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martedì 19 marzo 2024

La mia Recensione: Swirlpool - Distant Echoes

 




Swirlpool - Distant Echoes


È giunto il tempo della coniugazione, della memoria che attiva i suoi canali pregni di intelligenza e rispetto per poter sondare il passato e dargli nuove possibilità per un futuro più consapevole. 

Lo si fa attraverso una band tedesca, la sua passione per lo Shoegaze, addentrandosi magicamente nel fiume dei riverberi, dei sentimenti che scuotono l’anima dell’ascoltatore, che si ritrova immerso tra candelabri, ombre, venti, magie sospese, tra il bianco e nero e lo sfumato, tra addensamenti sonici e struggenti melodie, dove la malinconia timbra il passaporto per portare queste canzoni sul palco dell’emozione più complessa e robusta che si possa desiderare. 

Nel meticoloso setaccio che vede concentrato questo genere musicale nei suoi (almeno qui) trentaquattro anni di vita, tutto appare sintetizzato alla perfezione per poi dare un colpo di coda e caricare a bordo nuove pulsazioni, nuovi atteggiamenti, nuove inclinazioni, al fine di conferire a questo vivaio di incandescenze controllate un trono: sarebbe importante che gli venisse riconosciuto, in quanto Distant Echoes è uno di quei lavori che fanno la storia. Al suo interno i cliché vengono esaltati, attraverso la metodica dello studio, per poi sviluppare un moto necessario di nuove stelle. Un atteggiamento che esplora, quasi segretamente, i territori di caccia del post-rock meno conosciuto, iniettando semi di indie-rock sottile, quasi mistico. Il tutto produce un insieme di poesie che regalano chitarre come magneti, il basso morbido ma in grado di sostenere l’intero apparato sonoro, e un drumming che traccia melodie corpose, un vigile che lancia il suono e il ritmo nelle giuste direzioni. Si corre, si vola, si insegue il baricentro di un desiderio che non conosce calcoli: la professionalità di Thomas A. Fischer, Markus Kraus e di Christian Atzinger produce incantesimi, petali di margherite piene di ardore e capacità di esplorare la luce. Prediligono la forma canzone, ma è come se ogni parte delle loro composizioni avesse singoli progetti, per un puzzle di assoluta bellezza. Ogni momento è una bolla che si tuffa nell’arcobaleno di onde elettriche che sanno, sapientemente, coniugare la realtà e il sogno, facendoci toccare le note come un miracolo inatteso. Un album che sembra scritto per essere ascoltato in una mansarda, con qualche bicchiere di vino, dei dolci e un libro di psicologia: c’è vita da toccare in questi fiumi, ogni brano diventa un bastoncino che scivola nell’acqua di un concetto fatto di vibrazioni, tensioni e carezze, per scatenare riflessioni ed emozioni. Ci conduce a percepire con nitidezza uno strato proteiforme, causando adorazione e incredulità, nello scenario del caos subliminale dello shoegaze dipinto e non urlato, attraverso modalità prevalentemente preposte al giusto ritmo, con la predilezione dei cambi ritmo. Arpeggi dal cuore acceso, direzioni mai casuali verso una melodia che non si ritrova mai in solitudine, con un gioco di squadra che compatta la voce piena di riverbero con musiche gonfie di inventiva, per una creazione globale che impegna l’ascolto in una profonda attenzione. La produzione di Mark Gardener (Ride) conforta, stupisce, regalando l’ulteriore certezza che questo esordio sia nato per essere protetto con sapienza e intelligenza. Scorre, e lo fa benissimo, questo flusso magnetico di pennelli e seta, per avviluppare il cuore in un’estasi indiscutibile. 

Sin dall’inizio, con la canzone che dà il titolo all’album, abbiamo la maestosità e la timidezza, per un combo che consegna alle chitarre e al drumming lo scettro e in cui il post-rock abbraccia lo shoegaze più semplice da ascoltare, in un tripudio di intensità e calore. In Caught In A Dream la band dimostra come melodia e potenza possano essere un duo invincibile, con il cantato che pare una giornata di pioggia senza sorrisi, mentre la tastiera dipinge possibili arcobaleni e le chitarre si alternano tra schemi Dream Pop e Shoegaze. Quando arriva Paranoia realizziamo dove sia collocato lo stile portato sul palco del cielo dagli Slowdive: è una processione cupa che non rinuncia alla dolcezza con chitarre che guardano i Cure di Wish mostrare le rughe. Immensa. La conclusiva Drowned Voices è un addio quasi mistico, immersa nella sua lentezza che ipnotizza, affascina e mostra il futuro di questo genere musicale: è uno sfiorare l’intensità di un suono che viene mostrato con pudore, come se nulla dovesse essere ostentato ed è in questo frangente che il gruppo sfodera soluzioni con pazienza e ricerca. L’intero palcoscenico sonoro merita uno studio preciso: non sarà l’album più amato del 2024, ma sicuramente tra quelli che sapranno dimostrare che sono gli studenti a insegnare al mondo che c’è ancora tanto da conoscere…

