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lunedì 18 settembre 2023

La mia Recensione: The Sound - Jeopardy

The Sound - Jeopardy



“È sufficiente l'impatto di un verso per far esplodere i detriti che seppelliscono l'anima.“

Nicolas Gomez Davila


L’amore non conosce la sconfitta, anche se vive in un granello di lucide ferite, perché il suo senso è in ogni caso una vittoria, spesso portentosa, a volte meno, ma non in grado di perdere.

Nel 1979 nacque la casa discografica Korova, lo fece a Londra e la prima band a firmare fu quella degli Echo & The Bunnymen, provenienti da Liverpool. Poi una di Wimbledon, attiva sin da prima del gruppo di The Killing Moon, che recitava il suo tentativo di ammissione al mondo musicale con un altro nome.

The Sound.


Il sentire comune viveva alla fine degli anni Settanta una fase purtroppo convinta di un approccio stolido, che non consentiva di affermare la dinamica dello sfacelo. Pochi canali di ingresso e la sensazione dell’inizio del disinteresse nei confronti del circostante che agli inizi del decennio successivo dichiarò lo smarrimento nei confronti dell’impegno. La musica non ne  è stata immune. Ma il gruppo di Borland aveva altre priorità e si distanziò. Emersero qualità pressoché uniche e ben amalgamate con in più le stigmate di un fuoriclasse dalla mente lucida, seppur già sanguinante.

L’anima strappata che si fa urlante e al contempo moderata plana su ogni solco dell’album. Vengono messi a disposizione e in esposizione fiumi di correnti come edera volante nei cuori, dove le unghie trattengono il respiro e il contenuto scosceso di pensieri in stato di assedio. La bellezza è sita anche nell’eruzione complessa di un vulcano che conosce il metodo per presenziare con lentezza e velocità, in una danza avvolgente di fumo e calore.

La grazia della scrittura avvolge la disgrazia dello stato dell’essere umano, qui non negoziabile ma messo in condizione di divenire un peso da bilanciare con dosi necessarie di istinto ed equilibrio.

Jeopardy è una graticola di chiaroscuri girovaghi, in apnea e in fase di slancio, come una metamorfosi continua per abbellire la fatica e la condensa di pensieri che diventano operosi attraverso i canali musicali assestati per tritare il tutto. C’è uno spirito che non si pente, seppur sofferente, e che staziona nelle canzoni come uno specchio obliquo e timoroso, per vascelli di note che aspettano la cortesia di un approccio attento: ogni sequestro ha un luogo blindato e chiuso, ma l’ascolto del lavoro di esordio dei quattro regala la possibilità di comprendere una precisa traiettoria, senza divagazioni. Quello che si trova è una magia grigiastra che istruisce e contempla zone fumogene, come pergamene sonore brillantemente appiccicate alla realtà di questi ragazzi, terremotati nell’affetto e che inducono le nostre curiosità a un abbraccio definitivo. 

Arrovellato sulle rocce apparenti di un Post-Punk sanguigno, il puzzle rivela invece altre maestrali locazioni stilistiche, un solido che riempie i liquidi delle nostre giornate assetate di mistero e della bellezza con l’abito notturno.

L’energia profusa non profuma di freschezza, nulla di davvero adolescenziale viene inciso, in quanto solo agli adulti è concesso di fuggire da se stessi e di perdersi, per sprecare dignitosamente il proprio tempo. Ma i Sound anche qui prendono le distanze: confezionano canzoni come spine con la bava alla bocca, incapaci di seccare perché la cupa poesia esistenziale, una volta che si trasforma in composizione sonora, incontra l’infinito e l’eternità è un amaro destino da consumare.

Drammatico, intenso, nebuloso, denso di incidenti morali (dati da una scrittura acerba ma consapevole, aspetto che sia il Punk che il Post-Punk non sapevano creare), questo esordio stabilisce il punto di inizio della confusione degli addetti ai lavori, del pubblico e dell’industria musicale. Privi di immagini, proprio all’inizio della svolta totale fatta di bassi contenuti culturali a favore del disimpegno e del nascente motore distruttivo del look, i paladini della diversità dimostrano non solo una volontà anacronistica, ma anche quella dose di menefreghismo che li ha resi invisi ai più.  

