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sabato 18 maggio 2024

La mia Recensione: Man of Moon - Machinism


 

Man Of Moon - Machinism


Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze, a rendere le relazioni individuali e di massa estremamente complicate. L’avanzamento della tecnologia, l’immobilismo fisico e mentale, con la conseguenza di una massiccia dose di pigrizia stanno generando tensioni che è impossibile non vedere e sentire.

Parte di tutto ciò confluisce nello strepitoso secondo album della band Man Of Moon, titolare nel 2020 di un lavoro a lunga distanza che aveva permesso alla gioia e allo stupore di abbracciarsi e quell’effetto dura ancora oggi: Dark Sea è stato uno degli esordi più significativi degli ultimi anni. 

E dopo quattro, Iain Stewart (il nuovo batterista) e Chris Bainbridge (voce, chitarra, basso, electronics), offrono un lavoro perfettamente accordato ai temi sociali affrontati e a musiche che sanno spaziare in modo sopraffino, trovando il modo di dare lievi segnali di continuità con il primo lavoro, ma soprattutto la volontà di creare un tema sonoro che specifichi intenzioni e direzioni, un laboratorio a cielo aperto, un'indagine, una metamorfosi, un lento cammino nel cuore di fantasie e bisogni perfettamente in sincrono.

È un lungo sguardo all’interno delle immagini, delle abitudini, di ciò che è mutato e ha portato all’eccesso il bisogno di porre se stessi costantemente sotto i riflettori, con la conseguente morte della privacy, del pensiero profondo, consegnando il tutto nelle mani spietate del Mercato, con i valori antichi che esalano gli ultimi respiri e quelli nuovi che sono ad appannaggio di una nuova gioventù non più in grado di rimanere connessa con quella più vecchia.

L’album è una scudisciata, gentile, una morsa sonica dentro le abitudini, un evidenziare gli sconvolgimenti con lo sguardo che fa da base ad atmosfere che spaziano tra il cupo e l’allegria: Chris e Iain non vogliono consegnare un atteggiamento dimesso ma essere messaggeri dotati di forza, coraggio, togliendo alle allucinazioni e agli estremismi spazi pericolosi e dannosi. Musica per educare, per cercare un contatto diverso per creare presupposti di miglioramenti che possano far scattare nuove strategie, anche attraverso la danza, antichissimo sistema per compattare le anime.

Per fare tutto questo l’utilizzo degli strumenti, gli stessi dell’esordio per intenderci, qui trova la raffinata capacità di estendere i colori, i suoni, con l’abilità di convogliare pensieri in emozioni limpide, seppure anche mediante una inevitabile dose di drammaticità. Ma si sente il progetto, l’intenzione che scorre dentro gli undici episodi, per creare un mood e un mantra che tiene alta la tensione, un urlo educato che mette addosso quei brividi capaci di non lasciare impassibili le menti all’ascolto.

 Cresce la sensibilità, l’accortezza di adoperare dosi di impianti razionali che non siano fraintesi, facendo in modo che l’insieme sia un’opportunità, innegabile, per compiere un balzo portentoso verso  qualcosa non fatto in precedenza, non necessariamente da definire ma che di sicuro bisogna vivere, creando il terreno di una novità che renda il comportamento univoco, dando una bastonata all’eccessivo desiderio di libertà, un leitmotiv che alla fine è la causa di quasi ogni male odierno.

Viene riesumato il rispetto, l’orgoglio dell'intelligenza umana che vuole rifiutare quella artificiale, anche se accoglie la seconda, ma stabilendo confini diversi. Un lavoro estremamente accorto, profondo, talmente efficace da lasciare completamente sorpresi, sconvolti, con alla fine dell’ascolto l’urgenza di dire basta e di tirarsi su le maniche.

Le composizioni arrivano sull’epidermide per poi entrare nei circuiti venerei, nei labirinti del pensiero, nelle ossa che decidono danze frammentate ma possenti, uno scuotimento continuo senza pause: non sono di certo le canzoni più lente che concedono la calma, perché nulla di tutto ciò esiste in questo fragoroso album, che nulla è se non una slavina gentile ma impossibile da fermare da parte nostra, con il risultato di gridare all’unico miracolo attuale generale necessario, che è da stabilirsi nel risveglio della coscienza, uscendo dall’avvelenamento e dal successivo torpore.