Prodigioso il fatto che, mentre le vibranti forme artistiche esibiscono la loro struttura, tutto sembra farsi evanescente: non si può controllare la bellezza di questa carrellata pelvica di equilibri, si può solo “subirne” il fascino, in una giostra di suoni in continua ascesa. E lo sporco di chitarre ammaestrate alle contorsioni produce un insospettabile senso di pulizia: quando le diapositive sonore lavano l’anima e ci si sente più leggeri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Marzo 2024


L'album uscirà il 22 Marzo 2024


https://swirlpoolmusic.bandcamp.com/album/distant-echoes


domenica 10 marzo 2024

La mia Recensione: Jo Beth Young - Broken Spells


 Jo Beth Young - Broken Spells


“ Non sapendo quando l’alba arriverà, lascio aperta ogni porta.”

Emily Dickinson


Un’adunata silenziosa pilota la musica: da quella praticata da tutti fugge questo ordine superiore che è organizzato da una truppa celeste, per renderla molto di più di un evento emozionale.

In questa ristretta organizzazione quella scritta, composta e cantata da JBY ne è sicuramente la punta di diamante, la rappresentazione evidente che esiste un effluvio che rende gli odori i custodi di uno stordimento piacevole ed essenziale. Perché la cantante inglese con il suo nuovo dipinto sonoro costruisce ponti, cascate, abbracci per un incontro che ha diversi concetti da esprimere, il che la rende una cittadina con il passaporto che le consente di arrivare in ogni terra vogliosa di seminare negli ascolti questo straordinario tributo al lavoro cosciente.

Ciò accade quando Broken Spells penetra nell’anima: si diventa residenti viaggianti come lei, anime in transito senza sosta.

Diverse novità rispetto al precedente Strangers: in questi cinque anni lo studio del canto e della costruzione delle onde che fanno delle sue canzoni un corto circuito di un cosmo elegante, aggraziato e pieno di ispirazione, trova specificazioni importanti dando, oltre al suo piglio folk contemplante atomi di World Music, una maggiore presenza di una elettronica fine, vitale, mai pomposa e inopportuna. Piuttosto: un insieme che crea un idillio unico, magnifico e pieno di bolle colorate, come se un arcobaleno ci abitasse dentro.  Ci si ritrova così a nuotare nel suo spazio celeste con maggiore intimità e una incredibile realtà imprevista. L’ascolto stordisce, illumina, rende la pelle del cuore umida, con la sensazione di vivere una sospensione continua nei confronti delle storture quotidiane: ci concede la speranza, l’emozione, il dovere di cercare una positività che nelle sue nuove composizioni costruiscono un moto inattaccabile. Abile nell’essere una polistrumentista dalle idee chiare, raduna attorno alle sue dita musicisti dotati di pazienza, veloci nella collaborazione, per fare di questi brani una folla di stelle compatte, costruendo un cielo a sé, lento, virtuoso e infinito. 

Peter Yates alla chitarra (Fields Of The Nephilim), Jay Newton al pianoforte  (Abrasive Trees), Jules Bangs al basso (Herija), John Reed alla Steel Guitar, Ben Roberts al violoncello (Silver Moth/Prosthetic Head) sono un combo allineato al progetto di Jo, una condensa di talento, che si muove dentro le nuvole, con il compito di mantenere rarefatte le idee iniziali, portandole però di fronte all’eternità senza timore.