C’era l’amore da vivere, il mondo da scoprire, il pitturare note come una scossa adrenalinica con un robusto freno a mano e l’incoscienza non ribelle a guidare i ragazzi nell’Olimpo, quello oscuro, perché quello visibile era preso d’assalto da gruppi che mordevano le caviglie pur di stazionare in quel luogo. 

Ma Adrian, Michael, Graham e Bi erano sordi, muti, non inclini a piegare la schiena morale del loro bisogno: cercavano l’altrui sincerità e verità, ricevendo in cambio l’esclusione “dai quartieri alti” di un carrozzone che ha dimostrato come nemmeno nella Musica esista la giustizia. La disperazione, la tensione della responsabilità di un combo non voglioso di definizioni ma di mani libere, condusse a una scrittura altamente acerba, diritta, dove il suono veniva prima dell’idea di una qualsiasi successione di accordi e melodie: bisognava posizionare il senso in un qualcosa di riconoscibile e cosa c’era di meglio se non quello contenuto nel nome stesso della band? 

La frenesia spezzata e spossata da un cambio ritmo, nell’economia di una scaletta che è composta da undici canzoni, fa sì che non sia l’equilibrio a bilanciare il peso specifico del lavoro, bensì una determinante voluta con capriccio e capacità di imposizione. Tutto scorre nello schianto di un sentire unico: a nulla valgono i paragoni e i riferimenti con cui i quattro hanno spesso dovuto convivere. L’unicità è dentro i nostri apparati uditivi, se quelli sensoriali ed emotivi sono stati sgomberati dall’imbecillità del confronto. 

Le tensioni politiche, i luoghi svuotati di pennelli atti a esporre la volontà del vivere, le ambasce di un tempo (quello della capitale inglese) che erano divenute casse di ridondanza ma prive di qualità e contenuto, conferiscono a questo album il ruolo di uno specchio spesso coperto. Ad altri toccava esibire finzioni, ai Sound interessava indagare, far emergere e sottolineare le astruse incapacità umane.

Jeopardy è, così e senza dubbi, un unicum feroce, nel quale lo stordimento rapisce il cuore e lo congeda, per far mancare il fiato pure ai sogni. I testi, ancora legati a soggetti di cui molti volevano parlare, dimostrano ferocia e una grande ironia, uno spirito battagliero ma già contaminato dalla sensazione che valesse poco manifestare idee diverse e opposte. I fighetti, i bambinoni irresponsabili, gli arrivisti, le aquile assetate di potere avevano altre mire. Si salvavano solo  i Joy Division in quell’anno, non il cantante, caduto nella disperazione.

Tutte le altre band (Police, The Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees) avevano altri lidi da raggiungere.

Adrian voleva amore. Darlo.

Punto.

Non sono arrivati in anticipo con questo stratosferico grappolo di canzoni, né in ritardo: semplicemente non esisteva il tempo favorevole per la loro supremazia. Nell’ascolto il cuore e le gambe si piegano in uno sconforto definitivo.

Le undici scintille sono luoghi abitati da una frenesia che non conosce la moviola, tantomeno le persone che camminano e corrono in quegli spazi vorticosi, in quanto tutto il limite del pensiero viene verniciato da composizioni crude, veritiere, insopportabili, anche quando sono trascinanti. Tutto ferisce, la voglia di credere perisce, lasciando a questa quasi ora di musica l’impressione che si potrebbe benissimo confinare in un ascolto ripetuto, senza desiderare altro. È tutto qui. Tutto.

L’estro creativo esplode senza sosta, come se il computer del futuro prevedesse che l’unicità passasse solo nella sconfinata sensibilità di Adrian e compagnia. 