La luna qui è per davvero divisa in due e l’uomo che la guarda deve muoversi, cambiare prospettiva nello sguardo, pensare alla sopravvivenza della ricchezza vera, quella integra, e farsi scuotere dai raggi che arrivano da lì, senza nessuna resistenza. Sempre più isolato dal contesto sociale, l’essere umano di Machinism può godere di una concessione fragorosa e importante: vedere per davvero le distanze, il senso dello spazio interiore ed esteriore, e cercare dentro di sé quelle capacità che rendono il contatto l’unica forma di salvezza possibile.

I flussi musicali sono la base di ispezioni importanti, di generi che si mischiano cercando la propria elevazione, in un circolo terrestre dove melodia, armonia e ritmo vivono un gemellaggio intenso, consegnando canzoni che, oltre ai pensieri e alla danza, sono in grado di consolare, di vedere la band conservare le proprie iniziali radici ma con la grande volontà di disegnare nuove trame, ispezioni, per quelle possibilità stilistiche che conferiscono, in modo innegabile, un applauso massiccio. Tante novità, un sali e scendi di “giochi” siderali, perlustrazioni che finiscono per consegnare un’ossatura davvero miracolosa, per fare di quest'arte un clamoroso appiglio, senza sbavature. 

L’elettronica vive una nuova stagione, meno separata dalla struttura rock/indie/alternative, per un connubio che mette radici diverse, offre il gancio per connessioni desiderate ma impossibilitate, prima, di divenire una devastante realtà. Iain esalta la ritmicità, creando spazi innovativi, in grado di unirsi alle praterie sonore di Chris in un combo che avvolge, semina nuovi sogni diversi che in pochi minuti risultano essere reali e credibili, in una corsa sensoriale che esalta, perfettamente, una geniale macchinazione preventiva.

Il basso e la chitarra sono uniti maggiormente rispetto all’esordio e le basi di tastiera sono meno isolate, meno appariscenti ma più consoni a un messaggio unito, che parte proprio da ciò che si ascolta nella sua interezza, finendo per far emergere una complessità che scivola perfettamente nella gradevolezza. La forma principale è quella di far diminuire il desiderio della strofa e del ritornello, per far concentrare l’ascolto maggiormente nei segnali, nei suoni, nelle dinamiche, nei flussi che sembrano diventare materia, secondo dopo secondo, con un elevato controllo delle strutture espressive.

La produzione, eccelsa, valorizza una sensazione generale che è più intuitiva che pratica, un non concept album sonoro che pare tale, per compattarsi perfettamente con i testi che sono decisi, spigliati, energetici, determinati con pitture di versi poetici che incantano e sorprendono. 

La prima parte di Machinism vive di maggiori espressioni di elevate propensioni ritmiche, dove la velocità è un’urgenza metodica bilanciata verso la comprensione dei messaggi. La seconda, dove non manca di certo il ritmo e una certa “aggressività” sonora, pare essere un sonno agitato, un viaggio nelle attività oniriche che debbono essere interrotte in quanto c’è un compito da svolgere in fretta. Perfettamente unite queste due sezioni, si capisce immediatamente che l’ordine delle canzoni ha comportato un buon lavoro razionale, per un risultato che evidenzia genialità, capacità e l’individuazione di quell’aspetto culturale che la musica di oggi pare voler non considerare. Ma i due ragazzi di Glasgow hanno le spalle larghe, un intuito sveglio e brillante, intenzionati a essere non compagni di ascolti bensì gli ispiratori di nuove vitalità, in un’urgenza gravida di scintille e raggi lunari perfettamente amichevoli.

Armiamoci di curiosità e tuffiamoci in questi undici episodi: c’è la bellezza che ci aspetta, a braccia aperte, piena di fiducia nei nostri confronti…


Song by Song



1 - RISE

L’atterraggio sul pianeta Bellezza inizia con lo stile della band subito riconoscibile, il suono della chitarra lungo che fa da collante a un senso di attrito che affascina e scuote allo stesso tempo e poi via, con una tribalità rock che strizza l’occhio a una sperimentazione elettronica appena accennata. 

Magnetica.



2 - YOU AND I

Terz’ultimo singolo prima dell’uscita di questo secondo album, ha la capacità di dare alla modalità del canto la facoltà di catturare l'attenzione per poi approcciarsi a una forma espressiva vicina allo space rock meno marcato. Cupa, elettrica, sensuale, la canzone ci fa compiere un salto temporale vistoso, con gli anni Settanta a marcare quanto non siano necessari molti cambiamenti per rendere interessante e valido un brano. Nel finale l’atmosfera vive splendide alternanze ritmiche.