Seduce e conquista la certezza che questa artista sia in grado di legare il passato e il presente in quanto il mistero, la paura, la coscienza, il trambusto sono perfettamente allineati, in una forma di disciplina che non contempla errori, superficialità e scelte scellerate. La perfezione: eccola, raggiunta, definita e mostrata per stordire come un terremoto di baci lenti, occhiate oblique ma mai velenose, perché la dolcezza per Jo Beth è un atto conclamato di rispetto. Mentre si ascoltano questi nuovi dieci battiti di ciglia, si avverte decisamente la sua maturità nel creare un concept album, sonoro, emozionale, il ventaglio dei suoi segreti mostrati quasi del tutto, con la convinzione che alcuni siano rimasti nelle sue mani, magari da presentare in futuro. L’attitudine è quella di dare a questo bouquet moderno con le impronte di electro folk, ambient, artpop, progressive, la possibilità di connettersi con un umore che faccia emergere l’istinto di musica barocca che è sicuramente all’interno della sua sensibilità, forse magari inconsciamente, ma questo non conta. Quello che è importante è il fascio luminoso di sinapsi in contatto, nel miracolo di epoche diverse, di un acclimatamento con la storia e il futuro, qui posto non come un'ipotesi ma come un territorio nel quale queste note già lo costruiscono. 

La sua voce è un pilota vellutato, senza nevrosi, senza scatti fastidiosi e anche una educata camminata tra colorati cambi di registro, una marea gentile che scoperchia i nervi, un racconto letto lentamente con attenzione e premura. Non è il caso di scomodare altre cantanti, di fare i confronti: un ascolto serio mostra la sua identità unica, in grado di farci vivere la piacevole condizione di un matrimonio tra la sua ugola e le nostre orecchie. Ma non si pensi che la musica sia un cuscino, una coperta, un bastone su cui il tutto si tocca per creare una condensa. Assolutamente no: è un respiro continuo, un viaggio parallelo, una insieme di identità naturali con la sapiente autorevolezza, determinata alla convivenza con queste vibrazioni vocali per un collettivo che ha anche modo di mostrare validità individuali. 

Non si commetta l’errore di fare di questo album solamente un elenco di complimenti: occorre viverlo, rendere solida una partecipazione, divenire noi stessi una musica per capire le dinamiche che hanno permesso a quella di Jo di creare non un evento, bensì quella che dovrebbe essere normalmente questa espressione artistica, la biomeccanica di un lavoro educativo ed esplorativo per le nostre anime.

Penelope è bionda: costruisce e disfa per dare al sogno una colonna sonora che mantenga la fantasia una costante, perché la realtà non è più in grado di darle spazio. Beth sì, ci riesce, in abbondanza, con qualità, sciogliendo la cattiveria, imbrigliando questa dannosa natura umana con la sua elegante propensione a mostrare un’altra dimensione, possibile e indispensabile.

Porta nei centimetri della nostra immaginazione la zona dove vive (l'Irlanda del Nord), allungando l’idea che abbiamo di quei luoghi, creando movimenti acquatici laddove invece sono presenti zolle di terra, in una meravigliosa occasione di trasformazione, rendendo possibile il contatto tra l’aspetto reale e quello onirico. Il suo laboratorio mentale illumina il vento e, quando le canzoni trovano la luce, ecco che ascoltarle significa scrivere una nuova incredibile storia.

Broken Spells rappresenta un’occasione per sentire il volto celeste teso ad allungare la mano, come se la sua intenzione fosse quella di generare la nostra pace: occorre meno di un’ora per avere una guida maestra, per ritrovarsi nell’incanto, per sentirsi più leggeri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Marzo 2024


https://jobethyoung.bandcamp.com/album/broken-spells


mercoledì 6 marzo 2024

La mia Recensione: Loom - Eternal Aphelium E.P.

 


Loom - Eternal Aphelium E.P.


Il frastuono del silenzio rende mobili le anime desiderose di calore, modificando la direzione e la permanenza dei propri bisogni, non permettendo a se stesse di tergiversare, di non adoperare il tempo nel modo migliore.

Gli svedesi Loom prendono la slitta e vanno a nord, nello spazio che rende la loro mente un bagliore che abbraccia i sogni, portando la valigia della realtà ben stretta tra le braccia e le ugole.

In tutto questo il nuovo E.P. mostra alcuni cambiamenti, sorprese che stordiscono e rendono l’ascolto una traversata celeste gonfia di visioni e percezioni che scaldano il cuore, combattendo il freddo e la rabbia del vivere odierno.

Torna Monika Axelsson come voce principale della band, mentre Evelina Nicklasson ha deciso di prendersi una pausa. In più, in un brano, ci capita anche di sentire il cantato di Roland Klein, insieme al chitarrista Fredrik Axelsson.

Assistiamo a una mutazione, a una elaborata premura volta a dare alle composizioni e al suono la possibilità di divenire materia celeste, parente stretta dei sogni, in un abbraccio che consente alla formazione nordica di esprimere un talento seducente, ammaliante, generoso soprattutto nel fare dei ritmi più lenti un attracco stilistico prossimo a meteore Post-Rock.