La fantasia supporta una grave difficoltà: non avere a disposizione un budget dignitoso (poche sterline e la fretta urlata in faccia ai quattro), e poi il talento, inarrivabile, che gela e pietrifica un mondo che non si aspettava questo risultato. Il contenuto non è un urlo o una morte che cammina, bensì la classe di una maturità vissuta in modo potente, mai prepotente. Non c’era spazio per questi missili, questi fiori di luce che hanno reso Jeopardy il momento più spiazzante dopo Closer

Ora ci si tuffa nella bellezza reale del turbinio dei quattro Londinesi: dove non è concesso sprecare nemmeno un’oncia della sua strepitosa epicità…




Song by Song 


Side A


1 - I Can’t Escape Myself

“All my problems

Loom larger than life

    I can't swallow

    Another slice”


Il fade-in della chitarra è già una esplosione di stupore, un timido presenziare che espone gli strumenti in gentile coabitazione, dove il synth di Bi necessita di una sola nota per condensare lo scheletro di un brano che non desidera spruzzate adrenaliniche per ottundere, ferire, coinvolgere e sconvolgere. Il basso è ossessivo, la chitarra un bisturi, il drumming un malinconico e cupo estendersi nel percuotere la slavina razionale del protagonista del testo…



2 - Heartland

“A chemistry of commotion and style

You're thrown in

You've got to lose yourself before you find yourself

Back in exile”


Il big bang arriva nel secondo episodio: radiazioni Post-Punk flirtano con una melodia ben più storicizzata. L’armonia sconvolge la prassi del genere musicale e si passa, attraverso la tastiera, a esaltare il basso che pare una fuga posticipata dei Joy Division, ma con maggior impatto seduttivo. La voce di Adrian è una lepre che cerca cibo, trovando nelle sue corde vocali la giusta dose di petrolio. Esiziale, manifesta il potere della chitarra che sa incrociare le malinconie del cielo nel suo assolo potente ma con una venatura romantica impressionante… 



3 - Hour of Need

“I hate the quiet times

I need some company

I miss the noise of life

The silence deafens me”


Una feroce dimostrazione contemplativa assesta il colpo: intima, sfuggente, con cambi ritmo che ne accentuano la possenza, la canzone mantiene lontano ogni tipo di comparazione. Tutto palesa una intensità che sembra chiudere le brevi note della chitarra lasciando spazio al basso e alla batteria, adottando il sistema di due voci a cantare la strofa. Ridondante, cupa, gioca con l’umore e con un testo dove l’odio viene messo sui banchi di scuola di un comportamento da sviluppare col tempo…



4 - Words Fail Me

“My need gnaws at me

My need claws at me

My need lurks inside

It won't be pacified”


Dove i Police avevano fallito, i Sound invece vincono a piene mani: il cantato che ricorda gli Ultravox di John Foxx è il lampione che illumina la corsa veloce di una struttura che si sgancia dal Post-Punk e si affaccia verso un Pop ben strutturato, per conquistare il fragoroso applauso con pochi soffi di sax, ripetuti poi dalla chitarra sanguigna di Adrian…



5 - Missiles 

“Missiles cause damage

And make an eerie sound

Missiles leave carnage

Where there once was a town”


Si può gridare la pace di fronte al potere dell’egoismo, di una classe sociale che sequestra il benessere e l’armonia? Sì, se sei Adrian Borland con il lutto e la rabbia nell’anima e nell’ugola. Missiles è un affronto sincero, che si lancia con un synth dalla bellezza scandalosa (il suono, capito, il suono!), per accodarsi alla paura e allo sconforto: raggiunto il ritornello tutto si fa incendio, un fuoco che piega gli occhi dentro lacrime generose, mentre si balla la danza della concessione alla lotta. La guerra fredda, che viveva in quegli anni il secondo tempo, dimostra come la giovane età di Adrian non significasse disinteresse. Tutto il brano è una enorme sirena che invoca a prendere posizione e ad abbracciare un desiderio sotto forma di domanda.

Irraggiungibile…



Side B


1 - Heyday

“Find yourself all at sea

Never thought they'd let you drown”


Il secondo lato è uno spazio pieno di strazio e appelli, di rifugi illuminati dall’intelligenza di quattro anime battagliere.

Inizia il lotto Heyday, diamante sotto pressione, in cui Adrian riesce a duellare con il basso, e dove la batteria e la tastiera si stringono nella velocità trascinante di una pietra che non rotola, bensì si frantuma e, quando arriva l’assolo, il glam rock strizza l'occhio…



2 - Jeopardy

“We are young

But are we strong?

