martedì 7 giugno 2022

La Recensione di Giampaolo Ingarsia: Tallies - Tallies

 


Tallies - Una familiare brezza colorata dal Canada

Pomeriggio uggioso in ufficio, auricolari d’obbligo.

Mi alzo per un caffè, lascio la solita cloud radio basata sui miei ascolti.

Rientrato alla mia postazione vengo avvolto da una colorata brezza “manchesterina” intrisa di riverberi e chorus per chitarre melodiose accompagnati da una voce angelica, sembrava, di una ragazzina o una bimba, ma, per intenderci, non come Alison Shaw dei Cranes.

Ovviamente, cotanti colori sonori mi distraggono e smetto di lavorare, godendomi il caffè, ebbro del vapore prodotto da queste piacevoli e lattiginose vibrazioni, familiarmente malinconiche.

Mi accingo, dunque, a identificarne la provenienza.

Pensavo fosse una delle tante band inglesi anni 80 che mi sono sfuggite e che mi sfuggono tuttora.

No: niente Europa (avrei potuto pensare, al massimo, la Scandinavia).
 Ragazzini da Toronto.

Si chiamano Tallies.

Sono in quattro: Voce (ogni tanto aiuta con la chitarra), Chitarra, Basso, Batteria.

Si sono conosciuti a scuola ed hanno sfornato un album nel 2019 e quattro Ep fra il 2021 e i giorni nostri.

Hanno appena rilasciato il nuovo singolo “Special”, completamente in linea con quanto sotto!.

Escono e sono distribuiti da: Hand Drawn Dracula in Canada, Kanine Records negli USA) e la nostra amata Bella Union (Spiritualized, Mercury Rev, Flaming Lips... per citare i più conosciuti e banali) in Europa.

Come accennavo, nuotiamo in un brodo i quali ingredienti sono: la schiettezza degli Smiths, le nebbie scozzesi dei Cocteau Twins e la “malincomelodia” dei Sundays (come loro stessi affermano nella loro bio, sul sito ufficiale).

Niente di avveniristico, dunque.. musica derivativa, OK, ma.. semplice, diretta e spontanea. Composta bene in sala prove e prodotta meglio in studio: bei suoni per tutti gli strumenti e la voce: ottimo mix, bel mastering per tutti i dischi che ho ascoltato.

Mi hanno colpito immediatamente, non solo per indiscutibili ancestrali affinità stilistiche, ma per l’evidente spontaneità con la quale sembrano aver appreso ed assimilato il messaggio di quei cari Robin Guthrie, Mike Joyce, Simon Raymonde, Morrissey o, chessò, Harriet Wheeler e compagnia sia suonante che cantante... giusto per fare qualche banale esempio di riferimento.

Melodie timidamente pop propagate con malinconica spontaneità inzuppata di interessanti riverberi, chorus e flanger (ripeto).

Testi mai pretenziosi, ma non troppo “shallow”, ecco.

Il primo pezzo che mi ha colpito (quello del caffè, appunto) è la assolutamente “CocteauTwinsiana” “No Dreams Of Fayres”, singolo del 2021.

Rimettendomi gli auricolari al momento del primo ritornello, sono stato colto dall’impulso di portare indietro la riproduzione fin dall’inizio.

Un bel riff di chitarra, con un bel suono e atmosfera, ripeto, marcatamente Sundays, Cocteau Twins.

Una batteria vera: di una consistenza decisa e non “vittimista, come le spallucce dei tennisti Italiani” (cit.), suonata con la giusta intenzione e misurata potenza, con tutte le frequenze al loro posto.. davvero un suono piacevole e poderoso, per il genere!

(sono un batterista: sono solito a storcere il naso sul suono delle batterie di molte produzioni shoegaze/dreampop, quando “vere”, in quanto, spesso, troppo eteree e con poca consistenza, ma.. oh, son di parte!).

L’incedere dell’accattivante linea melodica mi mette subito di buon umore, tant’è che mi aiuta a trovare il mood e le giuste parole per una difficile mail “diplomatica” ad un collega scomodo.

Questo per sottolineare che i nostri ragazzi hanno trovato la formula per farmi “vibrare” positivamente, perché, in questo caso, ma anche in genere come spigherò in seguito, dimostrano di suonare la musica di certi ambiti, come l’avrei suonata io.

Il testo, che si esprime come da manuale, nel ritornello, è semplicissimo e delicatamente introspettivo: malinconicamente disilluso.

Niente arcane e complicate figure retoriche simboliche.

Niente artefatti o tecnicismi metrici.

Facile da cantare e non troppo imbarazzante per farlo!
 Amo cantare la musica che ascolto.

Buona anche la struttura armonica: accordi leggibili, linea di basso pulita e coinvolgente.
 Una canzone simpaticamente suonabile con la chitarra in due minuti, ma non per questo banale.

Ripeto e sottolineo che li avevo scambiati per una band “antica” in tutto e per tutto.
 Non so se sono chiaro in questo punto, ma ritengo questa caratteristica come un merito da attribuire tranquillamente a questa giovane band.

Seppur in ambito inequivocabilmente derivativo, dimostrano di “essere nati nell’era sbagliata” (nel senso buono) e questo conferisce loro una consistente credibilità d’ascolto.

Naturalmente mi è subito partita la “scimmia” da novità, che non si è ancora minimamente dissipata due mesi dopo e, per uno che si stanca facilmente come me, è già molto!

Compro immediatamente tutta la loro sparuta discografia liquida (abitando a Malta, trovare i loro vinili è piuttosto difficile.. stendo un velo pietoso sui costi di spedizione - NDR).

Sorridente, speranzoso ed impaziente, mi metto in ascolto del loro, per ora, unico album: “Tallies”, uscito nel 2019.

Lo ascolto tutto d’un fiato per due/tre volte, senza che sopraggiunga mai l’istinto dello “skip track”.

L’essenza sonora della band conferma le impressioni del singolo che avevo ascoltato.