Ma rimane essenziale, per dovere di cronaca, riconoscere che lo Shoegaze è qui approcciato con grande esigenza esplorativa, quasi come se i quattro avessero studiato possibili assestamenti e graziosi, ma efficaci, miglioramenti.

Riuscendoci.

Quattro nuovi dipinti e quell’Aphelium III uscito a Gennaio di questo anno. Il territorio su cui si posano la scrittura e le capacità espressive che coniano un abbraccio uscito da una sedia a dondolo in vimini, con una fiasca piccola di whiskey, è una duna piena di neve che fa da trampolino verso il cielo. Le chitarre, in questo gioiello invernale, trovano il modo per spaziare in incroci possenti e rarefatti con gli altri strumenti, agganciando, concretamente, la possibilità di compattare le varie individualità espressive. Per quanto concerne i cantati, emerge una solidarietà, un sostegno, un ammiccamento, una dolcissima intimità che veste l’ascolto di vibranti emozioni, mostrando, rispetto al resto della discografia del gruppo, una maggiore e spiccata propensione a concedere loro il palco, su cui la luce del gradimento stabilisce un contatto generoso, benevolo di premure e sostentamento.

Capaci di riprodurre la struttura evidente del genere musicale che ha trovato negli Slowdive e nei Low (perché, davvero, assistiamo alla miscela di un lavoro che comprende Shoegaze, Post-Rock e Slowcore) il maggior punto di riferimento in queste cinque canzoni, questi artisti, attraverso l’accurata produzione di Henrik Viberg e anche la propria, dipingono i giochi di luce con una cornice che rende etereo il tutto, come se la sensazione di entrare direttamente nel loro processo compositivo divenisse reale. Si giunge ad attraversare spazi mentali, sentimenti, in una festa dove i suoni trattengono sia la gioia che il dolore, rendendo il respiro muto ma colmo di grandi vibrazioni.

Eternal Aphelium diventa, così, un E.P. di concessioni, uno spettacolare vascello tra solide qualità del passato che non scompaiono, ma sono desiderose di ospitare una mescolanza che rende il quartetto gravido, per fare dell’arte dei Loom la possibilità di acquisire brividi e riflessioni.

Nuvole come chitarre in fase di atterraggio, un drumming come un tuono in uno stato ormonale ed esplorativo e il basso come distributore di saggezza e sostegno, e per finire una tastiera che chiude il percorso di espressione per consolidare la potenza evocativa.


Song by Song


1 - Slowmotion


L’emozione, più rapida a manifestarsi, giunge proprio dalla opener track, un masso di roccia che si alza in volo, con le chitarre shoegaze che troneggiano, per consentire poi alla soave voce di Monika di accarezzare i nostri occhi e giungere al ritornello, che condensa il tutto, trasportando i corpi nella casa del sogno. Come una giostra circolare, il perimetro del suono afferra più di trent’anni di questo genere musicale, lucidando le medaglie al valore conquistate…


2 - My Melancholy Girl 


Un arpeggio di chitarra e una tastiera sottile obbligano il ritmo a rallentare, ma il battito diventa tachicardico: la voce di Fredrik prima e di Monika poi, sono il terreno dove nascono lacrime dolcissime. Un caos ragionato, tenuto a bada con classe, in una ninnananna solare che esprime il talento di una canzone come sonda, per camminare nel cielo, con la nudità del suono a scaldare le orme di una musica poetica come non mai…


3 - Trapdor


Potente, come in numerosi episodi degli Adorable e dei Catherine Wheel di Ferment, il terzo brano vede Fredrik e Roland cantare insieme, in mezzo a schegge psichedeliche e un drumming che sfida la pazienza del cielo che vorrebbe dormire. Giunge, nel ritornello, anche il controcanto di Monika, in un combo compatto, lunare, dolcemente nevrotico, facendoci danzare, con il basso che spinge il suo pulsare a fare di tutto ciò un complesso amplesso di colori e vibrazioni.