We've held out

For so long”


Sorniona, come una donna che con furbizia ruba nei negozi colmi di bottiglie di vetro, il brano è un gioiello di semi-luce, che protegge, con il suo incedere nei pressi della paura. Come se l’apnea vivesse dentro un raggio di luce notturno, mette in evidenza una teatralità musicale che non avrà più modo di ripresentarsi, stabilendo la sua unicità…



3 - Night Versus Day

“A switch is snapped, and the borderline

Between night and day is gone”


L’etichetta musicale prese il nome da Arancia Meccanica di Kubrick. Ed ecco che proprio in questi minuti si avvertono gli spigoli di una violenza accennata, misurata, custodita, non ancora bisognosa di schiantarsi nel fragore. Ma se ne avvertono i sintomi, in un delicato scintillio sonoro…




4 - Resistance

“Half-dead, but I hope it's not too late

To take some action and change my fate”


Ecco la rincorsa, il bisogno di difendere attaccando, con versi e note camaleontiche, spigliate: la melodia, vivace e quasi allegra, è invece un pugno nello stomaco sferrato dalla band per sbarazzare la concorrenza con una violenza addolcita ma capace di ferire. I Mancuniani Magazine e gli stessi Joy Division non avrebbero potuto fare di meglio rispetto a questo missile terra-aria…



5 - Unwritten Law

“We could go anywhere

It would still be the same

A change of climate, a change of air

All the pressure would remain”


Il testo è uno squarcio impressionante, una bomba atomica che adotta il poco rumore per meglio ingannare e sorprendere.  Malinconica, audace, struggente, parsimoniosa, la canzone è pure elegante nella sua volontà di rispettare l’ignorante che faticherà a comprendere la genialità di Adrian, qui sullo scettro ma senza potere, perché la sua anima in questa circostanza si fa acida e prudente…




6 - Desire

“Keep in touch, keep in track

Of this thing called desire

There'll be times when we'll do

Anything for desire”


Sia data la luce alla No-Wave, si conceda spazio alla freddezza. No, non siamo dentro il canale Irwell dei Joy Division, bensì dentro il Tamigi, pronto a vedere congelata la vita, a veder repressa ogni fuga dalla crudeltà del vivere. Lugubre e assassina, porta in grembo materiale nucleare da depositare, attraverso liriche amare e stordenti, nel minutaggio di una composizione che pare uscita dal circolo polare artico. Si congedano i quattro con una soluzione inaspettata, per togliere definitivamente ogni dubbio: abbiamo ascoltato un album non degno di essere vissuto senza commozione e riflessione continua.


Si aggiunga al tutto una considerazione doverosa: senza Jeopardy il  mondo avrebbe avuto del tutto via libera per esprimere il vuoto…



Adrian Borland - vocals, guitar, production

Bi Marshall - keyboard, production

Graham Green - bass guitar, production

Michael Dudley - drums, production


Nick Robbins – production


Label - Korova

Year - 1980


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Settembre 2023


https://spotify.link/vQc8moNLbDb





giovedì 7 settembre 2023

La mia Recensione : Slowdive - everything is alive


Slowdive - everything is alive


E’ fuggito dal labirinto della realtà ed è finito sotto la ruota dei sogni!

(Mikhail Kuzmin)




Un labirinto, una donna al centro, il viso indecifrabile, colori pastello rendono l’immagine un percorso da iniziare, immaginando che la musica sappia far muovere i passi e condurli all’uscita.

Tornano i cinque gabbiani di Reading, affamati di vita ma generosi nel lasciare cadere dall’alto dei loro maestosi voli cibo per le nostre anime: si rimane a bocca aperta e gli occhi intinti in un sogno liquido. Capaci di disinfettare il loro senso artistico da trappole corsare sempre pronte a ingabbiare il talento, gli Slowdive compiono il lavoro più completo della loro lunga percorrenza artistica, generando aria fresca nei motori delle loro composizioni, decidendo di costruire il tutto con  imponenti richiami alla Storia umana, con immagini che paiono giungere da luoghi e Tempi molto lontani. Entrano in modo definitivo nello spirito Post-Rock, nell’elettronica imbevuta di morbida propensione all'incanto, per anestetizzare la consueta volontà verso una possibilità nel generare frastuono, e l’abilità di raffinare ancora di più una scrittura che conosce modalità diverse per poter connettersi all’inevitabilità della morte. Due lutti si sono succeduti in questi anni per quei membri della band che hanno trasportato il proprio dolore verso la contemplazione e la serenità. 