I suoni della sezione ritmica su questo primo lavoro sono più marcati ed incisivi e coccolano maggiormente il mio orecchio batteristicamente interessato, riportandomi a certe produzioni dei Ride o dei Teenage Fanclub (quelli iInglesi).

Lo stesso si può dire delle chitarre (una, ma suonata su più tracce) che si confermano importanti, sempre molto gentili, melodiose e assai penetranti sul mix e nella mente.

Potrei dilungarmi in un’analisi di ogni canzone, perché, davvero, tutte meriterebbero un commento, ma per questioni di logorrea, scelgo, con difficoltà, di commentarne solo una oltre alla simpatica “Mother”, dal bel ritmo un po’ motown, da considerare il “singolo” dell’album, basandosi sulla differenza del numero di ascolti rispetto alle altre.

La mia scelta cade su “Easy Enough”, che chiude il disco ed è anche la più lunga: l’unica che supera i 5 minuti e del quale è stato realizzato un videoclip molto 4AD style.

La più nebbiosa e “potente”, con un bel ritornello e, soprattutto, un bel post-ritornello: elemento strutturale che i ragazzi utilizzano spesso e che apprezzo molto, devo dire.

Il talento del chitarrista (Dylan Frankland), anche produttore artistico e sound engineer della band, si conferma nella linea melodica che qui è particolarmente efficace, alternandosi piacevolmente alla bella voce di Sarah Cogan, che, personalmente trovo piuttosto ammaliante e mai virtuosa.

Melodie colorate, “bagnate” da un utilizzo magistrale dei riverberi, mai troppo esagerato, rendendo l’ascolto piacevole e sempre leggibile.

La loro musica è assai in linea coi layout delle loro produzioni che occhieggia, nemmeno tropo velatamente, a certa familiari 4AD, MUTE o Beggars Banquet dei tempi migliori.

Non potendoli vedere dal vivo, mi sono prodigato a cercare qualche loro live (del quale potrò fornire i links volentieri).

Sempre piuttosto composti, ma soprattutto sinceri e appassionati.

Specialmente batterista e bassista (quest’ultimo credo sia cambiato nel tempo): ognuno dei quali è sempre completamente calato nel turbinio proprie emozioni.. persone evidentemente molto, molto timide!

Tutti quattro globalmente molto precisi ma non virtuosi.

Molto coinvolgenti.

Sarah canta molto bene anche dal vivo (cosa non trascurabile).

Suoni sempre ben curati..

Magari avrei gradito qualche variazione in più nelle versioni live delle canzoni rispetto a quelle su disco,

Ma... vabeh, ci sta!

Andrei comunque a vederli volentieri se fossero vicini o in situazioni molto molto comode; certamente non prenderei un aereo apposta per muovermi in caso di loro concerti a Berlino, Parigi o Londra, come ho fatto, ad esempio, per altre band anche “non
enormi“ (come ho fatto ultimamente per Twilight Sad o Calexico - OT).

Forse il look del bravo Frankland, che ho scoperto avere un passato in una band punk- hardcore, a tratti, potrebbe sembrare un po’ forzato, ma alla giovane età ed alla sincerità artistica, IO, perdono tutto, specialmente quando vengo così piacevolmente coinvolto dalle sonorità.

Ripeto per l’ennesima volta: sto scrivendo di una band il cui nome, magari non verrà impresso sugli annali della storia del Rock, ma, sicuramente vibrano di bei suoni ammalianti, colorati e malinconici.

Ottima colonna sonora per le giornate degli appassionati di certe atmosfere vicine alle band e, generalmente, delle case discografiche sopra citate.

Ci si affeziona con facilità, ecco.

Mi è sembrato di conoscerli e di ascoltarli da sempre, che facciano parte del mio imprinting sonoro.

Scoprirli, invece, così giovani, conferisce loro un fascino particolare.

Insomma un ammaliante e coinvolgente “niente di nuovo”.

Non suonano “nuovi” come potrebbero le Wet Leg , magari

(Mah, forse, anche loro, in fondo.. così nuove, nemmeno... diciamo che “osano” di più).

Il“niente di nuovo” dei giovani Tallies, però, è ben suonato, sincero, spontaneo, lucido e nebbioso al punto giusto.

Bravi!

Canzoni semplici con il potere di farsi ascoltare per ore.


Giampaolo Ingarsia

Malta

7 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5eC8BJIxShy2t6Oh3x5Hpx?si=hFJqV_fWRYmku-mzdV4Tiw







domenica 5 giugno 2022

La mia Recensione: Franco Battiato - Come Un Cammello In Una Grondaia

 La mia Recensione:


Franco Battiato - Come Un Cammello In Una Grondaia

1991


Questa volta a volare nella pancia sono dei grilli e non delle farfalle. Ci sono salti necessari da fare all’interno dei labirinti dei nostri pensieri, quelli che abitano al centro del nostro corpo per quelle attitudini antiche che in qualche modo chiedono il ritorno dei nostri approcci sempre più stanchi.

Tutto ciò che è ingresso costa fatica, frutto di una necessità che è stata specificata, spostamenti, accoglienze sempre più notevoli che mutano con il passare del tempo. Esiste una grammatica e una ricostruzione, che è resa possibile da manifeste capacità di distanziarsi da ciò che è caduto in basso, nella zona mista tra la vergogna e lo schifo. In tutto questo, che pare essere un delirio senza senso, trova ragion d’essere un insieme di eleganti e voluminose bacchette magiche dal sapore amaro, che solitamente chiamiamo canzoni.

Sono scariche elettriche romantiche, perlustrazioni multiple di un divenire sempre più sconnesso dalla qualità di un’esistenza possibile, in cui il maestro, il mago delle connessioni Franco Battiato, ancora una volta trova modo di presentarcele pur sapendo che mancherà un’effettiva capacità di comprensione. Il nostro ascolto diventa il luogo di questi grilli affamati, vestiti di domande con le mani sudate, nei confronti delle quali Franco consegna la sua sapienza e il suo sguardo che non è incantato, ma sospettoso e pesante per renderle impossibilitate a ricevere risposte.