4 - Aphelium III


Il singolo che ha anticipato l’E.P. è una droga che riempie la mente di visioni, con la chitarra graffiante ma in grado anche di costruire una melodia quasi feroce, mentre le due voci passeggiano all’unisono per creare una struggente linea melodica. Scintillii che generano richiami, fascinazioni, con il risultato di una dipendenza che fa compiere ripetuti e goduriosi ascolti…


5 - Proximity


Il congedo è spettacolare: Monika lascia la sua voce angelica sulle corsie di un arpeggio semplice ma generoso di approcci, con il basso che scivola verso il petto, per poi condurci nel vento, un’ascesa spirituale in prossimità di una eternità che potrebbe proprio avere questo gioiello come colonna sonora. La tastiera qui è più incisiva per quanto mantenga il suo minimalismo, ma quelle poche note ci fanno immergere nella grande luce che l’insieme produce, conferendo all’insieme bellezza e coccole, per far divenire il tutto un perfetto fade-out, una lenta processione con l’abito della generosità a fasciare un lavoro maestoso…


In uscita l'8 Marzo  2024


Fredrik Axelsson - Guitars, keyboards, vocals

Roland Klein - Basses, programming and backing vocals 

Eddie Wilmin - Keyboard

Monika Axelsson - Vocals


Recorded by Loom

Produced by Henrik Viberg and Loom

Mixed and Mastered by Henrik Viberg



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

7th March 2024

martedì 5 marzo 2024

La mia Recensione: Sacred Legion - The Silent Lineage

 



Sacred Legion - The Silent Lineage


“Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti”

Jean-Paul Sartre


Una corsa corsara, le vie buffe di un passato che flirta con le ferite si catapulta nel groviglio nevrastenico di musiche col rossetto, perfettamente fissato al mistero che resoconta se stesso, nell’impermeabilità assordante che frattura attese e pretese.

Dalla provincia di Frosinone tre figure adulte lavorano al tornio, circondano i fianchi dei luoghi comuni che vorrebbero avere sempre la certezza che ogni definizione non possa essere scorretta. E allora la fantasia povera al potere parla di  “Death-Rock, Dark-Wave, Post-Punk”, come impeto di volgare approccio. Ma la band ciociara non ha nel repertorio la necessità di viaggiare con l’identità definita dagli altri: il terreno di manovra è assolutamente improntato su una libertà obbligatoriamente limitata perché necessaria a descrivere le derive umane, dove la consolazione e la cultura, di derivazione letteraria, favoriscono confini maggiormente precisi. Il sacro spazio temporale governa gli spasmi liturgici di composizioni che fanno arrendere ogni circolo vizioso. Sono molto distanti quei gruppi di riferimento ai quali la band di Fabiano, Mirko e Tony vengono associati. L’album è uno scatto da centometrista (data la brevità dei suoi ventiquattro minuti) ma vive della propensione del maratoneta, visto che l’ascolto, quello ripetuto attentamente, mostra l’attraversamento della storia, con la geografia che costruisce fattezze fisiche, sino a dare ai volti una luce che rivela complessità. Tutte le otto canzoni preconizzano un futuro da marchiare nei loro percorsi intellettivi. I tre puntano le proprie raffinate abbondanze stilistiche per accerchiare la realtà, frenando i postumi della sbornia stilistica di diversi generi musicali. È attesa orgasmica, è precipizio di un raffinato combo abrasivo, con le chitarre che martoriano il vascello di impulsi nati nella ricerca. Fabiano articola i pensieri con impeto luculliano, scartavetrando le banalità.

I suoni curano la strafottenza, si dipanano nella scuola di una modalità che favorisce una strana forma di “orecchiabilità”: alcuni ritornelli sembrano favorire l’espressione di “pop gotico in cerca di sbavature imprecise”, una modalità che può far avvicinare anche chi è meno avvezzo a queste inclinazioni climatiche e sensoriali, a questi testi che sondano e portano alla luce un bisogno famelico di congelare le verità.

Cinque parole si ripetono due volte, generando una planimetria degli indirizzi mentali.

Heart - Eyes - Life - Back - Dream.

Eccole, queste regine mastodontiche, che pilotano nel marasma di un lieve cut-up un ordine preciso di intenzioni.

La musica non compie panegirici, non potrebbe: rivela, rappresenta, seduce, martella, graffia, collega l’umore e gli odori di quella scrittura con cui dialoga, combatte, stabilisce patti sanguigni. Il basso di Tony, con fare querulo, riesce ad avvicinare l’apparato uditivo al martellamento con il fiato grosso. La batteria di Mirko è scaltra, usa toni di lancette impervie, caparbie, dove la fantasia di contro-ritmi, stop and go e percuotimenti indagatori stabiliscono l’effervescenza di un tutto che sembra sfuggire a se stesso. Allora si riscontra la notevole dose di spazi che si concedono i musicisti, le pause, gli ingressi e le uscite che fanno da colla alle intenzioni. 