Sexy.



3 - SWIM

Atomi iniziali di Industrial ed Ebm per poi diventare una torcia che contempla solarità e ritmicità con la pelle della psichedelia che corre insieme al ritmo, per una danza ipnotica che tatua la melodia breve nel circolo dell’eternità. I Suicide applaudirebbero, così come i Front 242: da una minimalistica forma di approccio a un’era ormai superata, i Man of Moon colorano istinti e pulsioni con un riff che inchioda al muro.

Vistosa.



4 - VIDEO

Nel penultimo singolo si rimane folgorati dal perfetto equilibrio tra il ritmo e l’atmosfera, che sembrano ambienti separati ma con innesti magici che ci fanno vibrare regalandoci una sensazione di grande preoccupazione e melanconia, dove la realtà viene trasportata attraverso questa minimalista forma espressiva. Dal sapore tragico, spaventoso, potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un film di Akira Kurosawa, perché permette alla paura di essere un compagno intelligente, utilizzando gocce di Krautrock e brandelli di psichedelia.

Devastante.



5 -  TIME

Tocca all’ultimo singolo definire la maturazione, la progressione, i nuovi spazi visivi e sensoriali che la band vuole maneggiare, mediante una forma robotica che contempli un cantato che pare piangere senza troppo dolore, donandoci una strana sensazione che è quella che ci fa innamorare di questa canzone, la quale non è nient’altro che un gioiello misterioso che mette in disordine il nostro tempo. 

Magica.



6 - THE TIDE

L'iniziale approccio ci porta in casa dei Velvet Underground per poi scappare via, lentamente, nei crateri di una sospensione che toglie il fiato. Con la lentezza la melodia del duo diventa un’aurora boreale, uno spettacolo infinito. E quando un brano semiacustico ci rende magneti in stato di contemplazione, allora possiamo affermare che la band sa come paralizzare le convinzioni, generando uno splendido marasma interiore…

Ipnotica.



7 - IN THE WATER

Ecco il combo che scrisse lo splendido Dark Sea ricordarci quell’album attraverso un imbuto di nervi tenuti miracolosamente in piedi dal loro carisma, dalla capacità innegabile di sospendere le atmosfere, di essere espressione di una nuova melodia in trasformazione, allegando una ritmicità che trascina senza mai esplodere.

Miracolosa.



8 - REIGN

Nevrotica, drammatica, esplosiva con stile, fascio lunare in uscita dalla propria orbita, la canzone è una frustata baciata da coralli elettrici, un alternative che cerca legami con l’elettronica che si affaccia ma non contamina, per conferire al tutto una sensazione di sacralità moderna.

Misteriosa.



9 - MACHINE THAT BREATHE

La lacrima più incandescente esce da note magnetiche di un piano che subito ci fa sprofondare e ci rende obbedienti, per poter ascoltare un dolce tormento che scaturisce dalla voce sussurrata di Chris, qui il magnete che stordisce senza alcuna esitazione. Circonda i sensi con il suo tono quasi dimesso, un applauso con i guanti di seta, che trasferisce un dolore cercando e ottenendo una dolcezza come consolazione…

Fragorosa.



10 - RUN AND HIDE

Uscita nell’ottobre del 2021, la canzone conosce un accattivante ritocco, una maggiore propensione al misticismo, una preghiera caustica, una introversa preoccupazione che arriva alla constatazione del dubbio sulla nostra sopravvivenza, mentre la struttura minimalista, con la chitarra finale a stordire l’amarezza, fa di questa composizione la stella polare che ci guida verso la nostra ultima possibilità di comprensione…

Lunare.