Battiato compie un miracolo di intelligenza non richiesta dalla massa e perciò pericoloso e sempre prossimo allo scarto: riesce a fare della nostra mente un cammello che troverà sempre disagi per limitarne i movimenti e le propensioni.

Per questo suo giardino dai frutti succulenti e dolcissimi, scrive otto pellicole sulle quali riesce ad imprimere la sua saggezza e al contempo la distanza da questo continuo gravitare verso la nullità. Non gli rimaneva quindi che un lungo elenco di scintille buie nelle quali nessuno di noi poteva veramente trovare una luce, se non percorrendo il suo stesso sentiero luminoso fatto di spiritualità e ricerca della verità. Ma all’ignoranza non è possibile accostare la luce. La volgarità è quella che crea l’ombra e che seduce la gentilezza per affossarla, come se delle sinfonie perdessero l’abilità di essere sacre e si trovassero nel Mediterraneo della confusione.

Franco raggiunge il vertice del suo pensiero in questo album, un rabdomante pieno di risorse che mostra dove non si trovano le gocce di saggezza, ma solamente lo sperpero. Si trova costretto a condannare, a prendere distanze, a seminare ipotesi e contemplazioni con la consapevolezza di dover parlare lingue diverse, in un tentativo continuo di non lasciare il mondo senza messaggi da condividere. Un insieme di canzoni pregne di fatica e argomentazioni, distributori collegati di un cammino che potrebbe costringerci a scartare, a rivedere la nostra indifferenza innanzi ai fatti che si compiono.

Profumi di sintonie avvinghiate alle sinfonie visitano il piano musicale che viaggia a basso ritmo, mentre le parole sono schegge velocissime che ci fanno saltare in aria. Il poeta catanese raccoglie melodie come preghiere svuotate di inutilità onnipresenti nel suo sterile esercizio di approvvigionamento umano, per indicarci zone intossicate da cui separarci.

Da chi aveva fatto della musica Pop un esercizio di limpida bellezza, non potevamo forse aspettarci un trittico spirituale di questa natura e in questo album ci ritroviamo senza la batteria, ma con parole e arie che ci fanno battere le mani con il nostro ritmo interiore. Pure il basso viene lasciato in cantina e salgono in cattedra orchestrazioni classiche di un altro maestro: Giusto Pio. Si aggiungono poi quattro affreschi ottocenteschi, denominati lieder, composizioni per voce e pianoforte, che la voce di Franco rende simili a impianti moderni di forma canzone senza rinunciare allo stato di purezza classica.

Wagner e Martin, Brahms e Beethoven sono i generatori di visitazione di un tempo nel quale era possibile nutrirsi di musica come forma di contatto con la zona della contemplazione. Battiato ci ha appoggiato parole e un cantato che può avere luoghi impervi nell’ascolto di chi non è abituato a unioni molecolari di questa fattura. Una forma di apertura generosa verso un anacronistico bisogno di tornare a forme di suono e movimenti che separano la musica dalla sua banalizzazione. 

Dividendo l’album in due parti, l’artista baciato dalla bellezza di una mente lucida ci fa entrare nella complessità delle discipline musicali creando il presupposto per frustrare la nostra pazienza: non è una sorpresa che questo album non abbia venduto molto (le classifiche parlano del decimo posto, ma come numero di copie molto meno di altri), sottolineando l’imbecillità di chi davanti a ciò che appare “difficile” preferisce la più facile fuga.

Ma questo è il ruolo di chi non concede alle persone bolle vuote di senso: Franco invece con le sue grandi mani ha costruito canzoni come scosse, come inviti di sentieri da percorrere dentro le nostre anime soporifere.

Raffinato, potente, di difficile gestione, portato per indole a far assentare la nostra frenesia, questo fascio musicale attraversa il buio storico e contemporaneo della banalità umana che ha avuto la propensione allo sperpero di qualità donate dalla natura. Punta il dito, schiaccia le nostre fragilità elencandole e cammina sospeso nell’universo dove la sua arte ha trovato residenza. Così, da distante, riesce a trovare le molecole di ogni fragilità donandoci la possibilità di riconoscere le nostre malvagità. Fa meno della facilità di canzoni usa e getta per assestare un duro colpo all’apparato uditivo, conscio di aver trovato il pertugio giusto nelle nostri menti e nei nostri cuori perché ogni essere umano può essere incline a ravvedersi.

Ci si sente piccoli all’ascolto, come se questo lavoro avesse il potere di ridimensionare il nostro cammino, si perde il senso di appartenenza e ci si ritrova a dover governare lo smarrimento, l’interrogazione della nostra coscienza, a dover perlomeno provare a disintossicare le strutture comportamentali di un atteggiamento che ha offuscato il vero piacere e l’incontro con se stessi. 

E poi la voce: sottile più che mai, nervosa, scattante, dilatata, come una fiamma che contempla la forza senza dover urlare perché a quello ci pensano molto bene le parole. Si ha l’impressione che esca dallo smarrimento, che entri nel rifugio di una conquista che vuole condividere e fortificare. Anche quando canta in altre lingue il senso del possesso di ciò che trasmette è chiaro, vistoso, destinato a fare centro nei nostri ascolti. Usa le onde del suo spirito per farle uscire da una bocca che, commossa, ci commuove, per spalancare i nostri respiri verso uno smarrimento purificatorio ed essenziale. Ferisce, e non poco, sentire che le parole pesanti conoscano una tale leggerezza: una scelta voluta per farci acquisire la consapevolezza ricevendo una sberla colorata di dolcezza.

Il piombo con Franco può diventare una goccia sulla sabbia, una trasformazione quasi invisibile se in noi esiste l’approssimazione: dovremmo come minimo porgergli rispetto e abbassare le orecchie, insieme all’arroganza. Siamo senza difesa con questi minuti: l’incertezza che ci governa trova episodi che ci mettono al centro di un ring, colpiti e messi al tappeto, frase dopo frase, nota dopo nota, dove la quiete nostra sembra scomparsa davanti al dolore. Che aumenta, senza tregua, seppure la tregua ci venga offerta come opportunità e forma di riscatto necessario.