The Silent Lineage non segue il pellegrinaggio di band vedove del passato, non torna indietro a rovistare tra le stelle e i rifiuti, né tantomeno salta nel futuro come un canguro ubriaco. Definisce l’immediatezza, documenta, sapendo molto bene che gli stupidi cercano riferimenti, impedendo di individuare la verità e la realtà.

Ed è qui che la band evidenzia la propria lealtà, la capacità di cadere nell’imbuto restrittivo dei generi musicali, preferendo  adottare il sudore, il silenzio, il caos che unisce le anime nei territori famelici delle sessioni di prova. Assistiamo, dunque, all’uscita del seme della loro grandezza, quella unicità che collega la ricerca e che sodomizza l’indifferenza. 

La brevità delle composizioni offre la possibilità di meglio storicizzare i graffi, gli urti, gli inchini ai sogni, fraudolenti, tiepidi, che si tuffano nella vita con poco fiato.

Giocano, dipingono, pastrocchiano con la storia indirizzandosi verso una modalità restrittiva: non abbisognano di ridondanze, di effetti boriosi ad annullare i sentimenti. Ecco, sottolinerei che la compattezza nasce dal cancellare l’ipotesi che la loro musica sia una passeggiata sonora, come abiti in cerca di applausi.

Assolutamente no: chi ascolta queste otto canzoni vede pochi raggi, ma nella loro potenza la verità viene colta ed esposta alle torture, che sono magie (non bianche, tantomeno nere), permettendo all’apparato artistico di essere una profilassi precisa di una ricerca che cura il dolore.

Quando ciò che si sperimenta è privo di istruzioni lo sbandamento diventa la gioia più sublime: perdersi diventa una risorsa e i Sacred Legion sanno come raggruppare i sensi, nel disarmonico e meraviglioso peregrinare notturno,  con sottili ma potenti intuizioni. L’album interroga, esorta, non pretende, offre sciamaniche propensioni al rifiuto della storia nella sua manifesta violenza e per meglio indicizzare l’ascolto struttura la musica nei pressi di stagioni che miscelandosi, cadendo, diventano irriconoscibili. L’inverno è la stagione di queste perlustrazioni. Andiamo ora a seguire le loro impronte e le spine, una ad una…


Song by Song


1 - Flower Phantoms 


L’ingresso di questo vulcanico processo è lento (il brano con il minutaggio maggiore), come una strategica mossa nucleare, incanta con un arpeggio della chitarra e una marcia marziale della batteria, per ossequiare il suono nei tintinnii che circondano le percezioni. Poi, come una scimitarra che scivola nelle vene, si assiste all'accelerazione ed è un salto nel ventre. Si gettano i semi, nel ritornello, di una modalità che prevede due voci nel canto, quasi a gonfiare l’ascolto per una migliore accoglienza. Pilastro, piombo, indice di una direzione che amplierà la propria energica propensione ai suoni roventi.


2 - Back to Nowhere


I tre diventano corsari, la chitarra e il basso sposano l’elettrica danza, con il tappeto ritmico che riduce le rullate e offre battiti potenti e secchi. Sono graffi epidermici che creano una collisione, frantumando lo spazio cognitivo, tornando, alla fine, in un luogo capace di disperdere ogni punto cardinale.


3 - Purify


La ricerca melodica, iniziale, presenta un avvicinamento alla cortesia, alla facilità di chi patisce questo tipo di propensioni sonore. Ma la band si rifiuta di risultare semplicistica e scaraventa via l’inizio nel turbinio di suoni famelici, feriti, mentre perdono la gravità. Proprio qui, in questi pochi secondi, il drumming torce i passi del ritmo e diventa il sovrano che governa la chitarra e il basso. Il cantato conosce la discrezione, si tuffa nella disgrazia con eleganza, senza urlare, seguendo il piombo delle parole…


4 - Dig Me No Grave


Centimetri e metri di glam rock precedono la progressione, consentono al basso di struggersi in una distorsione epica e poi via, come in un giorno di dolore senza termometro, nei confini esponenziali di un rock orrorifico che martella le caviglie.


5 - A Taste of Turmoil


Scivola la gravità, il brano diventa una recita post-mortem, un calvario di sbalzi, che portano alla memoria i graffiti del secondo album dei Killing Joke e i primi vagiti dei Southern Death Cult, ma niente si stabilizza in quei pesanti macigni e, come scelta obbligata, i tre marinai decidono di inventare onde sonore che li conducano nel sottosuolo terrestre: la velocità, che pare il pilota di questo naufragio, in realtà è data dalla scrittura di un testo pieno di miracoli radioattivi.


