nella verità dell’uomo e dell’artista, il brano è un riverbero del pensiero tra echi elettrici e parole di seta con una striscia nera sul cuore. La voce, un graffio degli anni settanta e che ha resistito allo scorrere del tempo, abbraccia questo mantra psichedelico privo di luci fasulle, perché tutto è concreto e intenso nel suo essere sottile. Semplicemente perfetto.
Il trionfo dei tuoi occhi
La voce sale su per i sentieri di montagna, gli stessi che vedono due anime nel cammino di una relazione che visita sogni e velleità. Ed è fascinazione pura per la forza che rende possibile farci salire con loro, come testimoni del loro peregrinare. Chitarre avvolte tra note alte, che scivolano dentro un’anima rock dalla pelle sottile.
Quasi Nirvana
Il pathos e l’eleganza, in questa ninnananna rock dalle vene gonfie, vincono ogni opposizione: se c’era da superare l’ostacolo di una sfida, Umberto qui esce vincitore. Un giro di chitarra iniziale, che sembra provenire dal Desert Rock, viene affiancato da un altro, scivoloso e sensuale, sul quale l’amore antibiotico affitta una residenza che si preannuncia eterna. Minimalista, piena di atmosfere senza tempo, la canzone avanza nel petto per trovare il proprio senso in un quasi solo di chitarra, su cui la voce con il suo registro alto ci consegna il titolo per renderlo definitivamente impresso in noi, con l’orchestrazione finale sublime.
Il desiderio preso per la coda
Uscito dalla scena di Canterbury, quasi nei pressi di uno Space Rock rivisitato e corretto, il brano rivela tutta la capacità di accendere un fuoco interiore, dove la voce non è necessaria, per il secondo episodio strumentale, che rimane in ogni caso dentro fascinazioni Post-Rock. Chitarre che pulsano note e giri armonici intensi, con un drumming capace di fissare il tutto nella zona di un volo dalle ali potenti.
Discographia
Una interpretazione clamorosa ci infetta, come godimento plurimo e incontrollabile, ci fa tuffare nella struttura musicale che cambia abito, si esprime, si apre verso una leggerezza con delle pause, degli stop and go perfetti, dentro il tendone di un circo sonoro che rivela quello che rimane di una certa idea della concezione della canzone alternativa degli anni 90, con tutto il suono di un battito di ali senza sosta. Clamorosa.
Saga
Questo è l’autore che conosciamo ma con un asso nella manica: una storia emblematica e autorevole, dalla scrittura concentrica e mantrica, lava dentro il jack della chitarra, note balsamiche e l’intensità di un cantato angelico tra parole che per scelta ronzano nella mente per creare depistaggi e fantasie, per un matrimonio che fa volare dentro i pianeti che aspettano la canzone come ossigeno nuovo.
Genesi e Mail
Rime, assonanze e incandescenti divagazioni trattenute per il colletto ci fanno vedere il fango, dentro la chitarra indie per eccellenza, per un brano che odora di magia dentro un carillon. La parte musicale visita la psichedelia come il blues, con la chitarra ritmica tra Radiohead e Cranberries, mentre il cantato è puro Giardini style.
Il sentimento del tempo
Turbinio, vortice di schegge di suono, con un drumming secco che alza la polvere: ed è solo l’inizio di questo impazzito tuono che avvolge la nostra curiosità, trascinandola senza respiro sino a quando il ritmo cede e una nuova immersione data dalle chitarre mutanti e sognanti si fa beffe di noi, perché continuiamo a essere succubi di questa estasi dal fare quasi elettronico pur essendo vincolata a chitarre plasmanti. Si batte il piede per terra per poi tuffarsi nel delirio di strumenti perfettamente compattati.
L’ultimo venerdì dell’umanità
La follia, con Umberto, è sempre educata e gentile, pregna di allucinazioni, lividi, uncinetti notturni e attrazioni multiple. Quello che chiude l’album è un brano dai petali spezzati, una ferita in una poesia senza terzine ma che affonda le radici in una visione letteraria e psicologica, un bruciore dell’anima che lui fissa in mezzo a note che si fanno carico della responsabilità di un testo clamoroso per assurdità e stile, dove la perfezione viene raggiunta attraverso accordi corsari pieni di segreti. Più di nove minuti, che sembrano giorni e giorni di una caduta senza gravità nel grembo del tempo, tra Post-Rock e la scrittura unica di un artista che conclude il suo lavoro con una gemma senza tempo, in attesa di essere adorata…
Data uscita album: 5 Ottobre 2012
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
16 Ottobre 2022
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