Il dipinto della copertina dell’album (opera dello stesso cantante) è una bomba cromatica, lenta, tra le dune dove un cammello guarda al futuro carico di colori ed una coperta per proteggerlo: anche qui l’indispensabile viene rappresentato. Un cammino necessita di una direzione e poco altro.

Via le cose inutili, ci si tuffa dentro a ciò che conta per davvero senza aggravare la postura mentale e fisica, per essere leggeri e snelli.

Apri la busta del vinile e ti trovi immerso in labirinti dove la possibilità di uscirne è affidata alla nostra abilità: lui ci mostra i vicoli, le siepi, le ombre, ci regala l’odore dello smarrimento ma ci nega le chiavi per aprire questo mistero. E ci invita a un piano delle cose che abbandonano le proprietà. La nostra immortalità si presenta nelle sue convinzioni, ce ne fa dono e ci solletica lo sguardo, con la leggerezza di chi ha capito. Un disco come incantesimo, di eterna propensione, capace di dividere le acque: nessuno chiede miracoli se non la propria maturità e in queste canzoni vediamo l’accessibilità verso migliorie dalle braccia aperte. Il suo guadagno interiore non è mai segno di speculazione ma un affare privato, dove non esiste la moneta ma il valore di una identità elevata a essere non merce di scambio di un banale baratto bensì l’occasione di aprire il cielo.

Le musiche dal sapore medievale e arabico sono solo un ponte temporale e spaziale, uno stratagemma intelligente per donarci antiche fascinazioni. Tutto in queste otto tracce diventa il respiro dentro una reincarnazione, uno scatto verso la presa di posizione che ci eleva: ogni episodio è una chance per capire, per confluire in una scia magica e cruenta, un cavatappi per aprire i liquidi addormentati dai sapori magnifici abbandonati nelle nostre vene. Canzoni appassionate, legate tra di loro da un’armonia che conosce leve nuove con il suono di una antichità che ancora può risultare utile.

Franco Battiato ha deciso di non abbandonarci mai e con questo suo capolavoro (sì, è giunto il tempo di affermarlo) ci ha avvolto in un abbraccio che attenderà millenni e millenni per essere condiviso, perché l’eternità significa opportunità…

Con paura, pudore ma rispetto mi accingo a visitare le sue canzoni consapevole che la mia perdizione troverà il suo sorriso, breve, potente, ma necessario per me…



Song by song


Povera patria


Abbandonato il periodo sperimentale e pop, ecco che l’aspetto religioso/filosofico prende il sopravvento con una attenta cura nello specificare anche quello intellettuale.

Il suo sedicesimo album inizia con una musica dolcissima e un testo che gli si oppone con una propensione alla rabbia e alla quasi rassegnazione.

Scuote e dona la certezza di occhi vigili sul fare spietato di un essere umano caduto in rovina. È una freccia che cerca di formare una bomba atomica comportamentale: il risultato è lasciato a un destino che sotto la sua pulsione inarrestabile devasterà ogni atomo di questa arma primitiva, con corpi in terra preceduti da menti già arrese…


Le sacre sinfonie di un tempo


Con un inizio ambient/new age  e di derivazione classica, queste note sono una culla che si avvolge in una giostra che si rivolge alle tenebre e la voce di Franco padroneggia le parole con determinazione su una scia fasciata di tristezza. 

Il lavoro di un arrangiamento quasi nudo evidenziano che l’accoppiamento testo/musica è purtroppo perfetto lasciando all’ascoltatore del catrame sui pensieri.


Come un cammello in una grondaia


Questa musica serena, su un territorio proveniente dall’amore per la musica classica, porta ossigeno e un elegante paio di ali per un’anima in partenza. Gli archi salgono in cattedra per prendere le parole e condurle nel cielo dove le tentazioni cedono. È una canzone che sospende l’affanno e la vivacità per divenire un terremoto acclamato a gran voce dalla coscienza di Franco, che si separa definitivamente dall’essere partecipe di deliri. 



L’ombra della luce


A far divenire senza dubbio una pietra miliare questo album ci pensa questo pianto dal sorriso che supplica considerazione. Devastante, come una marcia funebre senza intenzione di cessare questo rito, il brano tocca la vetta di una intera carriera. Sacra, lunare, mistica, come una coperta che viene buttata per terra per rivelare il corpo umano capace di abbandoni, uccidendo la possibilità di condivisioni continue, la canzone prende la mediocrità e la forza e le mette sotto un riflesso di luce per offrire l’ultima possibilità di scelta. È il definitivo appuntamento per un riscatto, mentre l’infelicità aspetta diabolicamente la morte di quel fascio luminoso.



Schmerzen 


La poesia di Mathilde Wesendonck stipula un contratto possente con Richard Wagner per dare a Franco un canto in lingua tedesca, rivelando la dolcezza e sposando la musica classica per guardare il mondo da un cratere lunare. Archi che marciano quasi austeri per poi aprire le tende del paradiso sulla leggerezza di una interpretazione clamorosa da parte del cantante siciliano.



Plaisir d’amour 


Per il secondo Lieder arriva un altro compositore tedesco: il potente Jean Paul Martin consente a Battiato di cantare questa volta in francese su un testo di Jean Pierre Claris de Florian. Ed è la primavera notturna che visita il silenzio donandogli pennellate vibranti in attesa del giorno. La passione del cantautore catanese trova il terreno su cui poi tornerà per rivolgersi alla canzone popolare francese qualche anno dopo, svelando come la musica classica tedesca possa abbracciare la nazione francese per creare il bacio accademico dell’arte. Una poesia che grandina sui pensieri in pausa. Ed è un piacere che ci consuma le forze denudando i nostri impeti verso i rumori. Maestosa.



Gestillte sensucht


L’immenso pianista di Amburgo, il direttore supremo dei sogni, entra nell’album con una delle sue più magnetiche composizioni. Questa volta il testo è dello stesso Battiato. Si viaggia sulle dune di sabbia, dove lo spirito danza lento sulle piume dei sogni per farci chiudere in un sonno ristoratore. Per poi accelerare e diversificare la sua struttura e strattonarci con dolcezza.