6 - Black Sun Ritual


Echi di Punk Islam dei CCCP aprono le danze, mettendo distanze tra loro e la band emiliana. Tutto diventa mistero, il sangue esce scosso, la lentezza, il crescendo sonoro stabilisce un piano strategico: tutto deve arrivare come un’ipotesi e divenire preciso come una forma di preghiera. Un sibilo pilota il fare impetuoso e la rarefazione sonora scende sino a incontrare il basso che scoperchia il passato di questo impeto sonoro. Invece della chitarra, a essere grattuggiato è proprio lo strumento di Tony che marchia la pelle. Come una sfida, per essere decisiva, la canzone offre ampie sfide musicali, con il cantato di Fabiano che scompare verso la fine, come risucchiato in uno strano e mefistofelico rituale.


7 - Hole In The Heart


Il botto sopra il cielo di Frosinone: con l’attitudine di un grappolo di centimetri hard-core, il brano presenta la coesistenze tra l’ardore e il rifiuto, con i suoni che circoscrivono perfettamente le parole. Nella ricerca stilistica, si noti come il brano si autosospenda, per tornare al graffio del giro armonico iniziale sino a ospitare una brillante voce femminile che spiazza e conquista.


8 - Shards


Si giunge alla fine di questo affresco maledetto in stato di grazia con la canzone che offre i propri fianchi a diversi, probabili e scontati accostamenti, ma il Vecchio Scriba li rifiuta. I tre non cercano originalità, vette dalle quali guardare con boria eventuali colleghi sconfitti. Si gettano, invece, nel labirinto lavico per lasciare la scia di ruvidità sibilanti, per stordire, non di certo per ammaliare conferendo così alla composizione un brillio, che la distingue dalle altre. Esperimenta, coglie la chance di un divenire e scrive il futuro di questa band che ha esordito facendo tremare la notte…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Marzo 2024


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-silent-lineage





domenica 11 febbraio 2024

La mia Recensione: Thalatta & The Babasons - Uanema

 





Thalatta & The Babasons - Uanema


“ ’A troppa derettèzza fa trasì ’ncurrìvo” - Chi vuole fare troppo il furbo finisce col dare fastidio a tutti.


Detto Napoletano


La polvere della precipitazione, dell’arroganza, della violenza ossida il cielo e la terra, nel tempo di un degrado in salita e in discesa.

La musica potrebbe raccontare tutto questo, ci prova, sbagliando spesso a puntare il mirino, disperdendo un compito che l’arte non può negarsi. In arrivo sulla nostra disordinata propensione alla dispersione un album che è un lavoro pregno di anarchia, imprigionato nei limiti dell’uomo che la nega, fisicamente, mentalmente sino a farlo anche con i sogni. Sono storie che attraversano il tempo, come furti autorizzati per spiegare la dannazione umana, utilizzando sistemi multipli che arricchiscono la comprensione. 

Pare di veder passare tra le strade di Pomezia LA VECCHIA ‘O CARNEVALE, la maschera doppia che comprende una vecchia signora e Pulcinella sulle sue spalle, mentre con le sue nacchere (le Castagnelle) porta a spasso racconti, scherni, frustrazioni e scherzi per svelare l’inettitudine locale e non solo, come uno sguardo che svela e abbatte le maldicenze. Il titolo del lavoro è una esclamazione di stupore, di sorpresa (Wow, Dio mio…eccetera) ed è quello che sa generare nel cuore del Vecchio Scriba: gli alimenti con cui il tutto viene presentato spaziano, spezzano il fiato, come spezie miracolose che sanno cambiare perfettamente il gusto per ordinarlo, assemblarlo e tributare l’applauso del palato. Un disco che parrebbe essere una sessione serale di prove tecniche per un concerto: via la tecnologia, i software, la produzione che gonfia un prodotto e nasconde le reali capacità rappresentate. Semplice, diretto sporco, senza artifizi, decolora gli inganni e mostra i pugni, con testi che eseguono autopsie continue, e musiche capaci di camuffare combat folk con un rock esagitato e violento a tratti, dolce in altri. Ma c’è un sudore che cade sugli amplificatori e che ossida le bugie, le finte strutture e offre alla musica la verità. 