Avete mai sognato di entrare in un arcobaleno? Ecco, già sapete della sua breve esistenza, del suo destino con una veloce data di scadenza. 

Questo fanno i cinque gabbiani di Reading: ci offrono un unico appuntamento con quella destabilizzante sensazione che oltre la loro musica non vi siano confini da sfiorare. Toccante, rassicurante, disarmante, l’ultimo lavoro vive di dettagli come fermagli per i capelli di pensieri in un agglomerato lucente, intento a sondare con un regale distacco i nostri sentimenti. Non è Shoegaze, non è Dreampop, è un concept album sulla bellezza priva di retorica, una raffineria che incendia i sentimenti di seta, portando il volo di un sentire non comune in giro per i cieli di un mondo che se ignora la propria ignoranza può cibarsi di tutto questo: se l’eternità è ciò che l’uomo cerca, eccola qui, nella dimensione terrena, pronta a essere stabilizzata nella corsia della gioia. Pensate al titolo: un dato di fatto, un'affermazione priva di drammaticità o di luci, dove il bene e il male rimangono in vita. Nulla cambia, se non il desiderio di musicare la realtà nel fascio organico di una piattaforma onirica che privilegia la lentezza, senza però smarrire l’innato approccio Pop che fa di questo gruppo musicale l’unica meteora che non si congeda mai…

Impiegano anni per tornare, lo fanno in questo modo, e si sa, noi essere umani svuotati di inclinazioni alla profondità, non possiamo che rimanere confusi innanzi a questa dimostrazione di classe che tende sempre più a illuminare la loro carriera e le nostre esigenze. La pandemia ha rallentato l’impulso schizofrenico della natura tutta, compresa quella nostra, di persone sempre più perse e disperse. In quel periodo il mastro Neil pensava di dirigere le sue composizioni verso una pura forma elettronica. Una volta consegnate, quelle forme sono state impastate dagli altri quattro ed ecco il risultato: il labirinto della copertina sonda ogni forma per divincolarsi dalla stagnazione, anche da quella musicale, per partorire una indagine che da emotiva raggiunge il livello spirituale, come una danza calma per far sentire la morbidezza dei nostri fianchi. Non un laboratorio,  uno studio, una sala prove, bensì un volo di anime intrecciate a pochi passi dal baricentro dell’universo: non è mai stata così prossima la loro Reading a divenire la capitale delle nostre affamate ambizioni. Misurati con gli effetti, semplici nelle ritmiche, ogni brano non conosce evoluzioni continue ma uno schema semplice, minuscolo e tuttavia dannatamente efficace. Ed è questa componente che porterà molti “seguaci” degli Slowdive al lamento, a sentirsi traditi con questo lavoro che sembra chiaramente contenere bellissime briciole del loro percorso artistico, ma con la chiara necessità di perlustrare altre forme di vita.

Generosa è la propensione a circondare gli accordi di tappeti elettronici che consentano a Simon Scott di vibrare con il suo drumming nell’incanto di un imbuto dalle pareti dorate. Le due chitarre (Neil Halstead e Christian Savill) sono un goniometro che imprigiona ogni smarrimento per liberarle avendo avuto in dono la loro grazia. Mai spavalde, mai strafottenti, mai permalose, le due sei corde sono vitamina pura, capaci di entrare nella psichedelia come nello Space-Rock meno gravido, e di tergiversare per il tempo giusto con alchemie vicine agli Alan Parson Project, così come ai Can e ai Kraftwerk, per un giro temporale e geografico davvero notevole. Mr. Nick Chaplin è semplicemente il miglior bassista a disposizione di quei sogni che abbisognano di una sferzata per tenere il busto eretto. 