Oh Sweet Were the Hours



Connettere tre personalità come Beethoven, William Smyth e Battiato è qualcosa di inimmaginabile. Per l’ultimo brano la musica presenta un impalcatura fatta di gocce di piano sulle ali di violini pacifici e la voce di Franco che allunga le sillabe rendendole magiche, per poi concedere l’ingresso di un coro che cementa la forza e l’eleganza di un abbraccio cosmico su parole magnetiche.



Raggiunta la perfezione con questo album, non era semplice mantenere queste vette per un’anima continuamente alla ricerca di espansione delle sue necessità di formare il suo spirito. 

Ma l’impresa più grande non è raggiungere una vetta, bensì voler concedere all’eternità la capacità di lasciare questo corpo libero di osservare il mondo per sempre da quel luogo. Ed è da lì che vigila Franco Battiato, dal suo cammello sulla cima dell’Everest mentre noi, sconfitti dal nostro egoismo, non abbiamo ascoltato bene le parole di questa opera  continuando a sconfiggere i suoi nobili e altissimi concetti.

Siamo noi che l’abbiamo abbandonato, ma lui rimarrà la nostra luce…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 giugno 2022


https://open.spotify.com/album/7CdGW9JRoTbqk2v5imOHQd?si=DnizsVYqQaGt6X5JdM3FOg






venerdì 3 giugno 2022

La mia Recensione: Angst4 - Was Bleibt

 La mia Recensione:


Angst4 - Was Bleibt


Tentacoli notturni rendono selvaggio l’impulso di una danza simmetrica, come contrabbando di note sparse e raccolte da mani sapienti e capaci di veicolare la saggezza del suono proveniente dalla patria del frastuono ordinato, la mastodontica Germania.

Un afflato vagante, permeante, permanente sui nostri istinti che a scatti seguono la stella cometa all’interno di una nuvola: la si sente, non la si vede, ma la sua esistenza pulsa con i nostri raggi bisognosi.

Sono sette, una consecutio temporum che mette tutto a posto, l’educazione che determina l’ordine, uccidendo la confusione.

Angst4 è un plotone di disciplina che nello specifico agisce nel nostro vocabolario ritmico spoglio: urge modificare lo spreco, indirizzandolo verso i territori dove l’unica legge è la conoscenza.

Come sia possibile essere così meticolosi nel dettaglio senza sembrare eccessivi lo sa solo il nucleo operativo della loro intellighenzia, viale ombroso e allucinato in roteanti e straboccanti flussi di energia, che partendo da nervi di acciaio confluisce nella foresta nera, da sempre luogo di ispirazione cilindrica.

Dadi metafisici saltano tra la cittadina di Saarbrücken, per una notte capitale della fragranza sonica, bevendo lapilli di Coldwave attrezzata all’accoglienza di quell’Electropunk capace di incidere tatuaggi cosmici in agguato continuo.

Questo viale imbevuto di ribellione in ascesa si intitola Was Bleibt, miscela liquida/solida che aggroviglia la mente in percorsi di labirinti che sconfinano nella confusione attrezzata per una acclamazione senza fiato: nella discesa verso il piacere le tappe sono trappole in attesa del nostro sangue elettrico.

Ci ritroviamo collocati in una dance floor dalle pareti che pulsano musica in avanscoperta, fulgida e magnetica, come una guerra nucleare dei sensi che cadono per terra, stremati.

I nostri corpi come selvaggina, come cavie senza abbellimenti, al cospetto di una follia che deturpa il cielo dei nostri sogni. 

Un album che piazza il suo tergiversare nevrotico tra considerazioni rese limpide dai suoi gioielli in fase di decodificazione continua, con il linguaggio dell’intensità che diviene petroso e lunatico. 


Nulla è nuovo, all’interno di questo ventre, ma supera l’entusiasmo di chi potrebbe essere deluso davanti a una mancata occasione di creare un genere sconosciuto, di inventare avamposti mai incontrati prima. I tedeschi curano quelli che altri hanno mancato di perfezionare, calibrano generi musicali che stanno conoscendo l’usura e la noia.

Ed è questa l’occasione per sentire la loro ribellione, capace di operare questo malato, non immaginario, che si chiama Coldwave, con suo cugino l’Etectropunk, anch’esso in precario stato di salute. 

Nella condensa di questo salone dove corpi obbedienti danzano inebetiti, robotizzati, grigi e con le manette nei pensieri, l’ascolto di questo album rende possibile il congedo dalla noia accumulata per trovare una forma di divertimento edulcorata e potente, consegnando voluminosi sorrisi in propensione a chi cerca nuove forme di conquista.

L’approccio alle canzoni è una scelta, ma da solo renderebbe sterile ciò che entra nell’apparato uditivo: nel caso di queste sette conturbanti tracce sismiche occorre un decalogo comportamentale che ammazzi un eventuale spreco, perché tutto nel disco è un evento che va riconosciuto e consegnato alla Storia.

Non sentirete atti di sconvolgimenti penetrare il vostro udito, bensì quelle migliorie che viaggiano abilmente segregate e nascoste: a voi spetta diventare maghi sapienti capaci di sciogliere l’arcano e nutrirvi di ricchezze a portata di gioia.

Adottate le misure precauzionali di un giudizio accantonato (non servirebbe, vi distruggerebbe), siate generosi nello studio di movimenti a tenuta stagna, di levitazioni continue nel fracasso che può nutrire le mancanze sicure di una conoscenza specifica di queste lande desolate ma generose di semi sublimi.

E sarà estasi cavalcante dentro l’emisfero di questa sfera di note: metà saranno riconosciute, l’altra metà viaggerà solitaria nello spazio, irraggiungibile e sovrana. L’invito è immergersi in uno scafandro per visitare le particelle di H2O che vagano nei fondali della conoscenza, in attesa che i vostri ascolti diventino carezze.