11 - THE WILD

Lo stupore maggiore arriva con il brano di chiusura, una genuflessione che prevede una decadenza anomala, un vortice che assomiglia a un sibilo, con le note della tastiera del piano (circondate da un synth spettrale che ipnotizza l’atmosfera) a essere un canto triste che precede quello di Chris, in un idillio che spacca il cuore, un avamposto di una tristezza che non ha appigli ma rilascia tossine in grande quantità. Un cantato mai espresso in precedenza, capace di essere un’altalena nel vento, un andare e un tornare graffiando la nostra anima con una strana dolcezza. Poi il suo finale, nebulosa chimica in trasparenza, ci offre l’ultimo pugno in faccia…

Ingovernabile.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18th May 2024


Lo potete prenotare qui:

https://manofmoonband.bandcamp.com/album/machinism-2


Written and Recorded by Man of Moon 
Produced by Man of Moon and Paul Gallagher 
Mixed and engineered by Paul Gallagher 
Mastered by Ryan Shwabe 
Artwork by Peter Kelly

domenica 12 maggio 2024

La mia Recensione: Chants Of Maldoror - Ritual Death


 

Chants of Maldoror - Ritual Death


Un nido d’api abita nel cratere del cielo, a bordo di un veicolo che lo trasporta tra le diverse forme di ingresso in studi e perlustrazioni, e nel quale quattro insetti ci mettono a conoscenza di ciò che accade. Il tempo, gli spettri, gli andamenti tellurici, i sospetti, i drammi, il dibattito religioso, il rispetto della morte, gli assassinii, genuflessioni umane sapienti, i tranelli dell’esistenza: è solo l’inizio di questa esposizione di materia in ebollizione, dove il contenuto risulta essere un fascio sonoro che scartavetra gli spiriti e li rende liberi, mediante contaminazioni e fluidi apparentemente indigesti, con un nero che diventa la luce per vedere l’intensità di un processo che conosce l’evoluzione e il suo opposto.

Le quattro api di Frosinone e dintorni mettono su una cassetta il magnetico processo di miscelazione e processione di un incanto piangente, un attraversamento delle condizioni note e quelle meno note del dolore, della fascinazione simbolica cara a queste menti gravide di interessi, dando all’occulto, al sondaggio dei segni, alla bellicosa bolla di scoperte il compito di rendere il tutto una questione solo apparentemente legata alla musica. L’ascolto comporta il sacrificio del trambusto personale, una detumescenza inaspettata, un rito di guarigione inatteso, violento, mai approssimativo, all’interno di una manipolazione funerea che vede due generi musicali non essere il senso ma il mezzo attraverso il quale si mostrano le cose più che sentirle, dando così modo allo stupore di essere materia in esposizione, una nuova scusa per le porte delle percezioni per esibire un lungo vestito pieno di merletti di anime davvero capaci di non avere paura.

Sette candelabri dalla pelle ruvida vagano nelle corsie dello spazio facendoci sentire il loro respiro, in un groviglio di tensioni e dolori lancinanti che non cercano alcuna consolazione: si è talmente inebetiti davanti a cotanta intensità, introspezione, che pare, alla fine dell’ascolto, di aver vissuto una serie di miraggi in cui la volta celeste ha voluto consegnarci segreti pesanti ma necessari per la consapevolezza di una conoscenza divenuta, brano dopo brano, più che necessaria.

Benvenuti, allora, ai nipoti del Conte di Lautréamont, che depongono la loro ghirlanda sonica sulle assi di un teatro tetro, lancinante, pieno di schegge e artigli, nel quale il ritmo, la forma, la densità delle canzoni riempiono il tutto di orgoglio e devastazione. In Italia una simile qualità percettiva non aveva mai trovato modo di essere vissuta. Non è necessario catalogare, gettare queste sapienti creature nel calderone di stupide definizioni, bensì dovremmo tutti ritrovarci nella commozione di un viaggio psichedelico e alchemico attraverso un tempio scoperto, come un incanto che si fa toccare.

È inutile andare a fossilizzare la curiosità all’interno di cosa ci può far ricordare quello che ascoltiamo qui: mi pare piuttosto più corretto diventare anime studiose che vogliono catturare ogni atomo di questa chicca assoluta colma di unicità da riscontrare, tra sacrifici e spine sul capo del nostro cuore, mai affranto ma pulsante di stelle contenenti segreti in fase di emersione.

Adolphe, David, Echo e Loren sono gli emissari, i corvi di grotte in costanti eruzioni, gli artefici di questo vagabondaggio che rende le nostre orecchie tumulti continui, febbricitanti e timorose. Le loro mani, le ugole, le propensioni sono un ardire, una sfida, un concetto, una trama bellica che ci conduce alla verità che nella sua scomodità ci abbellisce con patemi abili nell’ungerci la pelle e il pensiero. 