Detto questo: non si possono negare le profonde interazioni di una scrittura di trame sonore con quelle dei testi, per la prima volta ermetici, sfuggenti ma incapaci (grazie a Dio o a chi ne fa le veci) di lasciarci nel pericoloso brodo dell’indifferenza: la penna di Neil non è un faro, un bagliore, bensì un sussurro che non necessita di essere decifrato. I suoi testi sono geroglifici orgogliosi di essere compresi solo da lui, ma sanno sfiorare il cuore, regalare la convinzione che la sua sfera privata non debba essere violata. 

La parte che approda all’ambient è incredibilmente matura, permettendo ai diversi generi musicali presenti di vivere nello stesso spazio, senza frizioni, remore o tensioni. L’album è un fluido, che scende dalla bocca dei cinque gabbiani, in percorrenza verticale, per centrare perfettamente i nostri apparati, in parata, bisognosi e in attesa di non conoscere la parola fine…

Difficile immaginare, in un mondo che in modo sgarbato cataloga per poi dimenticare, dove questo fascio principesco possa essere relegato: specialmente in Inghilterra la musica dei giorni nostri assomiglia al gioco del potere di una massa che conosce la stagione di un giorno per esaltare, per poi buttare via tutto. Ma EVERYTHING IS ALIVE saprà resistere: alle divinità non si può opporre resistenza e queste otto canzoni tasteranno la fragilità dell’arroganza, annientandola con dolcezza sopraffina, elegantemente.

Saper ascoltare significa pilotare il tutto nell’incastro smisurato dell’immortalità, l’unico luogo adatto a questi otto bocconi di un cibo prelibato, capaci non solo di sfamare ma di soffermarsi nel ventre, nella mente, nelle nostre lente progressioni di danza, nei nostri sogni liberati con la chiave della loro classe, sigillo di sicurezza di una qualità indiscutibile.

Non ci resta che andare ad assaggiare ognuna di loro ringraziando in anticipo…


Song by Song 


1 - shanty


L’album inizia con una partitura, breve, di elettronica, la chitarra è molto simile a quella di Teardrop dei Massive Attack, ma capace di liberarsi dal pericoloso accostamento per poi incanalarsi in un gioco atmosferico che pare uscire da un anfiteatro greco, con la dolcezza delle voci della regina dei cuori Rachel, e quella di Neil, convogliando nel delicato binomio Postrock - Psichedelia che attraversa il cielo del nostro stupore…


2 - prayer remembered


Un vistoso calo di ritmo ci conduce nella planimetria del mondo Slowdive, tutto, dal lontano 1991 ai giorni nostri, in un pezzo strumentale che permette di sentire le voci dello spirito sostituire quelle del duo di Reading. È lacrima lenta che sale su in cielo, in quel fragore Post-Rock che accarezza la base Shoegaze della band, qui attenta, premurosa nel calibrare le suggestioni, con i colpi di drumming di Simon che danno ritmo a una continua esplorazione. Musica che esce dai granelli di sabbia di un deserto comportamentale: i cinque dipingono un capolavoro di inconsueta attesa, mai una esplosione, mai una esagerazione, bensì un continuo emigrare nella storia di una intensità che non abbisogna di frastuoni…


3 -alife


Il tempio dell’incanto ci mostra donna Rachel inchiodare i dubbi nel suo afflato, nel suo tributo, nel suo inchino poliedrico per consegnare il testimone della canzone dal buon ritmo a Neil, ed è un intreccio di sensazioni che giocano a mostrarsi, a cambiarsi d’abito, nell’unico brano dell’album che si concede qualche variazione in più, ma sempre nella corsia di  un necessario minimalismo. Tutto quì è uno spirito corsaro ingentilito, soffice, rapace ma capace di essere rispettoso e le tastiere dipingono conforto ispirando alle chitarre  una strada lastricata di opzioni che paiono essere suggerite dagli anni Sessanta…


4 - andalucia plays


Il Vecchio Scriba non ha dubbi: questa è la composizione più sofferta da parte di Neil, un calvario che scendendo dal cielo mostra gli sbadigli di un dolore quasi silenzioso ma esistente. Il suo cantato conduce al pianto, mentre suoni quasi new age e una chitarra in odore di Faith dei Cure si appoggia al nostro cuore, distruggendolo dolcemente. Torna quella semiacustica e la sensazione che proprio in queste note abiti tutta la talentuosa capacità che gli Dèi hanno concesso ai cinque di Reading. Compatta, lenta ma veloce ad approdare nei nostri involucri, fa della sua apparente semplicità un vanto sussurrato…