Saranno allucinanti le spranghe che assaggeranno le vostre gambe, aghi acquiferi entreranno muti sotto la vostra pelle per farne un altare, sconclusionato e perso nel buio del dolore che, è bene ricordarlo, non è mai innocuo.

Potrebbe essere una sfida calarvi nell’oscurità di canzoni come rocce ipnotiche che cadono, come onde, come voli senza paracadute, come urla dalla bocca cucita, perché questo lavoro è una allucinazione senza sostanze chimiche ma altrettanto devastante.

Il mio ascolto si ripete, la lente di ingrandimento scova altre gemme dalla veste scura, come un tesoro all’interno di una piramide, con il vortice che si colloca non solo nelle estremità: si rimbalza dentro birilli ignoti che conducono alla soffocante tristezza di cui è permeato questo pazzesco insieme.

Una fatica ascoltarlo, ma un piacere sublime entra nello smarrimento, nello stupore che riesce ad allargare le mie fauci: sarà così anche per voi se indosserete il camice da studiosi scrupolosi.

Una raccolta di foglie gravitanti intorno allo spazio degli anni 80, minuti di telecamere tra i beats, le pulsioni di un basso alla ricerca di un territorio da rendere martire, una tastiera che compare con apparente leggerezza: suo il compito di stregare definitivamente. Alla chitarra il ruolo di regina generosa ma mai esagerata, l’equilibrio sottile che trasforma l’acqua in oro. 

Non possono nascere dubbi: a volte parrebbero voler essere invisibili, sottili come un pensiero congelato ma poi sanno come prendere calore e donarlo a noi, anime corrose di cotanta maestria.

Andiamo, dobbiamo entrare nei loro cubetti di ghiaccio sino a intossicare ogni nostro battito che diventerà obbediente e malizioso.


Song by Song 


In Gefahr


Sin dalle prime note si rende evidente il territorio espressivo, la dote che sviluppa, amplifica e certifica una zona di interesse che nobilita espressamente due generi musicali che si trovano a braccetto, in uno splendido connubio. 

Il basso e la tastiera sono due mondi cupi che si prestano a generare meteore e meteoriti con il loro tracciato specifico. Post-Punk e Coldwave di profonda attitudine alla volontà di ipnotizzare, usando poche ma incisive note. Ed è polvere da sparo immediato.



Erinnerungen


Tensione nel cantato, una vocazione ad un esistenzialismo scenico notevole che lascia spazio alla parte strumentale, che si appoggia alla scena Jugoslava dei primi anni 80 per un risultato di grande spessore, dove molto gravita verso la sospensione climatica per generare una nebbia che condensa la nobiltà di una tristezza ritmata.



Namenlos


Pioggia trasversale, con l’introduzione che paralizza come estasi dalle piume gelate, si danza poi con il basso dal plettro scintillante, una tastiera tenuta nella retrovia per salire poi davanti ai nostri occhi, per generare estasi e turbinio. Scheletrica, ridondante, misteriosa, con una parte elettronica liofilizzata ed efficiente, scivola dentro il ventre  pieno di elementi tipici dei D.A.F. tenuto volutamente seminascosto per poter riascoltare ricordi sottili, per poi trovare il suo volto di gran classe.



Ein Bild (erste Version)


Un suono, una attitudine profetica di un futuro melmoso esce allo scoperto con questa canzone che mette in rilievo una complessità strutturale interessante.

Si sta in attesa, mentre tutto accade con ingressi di malinconia multipli, che come un serpente assetato ci circondano minacciosi. Un esempio di un lavoro complesso, di soluzioni di arrangiamenti efficaci, il brano che si ferma per poi tornare con la sua ipnosi e nevrosi tipicamente germanica.



Überall 


Essenziale, giocato sull’ampiezza immaginifica, che scarta il superfluo, questo è un esempio di fluida e tossica disciplina sonora, dove tutto è capace di circondare ciò che è brutto e annichilirlo. Echi e bagliori del locale The Cave Club di Francoforte sembrano conservare il magnetismo e la necessità di rendere i battiti corporei di questi minuti un collante di monossido di carbonio per spargere una morte ipnotica sui nostri muscoli rapiti.



S/W


Apoteosi, flagranza di devastante intensità, fiumi di Coldwave incollati con il sangue stagnante conducono a una danza dal cuore genuflesso e riconoscente: il clima della canzone è una lastra semovente dai scintilli pieni di tenebra, un ossimoro necessario e di antica memoria che necessita di essere tenuto in vita. Di una atroce intensità, gli Dei del dolore sentitamente ringraziano: anche loro si ritrovano ad essere immischiati in questa losca frenesia, danzano sino all’ultimo colpo di questo basso assassino.



Sternschnuppen (live im Proberaum)


Atomi di morte trovano la loro dimora in questa frastornante esibizione di lussuria, resa volutamente sacra e lenta, avvolgente dimostrazione di un teatro che ha saputo saccheggiare la violenza della perdita di ogni contatto di sentimenti per raggelare i respiri. Si freme, si invoca la luce ma questo buio non dà scampo: si trema mentre tutto il terrore minimalista echeggia nelle vene che si sfilacciano e muoiono, senza nessun testimone…


E' tempo di prendere questo album, metterlo tra gli artigli del nostro desiderio, farlo riposare per qualche ora e poi tornare al suo cospetto e farci usare, senza ritegno: sarà ingordigia senza barriere...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Giugno 2022


https://angst4.bandcamp.com/album/was-bleibt






mercoledì 1 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together

 La mia Recensione:


Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together


"It was written with Johnny Marr in mind and it is the only song that I have written with him in mind, post Smiths. I saw him in the music industry being used and being pushed around and being manipulated and I felt I was in a situation and I thought, 'Look at me, look at you - it's the same, it's a mess and this is as far as we will go' which wasn't quite true in the end but at that moment it felt pretty despairing for both, I felt despairing for both of us but I was wrong.”