Viaggiatori del tempo e di incognite, i Chants Of Maldoror sembrano spiriti millenari con una vitalità ineccepibile e straordinaria: malgrado la quantità di meteore esplose nelle loro mani, la scrittura è ordinata, concentrata, capace di un sorriso macabro ma stupefacente, un miracolo nel baricentro delle loro grazie, processate, messe in ordine ed esposte come esplosioni nel nucleo di metamorfosi continue.

Partiti come emissari del Medioevo, intenti a conoscere i rituali che fanno inorridire la maggior parte delle persone, questi ragazzi già adulti spostano le intenzioni e si tuffano in una volontà artistica che solo apparentemente appare più “comoda”: in realtà divengono ancora più devastanti, tremendi cavalieri di battaglie e scontri con i moti dell’anima, studiosi ribelli, indifferenti al circostante, splendidi concentrati di capricci e ostinazioni a cui noi risulta semplice essere ubbidienti, per trasferire la conoscenza nel processo dell’esperienza.

Una decadenza che si trasforma in un luogo dove la rassegnazione, limpida, conosce impeti, e la frustrazione riesce a trasformarsi in una meravigliosa gioia più che mai atipica. 

Lo spettacolo conosce regole, circospezioni, tumulti soffocanti, stati di perdizione, all’interno di una trama mai confusa ma che diventa insostenibile solo per gli ignoranti e per le menti volutamente superficiali. Pallottole, rovi, preghiere senza Dei da raggiungere, inchini e devozioni dai linguaggi complessi: questo è il regalo offerto dai quattro senza richiedere sacrifici ma facendoci notare, in ogni composizione, che l’ascolto può generare promiscuità e abbandono delle volontà, in un rapimento che non lascia sconfitti.

Il suono, lama di metallo dalla pelle resa acida dai dolori impenitenti, è il Re del tutto, il principale maestro, l’anticipo di ogni pendio che si vivrà attraverso sequenze di accordi e ritmi che creano un boato e una discesa continua, per ossigenare il centro della terra. Il crooning, il recitativo della voce, le tonalità che sono grovigli di sangue con i libri in mano, sono appannaggio di Adolphe, sacerdote del buio, studioso incontenibile, attore e regista di un teatro interiore che fa tremare. La sua qualità più evidente è fare della voce la perlustrazione di anime in viaggio, un alunno intuitivo scevro però di legami con chi lo ha preceduto, per potersi sistemare, indomito, sul trono della bellezza.

Loren è un alchemico della melodia, uno sperimentatore, un discepolo della bellezza nera, indomito, con un impeto pieno di sale e miscele, come un druido che studia gli elementi della natura e li trasferisce sulla sua sei corde.

Echo è una bolla sonora che si stende sui tasti bianchi e neri di un synth e di un piano, per regolare la temperatura del dolore e creare piani emotivi dove tutto è adiacenza, un patto di strutture che si sposano con le altre forme musicali, per conferire al tutto sacralità.

David è il governatore degli istinti, il portiere che apre il rumore della terra e lo porta dentro i meccanismi malefici di Loren ed Echo, un trapezista del suo strumento, che definire basso è totalmente riduttivo. A lui il compito di manovrare gli umori, di pilotare i fasci emotivi dentro il ventre, di stabilizzare le onde magnetiche di una band che sembra essere una orchestra del Settecento, priva di inibizioni.

Quello che stupisce maggiormente nella musica dei COM è che ci si ritrova davanti a pennellate di suoni sulla tela della vita, per un’arte che sembra diversa da quella musicale, come un fraintendimento che però unisce entità diverse. Un processo creativo che parcellizza le conoscenze nei confronti di stili ormai irrigiditi dall’adorazione, in cui manca il processo critico. I quattro, invece, non fanno Death Rock o Gothic Rock, bensì inumidiscono la conoscenza con dipinti che disintegrano ogni convinzione, ribelli armati di intelligenza per essere fragori non voluti dal Ministero di quei due generi musicali…

Disobbedienti e anarchici, i ragazzi entrano nel labirinto di ogni tensione per destabilizzare anni e anni di convenzioni che sanno rendere inutili. C’è una piacevole arroganza da parte loro: non essere sudditi, ma regnanti inconsapevoli…

Meraviglia, e non poco, che non si possa sprecare tempo nel cercare riferimenti stilistici e culturali con questo gruppo, in quanto ciò che si evidenzia è una tortura personale innanzi al noto, sfuggendo continuamente per poter elevare la conoscenza in un campo dove le novità possono essere raggiunte.