5 - Kisses


Pochi accordi, il ritmo mostra subito la sua tenera capacità di farci danzare in una storia dalla trama semplice ma che adopera metafore, anche musicali, per permetterci di inoltrarci nel sogno e baciare il desiderio di una dimensione onirica senza bavaglio sulle labbra. Con un fare decisamente Shoegaze, annettendo minuscole particelle acustiche, tutto scivola con l’eclettica loro capacità di trame complesse che si trasfigurano, concedendoci la possibilità di immagazzinare la magnificenza che abbiamo potuto ascoltare. Mantra corposo, dama incantevole per ogni corte, regale anche per anime povere, Kisses è la perfetta Pop song imbevuta di sogni, quando il Dreampop non è soltanto un genere da esibire ma una modalità di essere ultraterreni…


6 - skin in the game


La maturità non evitabile per i cinque gabbiani: trentadue anni di carriera necessitavano di una resa dei conti, di un momento in cui dovevano tornare: ecco ciò che è stato il loro arrivo, la loro percorrenza, il senso… Un distributore di piume nel sacco dei nostri corpi in apnea, perché queste chitarre sono una dinamite resa incandescente senza necessitare dell’esplosione bensì di un navigare, secondo dopo secondo, nel corpo amniotico di un labirinto eccelso…


7 chained to a cloud


Si può governare la marea di stelle che danzano nel cielo? Se ti chiami Slowdive come minimo puoi mettere sul palcoscenico la rappresentazione e abbandonare ogni velleità di poterle toccare. Però: la band di Reading ancora una volta affitta la maestria e disegna un involucro con i gioielli che vengono rilasciati dal canto angelico di Rachel, una donna bambina piena di grazia che, supportata da leggeri echi e riverberi, si trova a un passo dal cantato di Neil, per confezionare un piano di magnetismo colmo di una magia fluttuante, inossidabile e impermeabile, all’interno di un loop che con la tastiera trova il modo di fissare il brano nell’Olimpo, l’unico luogo dove le comete non muoiono mai. Sei minuti e cinquantuno secondi dove ciò che non si verifica è il rispetto per questa elaborata parentesi tonda dentro la quale la matematica cambia pelle e diventa brivido…


8 - the slab


Nel cielo di Reading una scossa elettrica, un fremito, un’estasi verace e vorace prende possesso dei sensi e determina la nascita di un amplesso sonoro senza precedenti: the slab è il laboratorio dell’inconsueto, un gioco imprevisto, un’assonanza inusuale che determina terremoti emotivi capaci di dirigere la valutazione dell’album con due sole parole: GRAZIA MULTIPLA.

Le chitarre sono lapidarie, ma non ferme, bensì le ali di gabbiani che afferrano la melodia e la inchiodano nelle corsie di uno spazio mai così generose di elaborate strategie sonore. Definendo tutto ciò che abbiamo sinora udito e portandolo fuori della nostra comprensione, la chiosa è un gioiello che regala la conferma che gli Slowdive siano capaci di avere il suono del nostro tempo ma perfettamente connesso con quello che lo ha preceduto. Lo sanno fare solo i Maestri questo tipo di operazione…


Concludendo: nella speranza che spariscano gli opinionisti, gli inetti, i precisatori di ogni sciocchezza, questo lavoro è un un combo stratosferico nel quale crescere e una piscina in cui navigare tra le canzoni che alla fine diventano onde capaci di ospitare ogni nostra sciocchezza.

Ma è proprio cibo quello che cadrà senza sosta dai cinque gabbiani ai quali dobbiamo l’eterno inchino…


⭐⭐⭐⭐⭐


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

7 Settembre 2023


https://slowdive.bandcamp.com/album/everything-is-alive




My Review: Gene - Olympian

  Gene - Olympian ‘Life and dreams are sheets of the same book. To read them in order is to live, to leaf through them at random is to dream...