Morrissey,  1992


Dovremmo imparare a guardare il cielo come un luogo dove le presenze si avvertono ma non si vedono, dando alla profondità del pensiero l’assenza della fisicità, che tanto banalizza e annulla la verità perché in grado di creare i presupposti delle scelte che si ritengono fondate, legittime, consequenziali.

E allora in questa volta celeste può trovare posto un angelo che accoglie inviti appassionati, profondi, disperati, in un cammino mentale con il piombo: dove esiste una disperazione tutto può divenire ingarbugliato, come un’edera, che non esclude la bellezza ma complica lo sguardo.

Stephen Street, musicista e produttore degli Smiths, mandò a Morrissey una linea melodica precisa, lui la valutò e decise di chiamare John Metcalfe e altri cinque violinisti per poter conferire al brano una poesia greve, dal sapore ottocentesco, da spedire al cielo. L’inizio di una bomba dalle piume color Disperazione trovò nel laboratorio mentale di Morrissey i suoi primi elementi essenziali per poter dare alla canzone l’unicità che era insita nella sua mente.

C’era bisogno di un vortice, di un limite, di poche note, le variazioni non erano richieste: avrebbero fatto tutto il testo e l’interpretazione del bardo di Stretford.

Accordata la voce con i petali di un disastro, date alle parole la guida per una scorribanda personale, i sei violinisti si ritrovarono a sudare di pelvica gioia innanzi a questa performance dove il tempo fu messo in pausa, dove il messaggio era essenzialmente uno solo, ma dalle tante diramazioni. 

AADWGT è l’amore nei confronti di premure precise, all’interno di una amicizia andata persa dentro il deserto che secca tutte le cose. E da quel deserto Moz si è preso cura di una fine, l’ha gestita, mantenuta in vita solo per novantanove secondi, quelli che bastavano per dare al dolore la bellezza e l’ultima armonia.

L’invocazione a non commettere un suicidio nel sepolcro notturno è il primo elemento per capire l’enfasi, il dramma, la polvere da sparo che vorrebbe trasformarsi in quegli antichi gladioli che un tempo coloravano le stanze di due amici dalla pelle fresca.

C’è un vestito di dolcezza in questo involucro che sfida l’estate, perché il calore fa morire l’intensità dei colori e quello dell’amicizia più di altri corre il rischio di scomparire. C’è una quota di paura enorme che consegna sia alla musica che alle parole il ruolo di fertilizzare chi disunisce, chi gode nel separare ciò che voleva essere eterno. Ed è proprio l’eternità il ricevente di questa lettera dalle foglie caduche.

In un album come Viva Hate, dove la responsabilità era enorme (bisognava tener conto del percorso di cinque anni immensi e significativi), l’esordio solista era atteso con fiori, mitra, tuoni e tantissime paure da parte di chi aveva visto il ragazzo dalla penna dorata essere uno dei pochissimi portavoce di una classe così infinita e indiscutibile.

L’album piacque, conquistò, ma non uccise il lutto.

Ma Angel, Angel Down We Go Together fu un gladiolo che spuntò dalla sabbia del deserto e rese magico l’incontro per una modalità espressiva mai entrata nel campionario effervescente, potente, devastante degli Smiths.

Si finisce per diventare tutti genitori dalle lacrime in caduta libera, come quelle che Morrissey sparge nelle sue righe dalle rughe appena nate: si rimane sedotti da come la voce racconti questa necessità donando a se stessa il privilegio di una modalità mai cantata in precedenza, abbandonando il concetto di pop per avvicinarsi a quello della musica classica. Ipotesi, tentativi di avvicinarsi alla verità potrebbero suggerire che solo questo genere musicale abbia in seno la propensione verso l’eternità.

Ascoltare questo effluvio ferisce il nostro olfatto, perché i sapori buoni sono lontani dall’essere accarezzati, siamo in presenza di un addio che mostra i suoi polsi lacerati ma ancora innamorati. Allora davvero il pianto infinito può durare per novantanove intensissimi secondi, nei quali la clessidra sembra avere la grandezza di una pietra enorme di una montagna chiamata pena.


Si ha, all’ascolto approfondito e ispessito da una pergamena che affianca le parole di Morrissey, l’impressione che esse siano il luogo del cielo adibito alla melodia e alla frustrazione, con questa vena artistica che stordisce le nuvole. Si vive l’esperienza di una compattezza che vuole lasciare libero il rifiuto al nostro abbandono emotivo per poi sequestrarlo del tutto.

Tutta la vampa che scalda i muscoli dei nostri sentimenti ci indirizza verso la struttura della canzone, che è il vincolo essenziale, voluto,  abbandonarsi al quale crea sensi in disunita propensione a fuggire da tutto ciò che eravamo abituati a conoscere del cantante Mancuniano.

Eccolo il rifugio della verità essere grattato da violini gravidi di pioggia dai fianchi graffiati, liberi di avere poco spazio per poter vivere questa storia dal viso scuro che abita le cellule del brano in modo appropriato.

E come uno scontro continuo, la velocità inchioda l’attenzione verso una forma canzone sottile che trova nella parte finale la modalità di farci inginocchiare insieme a un amore che è più forte della vita: l’apogeo diviene manifesto, divinamente.

Due sezioni separate di archi, con struttura e significato, avvolgono le parole per dar loro anche la sensazione che una guerra piena di pallottole melodiche possa finire in un devastante pareggio, dove a vincere è senz’altro il bisogno di tenere tutto perfettamente inserito nell’autostrada vergognosamente felice di un cuore isolato dalla mente.

Non sappiamo cosa abbia deciso l’angelo della canzone: rimane dopo trentaquattro anni il timore che non abbia ascoltato le invocazioni di Morrissey, che l’amore non abbia consegnato a se stesso il respiro che desertifica ogni bisogno di abbandono. Ci rimane in dono un volo con le catene sulle labbra di una canzone che da sola farebbe felice ogni essere umano dotato di buonsenso. Ma non abbiamo dubbi che l’uomo che aveva Wilde dalla sua parte abbia incominciato a creare a partire da questa canzone le tristi connessioni con una solitudine che invecchia anche la più angelica propensione alla protezione di chi si ama.