Preferisco immaginare questo combo all’interno di uno spazio culturale che parta dall’origine degli spiriti, di impulsi che elevano il genere umano, passando dal Medioevo, per trasferirsi nel cielo, in un tripudio di sensi che espandono una necessità simile a una malattia che vivono con positività, degni del bacio della morte che li osserva compiaciuta. Creano un tappeto di putride incombenze, appuntamenti con catene e artrosi mentali, nell’idillio di un ghigno che da malefico diviene digeribile.

Attraversando gli abissi, fissano i pensieri dentro un crocefisso mentale in cui tutto è inchino e stupore, per liberare ipnosi e magnitudini in modo costante.

Aduniamoci, sospettosi e tremanti, attorno a questi sette candelabri, per  mettere per iscritto, prima di adorarli, le nostre paure…


Song by Song


1 - Reunion and Death

“I sink the knife in the mother’s heart

and the capes grow scarlet from violet”

Cavità metallizzate, vapori e fuochi fatui entrano nella coda di un funerale emotivo con il recitativo di Adolphe che regna sulle scintille sonore gravide di allucinazioni provenienti dalla baia di San Francisco.

Molto più di un teatro del dolore: qui, sin da subito, ci si ritrova catapultati nel fragore di un abbandono dove lo smarrimento è dato da chitarre acide, con impeti nucleari.



2 - Feast In Black (Mortualia)

“My soul is in shards, in and out of the way spot of my skull”

La lotta degli abitanti dell’inferno diventa un sacrificio inevitabile, e la voce, che pare lontana per non farsi raggiungere, declama versi inospitali, la morte nel suo manifesto trionfo del momento del funerale consente alla musica di essere eterea ma ribelle, con il synth di Echo che dà l’idea di dipinti tetri e malinconici e il basso a scandire ogni paura…



3 - Post Mortem

“Restless shapes are dancing on the blade of my knife”

Immagina, in una notte piena di fulmini, i Virgin Prunes a cena con i Bauhaus, tra litigi e risate impertinenti, in oscillanti adorazioni di gesti violenti comandati dai COM con grande intelligenza. Cupa, greve, lancinante esibizione di scomodità uditive nel fruscio delle api che lavorano per detergere l’ignoto all’interno della paura. Lancinante parata di suoni che incollano al vetro viscido di coscienze in tumefazione… 



4 - Resurrection

“Resurrection is real death!”

Si va a Francoforte, a bussare alla porta della casa di Varney Cantodea, per vederla danzare felice, per questa composizione che arriva dal Settecento, mentre, dopo un bagno di modernità, si sacrifica in un movimento breve ma efficace. Si contesta, si riduce la religione a una miseria evitabile, si fa spazio alla verità millenaria perennemente negata e l’ovvio trova la luce manifesta della volta celeste. Ridondante senza distorsioni, la canzone è il miracolo della seduzione gotica al suo massimo livello…



5 - Baptism Until The Angel

“Doesn’t appear the lost image of the end”

Scosse nevrotiche, lame sul manico di Loren, gramigna nella voce di Adolphe, qui mago nero della morte, messaggero con le borchie nel cuore, mentre si lancia nei solchi del basso e della drum machine, con la chitarra che indaga e crea pertugi…



6 - Red Communion

“With Angels crucified on red roses in bloom”

Lo scenario cambia, ci si ritrova in una chiesa ipnotizzata da Echo, maestra e pittrice in avanscoperta: dopo pochi secondi il brano diventa una allucinazione sensoriale al cospetto della paranoia, per catturare il sonno umano e catapultarlo nel baratro del tempo. Marziale, oscura, impenitente e malvagia, la composizione  riduce al minimo la melodia e l’armonia per essere caos e genuflessione paralizzante…  


7 - Requiem Aeternum

Sull’eterno riposo la band scioglie una nuvola sonora che appanna l’udito e ci fa precipitare nello sconforto, in una ritmica che inchioda mentre la voce fa accapponare la pelle e la mente vaga persa nel limbo dell’ignoto. Suoni come cadaveri freddi, dove solo il basso alla fine sembra ricordarci che stiamo ascoltando qualcosa di “umano”.

Un congedo sorprendente che fissa il valore della band laddove nessuno se lo aspetterà, perché chi precede vive il lutto della incomprensione…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Maggio 2024



giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


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