Uanema è un virus benigno, malefico, un cantautorato fine che si tuffa nella forma propulsiva dello scontro, del disturbo, sequestra l’inutile e presenta il conto, tra solitudini, voli angelici, traffici loschi, disperazione e soprattutto una abbondante dose di rabbia educata alla costruzione di un cambiamento, prima individuale e poi collettivo. Chitarre che partono dagli Smiths per arrivare alla Darkwave, al proto-punk, sino ad afferrare per i capelli l’alternative, sviluppando tra le sue trame fiumi usciti dai vaporosi anni Settanta. Il basso è un animale libero di ferire, con dita prensili, soffocanti. I due strumenti coesistono perfettamente in quanto privi della morbosa attenzione verso gli effetti: scevri della finzione, seguono una linea diretta che impatta e finalmente ci sgombera dall’ingombrante moda attuale. Il drumming è un vomito integro, spavaldo, concentrato, con la tecnica del cuore che spazza via la storia. 

La voce è una forma epilettica, che veste la passione e si appiccica ai colori, divenendo sempre di più un termometro che rivela calore e meditazione, tra slanci e frenate proficue, moderata e potente, fissa l’ascolto nel pianto a dirotto, mai sazio, nell’applauso delle emozioni che sa procurare.

La lingua napoletana e quella italiana si schierano dalla parte del sostegno ai concetti espressi, alle storie, alle favole sbilenche che debbono essere raffigurate attraverso una scrittura molteplice, mai avversarie, ma portatrici sane di ricchezza. La musica pare essere la prima risorsa ubbidiente a queste avventure, la radiografia pulsante che ipnotizza, non divaga, sempre certifica la verità che trova nei versi e nei percorsi ritmici e melodici un sostanziale bacino espressivo, dove si pescano elementi che ci rendono più maturi. I brani sanno spesso presentare, al loro interno, cambiamenti di atmosfera, di ritmo, con splendidi controcanti e cori che danno all’insieme una forma di completezza che non abbisogna di sovrastrutture. Canzone dopo canzone ci accorgiamo della loro attenzione per la storia di personaggi che provengono anche dal passato (Villanella sballata), in una processione di morali e accadimenti che si scambiano il palcoscenico, tra l’ironia e il polso fermo. Nulla vacilla, non esistono momenti di decadimento artistico: come se le nostre mani, in questi trentasette minuti, continuassero ad arrossire e i nostri timpani a raccogliere le scintille di fuoco che queste parole e questi movimenti musicali vogliono generare. Ci si sente come tramortiti, accarezzati, tra feste e giornate in cui la solitudine ha il significato di emarginazione: i quattro di Pomezia lottano, urlano, si arrabbiano e cercano di creare una nuova sensibilità utilizzando la realtà, le leggende, le storie, le tradizioni di luoghi che paiono sempre più allo sbando. Si oppongono: ascoltate con attenzione come i loro flussi coscienti creino dipendenza, attraverso gli arpeggi della chitarra e i pugni di Thalatta, Dea che sta tra il nero e il bianco, creando vortici di grigio per sveltire una presa di posizione. L’emozione di questi brani è solo la fine di un abito nuziale, la sua coda, in quanto, se si presta accurata attenzione, ci accorgiamo di come il tutto venga messo sul fuoco, per scaldare una sensibilità che la musica moderna non offre più. Il disco italiano più necessario di questo 2024, e non solo, è qui, attivo, votato allo struggimento e al consolidamento di necessità che abbiamo disconosciuto. Otto attestati intellettivi spalancano il centro del sistema nervoso centrale e lo mettono innanzi a una scelta: o avviene uno scatto interiore o si muore…

Quello che arriva è un terremoto proveniente dalla coscienza, alleata in modo magico alla storia dello sperpero, e il risultato è una collezione di brani come perle vere, senza prezzo: sta a noi nutrire il risveglio, e questo album ci presenta il conto, cercando di dare alla resa, alla pigrizia una serie di sberle più che meritate. Grinta, passione, metodo, nel progetto finale di un lavoro che disintegra il superfluo. Non vi capiterà più di ritrovarvi tra fiumane espressive che sono volte a destabilizzare l’inutilità quotidiana…


In conclusione: quando l’arte sveglia i battiti cerebrali, quelli del cuore si aggrappano a essi come un circo gioioso dove la maturazione è l’unico obiettivo raggiungibile. Un’opera fuori dall’ordinario, un vascello temporale che ci mette sulla rotta di una crescita umana inespugnabile….


Album Italiano del 2024!


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Salford

11 Febbraio 2024


https://thalattaandthebabasons.bandcamp.com/album/uanema-2




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