Abbiamo conosciuto attraverso questo brano la volontà della ricerca dei nemici di chi si ama, le avventure di una mente che, incollata alla sua voce, ha dato alla Storia della bellezza la corona, dalla quale per sempre scenderanno lacrime felici del loro addio al sogno eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

2 Giugno 2022


Words: Morrissey

Music: Stephen Street


"Angel, angel
Don't take your life tonight
I know they take and that they take in turn
And they give you nothing real for yourself in return
But when they've used you and they've broken you
And wasted all your money
And cast your shell aside
And when they've bought you and they've sold you
And they've billed you for the pleasure
And they've made your parents cry
I will be here, oh, believe me
I will be here, believe me
Angel, don't take your life
Some people have got no pride
They do not understand the urgency of life
But I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life"







martedì 31 maggio 2022

La mia Recensione: Gene - Speak To Me Someone

 La mia Recensione:


Gene - Speak To Me Someone


Quanto la notte sia la madre delle insicurezze, delle paure, dei vuoti si è scritto sin dall’antichità, come appuntamento doveroso. Con poco fiato, attacchi di panico, una confusione che velocemente si toglie la maschera per mostrare la sua faccia caratterizzata da una certezza devastante e negativa.

Poi una canzone.

Esplosiva, verace, lapidaria, connessa all’unico sentimento che offre spiragli e realtà positive: l’amore.

Speak To Me Someone è l’impatto tra il bene e il male in una storia dentro un mare alcolico, figlio di una depressione che mette le catene ai respiri, che ruba alle braccia ogni possibilità di trattenere l’armonia di una vita sognata per legittimarne l’esistenza.

Sognante, con i suoi archi elettronici, e la chitarra che ci fa dondolare la testa, in pochi istanti ci ritroviamo storditi con la mente tra aghi velenosi.

I Gene sin dagli esordi hanno saputo attraversare ciò che è impervio, per costrizione personale, per un disagio preferibile ad una mancata gioia perché non sempre l’arte cammina nel territorio del fittizio. Qui le forze convergono davanti all’acclamazione globale di un connubio che restringe il sogno e il benessere, rendendoli inermi. 

La musica è comunicativa con sottile propensione alla drammaticità, mentre il testo scivola inesorabilmente verso la solitudine di un’attesa solitaria, tra il bisogno di parlare e la voce dell’alcol, l’unica che riesca a rendere effettivamente pratica la presenza.

Martin Rossiter colora la voce con parole come petardi che intontiscono e scavano il terreno per le ferite interiori che provocano nel suo animo, dove non è possibile vederne le tracce. Sulla pelle emergono brividi e lacrime, il piacere malvagio di un ascolto ripetuto, come un rito pagano in attesa della sua concimazione totale tra le vie emotive di un malessere coniugato con un perverso piacere.

Perché fa male cantarla.

La band Londinese trova la modalità di descrivere l’amore più tormentato donando frammenti di bellezza mischiati all’assoluta certezza che comporre una canzone simile significa entrare nell’Olimpo, dove risiede una perfezione che non sottintende la volontà di mostrare la felicità.

Con una voce raddoppiata nel ritornello sino ad un urlo raggelante, tormentato, assassino, si rimane con le ossa che si sbriciolano davanti al terremoto emotivo.

La notte apre il cielo dove le parole arrivano, come preghiera arresa, con la musica che scivola insieme a loro sorvolando l’inutilità di una definizione stilistica: conta il contesto, la direzione, minuti nei quali si rivela assolutamente necessario ripetere sia la strofa che il ritornello per morire nell’ultimo verso, dove il tutto si specifica e ci uccide i respiri già martoriati in precedenza.

La compattezza infrange la nostra tentata fuga: ciò che pretende una osservazione avrà sempre il vantaggio di disarmare le nostre intenzioni. Ed eccoci allora ancora a cercare un’adorazione triste, una gioia col barattolo di vernice grigia su meteore di un dialogo reso impraticabile. Non si può parlare con nessuno durante l’ascolto di questa canzone.

È la volontà dei ragazzi dalla faccia pulita che fanno del nostro battito cardiaco una testa spettinata, un urlo composto e decisivo per lasciarci basiti.

E se l’unica bottiglia da bere come liquido contiene il sentimento più nobile, in qualsiasi forma, non ci resta che una ubriacatura continua, dolce e amara, devastante e limpida, perché l’amore vero, per quanto intriso di tristezza, non hai mai un colore torbido.

Con l’oscurità i quattro trovano la modalità vincente per farla divenire una possibilità di confronto, una indagine dove inserire le priorità e buttarsi in un inseguimento che comprende la speranza, non di manifestare il proprio desiderio di libertà bensì di ostacolarlo. Solo in questo modo la canzone chiude il cerchio togliendo ogni dubbio, lasciandoci un senso di sconforto immenso.

È un brano che sembra sospendere il tempo, rendendo limpida la sensazione che il dolore sia stato vissuto in primis, senza una invenzione artistica. Sarà forse il cantato dotato di una sicurezza disarmante, oppure per via di una musica semplice, con echi di R.E.M. di Everybody Hurts, a renderci vibranti con cupa attitudine, a implorare la canzone di non finire.


E che le nostre lacrime siano le coperte delle sue...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

31 Maggio 2022


Testo della canzone


"When darkness folds
Across this old sky
Yes, I'll open up 
For you that night
But still shadows they come
Am I safe in your grasp?
Can I be your arms
Of strength tonight?
I'll wait for the day
When you creep through the window and hold me
Smash into my life now and hold me
Don't set me free
I've waited too long, yes I'm dying
Smash into me someone and hold me
Speed into this life now and hold me
Hold me
Hold me
Can you tell me
Will I ever dream again?
In your arms
I now know that I'm home again
I'm home again
I'm home again
I'm home again
I'm drunk for your love
Speed into my life
Speak to me now
Just speak to me someone
For I know your taste
And I can supply"

Gene:

Steve Mason
Matt James
Kevin Miles
Martin Rossiter












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