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giovedì 27 ottobre 2022

La mia Recensione: Alice Cooper - Love It to Death

 

La mia Recensione:


Alice Cooper - Love It to Death


Bettie David e Anita Pallenberg.

Dee degli anni 60 che hanno fecondato bellezza e importanza, gravitando nei pruriti fisici e mentali di uomini in cerca di ossessioni.

Poteva mancare di fare lo stesso Vincent Furnier, da Detroit, anima nascosta dal credo cattolico genitoriale? Certamente no!

Come una lumaca che sale su uno skateboard, il ragazzo baldanzoso forma un gruppo e scrive singoli, cerca attenzioni dando in cambio stratagemmi visivi uniti a percorsi mentali demenziali, farciti di bolle di pazzia ad alto voltaggio.

Crea la band Alice Cooper e fa di tutto per disintegrare il talento con dischi confusi e approssimativi, seppur macchiati qua e là già di  bellezza e di vibrazioni metalliche. Questo vale per i primi due lavori.

Poi Frank Zappa vende la sua Label alla Warner e tutto cambia per la formazione Statunitense. C’è bisogno di chiarezza, disciplina, di quella incisività mancante ma che con un buon lavoro può essere ottenuta. Arriva un musicista, arrangiatore, giovane e inesperto alla produzione, il cui impegno (non privo di scazzi e tensione) darà però al terzo album una forma e un valore immensi.

Bob Ezrin è colui che sfiora il vaso Alice Cooper e il serpente che esce questa volta, seppur addomesticabile, si rivela velenoso e letale, stravolgendo la sfera musicale per creare uno spartiacque che risulterà decisivo.

Arriva Love It to Death e finzione, realtà, mistero, crudeltà e una forte immaginazione daranno al rock dell’epoca una lezione, sapendo succhiare linfa contemporanea per ampliarla e inocularla in quella scena rock americana così desiderosa di un passo avanti.

Eccoci: Glam Rock, Psichedelia, semi Garage, presi e liofilizzati, dentro papà Rock che mette su muscoli, adrenalina, entrando a teatro e al cinema con cambi di abito, una scrittura che rispolvera la poetica decadente ma alla quale viene data una sferzata con i fervori giovanili. Si crea uno shock totale che accerchia i fianchi mentali di persone consumate dagli abusi ma senza più coscienza.

Vincent non ci sta e coinvolge i membri nella scrittura dei brani (metà saranno totalmente suoi, gli altri dei 4 funamboli) più una cover meravigliosa.

Manicomi, insicurezze, favole gotiche col trucco sbavato e colante, grumi di terrore: tutto compattato per portare in scena non il disagio bensì una presenza che desidera acculturare, diversificare e ampliare il raggio di azione della potenzialità delle giovani leve che vogliono fare qualcosa di più decisivo.

Gli Alice Cooper scavano nel torbido e trovano uno scettro dal quale escono raggi che sprigionano paura ma soprattutto curiosità e senso di novità più che mai necessario.

E qui la maestria di Bob si rivela la mappa del tesoro e non il tesoro stesso: lui indica le coordinate per trovarlo e disciplina la truppa di pirati musicali verso il target, che viene raggiunto pienamente.

La voce è una Toxicodendron radicans (edera velenosa) che graffia le nostre orecchie per creare ferite, come ugualmente fanno le chitarre: un modo selvaggio di assestarsi e di poter dominare, senza rinunciare a una forma estetica che conosce eleganza e dolcezza.

Ma saranno semi che si allargheranno dentro il tempo che verrà e che li consacrerà come tra i più validi e importanti maestri non solo di generi musicali, bensì di attitudini.

Su queste corde vocali le melodie sono più ordinate e coordinate rispetto al passato: tutto ne beneficia e lo spettro allarga il suo macabro sorriso all’interno di un meccanismo perfettamente oliato con erbe magiche che si rivolgono agli spiriti del ventre terrestre.

La vita diventa un pretesto per oscenità da nascondere con la pia illusione che la musica sia un messia, un viandante che insegna la forza del sole.

Si percepisce invece il contrario: le divagazioni e le dilatazioni degli anni 60 qui sono un piccolo riflesso che viene tramortito per essere schiacciato da una veemenza espressiva che tende a fagocitare l’inesplorato. 

Prendi i Doors, gli Stones più sfrenati e ti sembreranno poppanti al confronto: l’età adulta incomincia con il constatare che non si può scegliere ma inondare ogni particella frustandola, facendola sanguinare per finire con il regalarla.

Strafottenza ma anche gusto artistico convivono, perché la polvere che esce dagli amplificatori va dritta nelle narici della mente, come un complotto ordito da chi non si può discutere, per renderci passionali a nostra volta, ebbri di sregolatezza ed euforia.

Un album che anticipa generi musicali, fotte il passato mostrandosi superiore e un nuovo modus operandi viene conosciuto ed esplorato per contaminare luoghi comuni e ascolti ormai a rischio di essere démodé.

Si entra come serpenti assatanati nel fiume delle droghe, deglutendo liquidi fangosi, quintali di sesso scrutandone le devianze, e altri argomenti che giocano contro la mentalità benpensante che li definisce tabù.

I quali, invece, per Vincent sono pane quotidiano, un alimento che fagocita e di cui, siamo certi, nell’album trovano posto solo le briciole, in quanto sarà nella dimensione Live che tutto troverà l’ampiezza, rivelando in toto dimensioni enormi.

Non più patologia ma uno stato d’essere, legittimato da una volontà forte come un credo biblico.

C’era da sostituire il power flower, non più credibile, sostenibile, incapace di determinare comunione e pacificazione. Lo scenario era cambiato e Vincent lo sapeva bene, perché crea uno spirito umoristico notevole e si addentra con intelligenza, in lirismi oscuri e nella volontà di non essere asservito all’establishment che invece formava soldatini ubbidienti, con escamotage che parevano dare libertà.

Quella che invece gli Alice Cooper realizzarono con sapienza, dinamicità e spruzzi di cattiveria che approdavano alla derisione di alcune forme di potere. Bisognava parlare alla giovane generazione con inni rock, con immediatezza e senza rimbambire i cervelli di sostanze dal potere anestetizzante. La musica come trampolino di lancio di nuove psicosi, chiaramente liberate da ogni pastoia mentale. Tutto questo vive nei solchi di un album che a 51 anni mostra ciò che ha generato con grande orgoglio.

La sfacciataggine dei riff è eloquente, programmata, finendo per inoltrarsi nei bisogni di semplicità che il rock stava perdendo. Il combo ritmico, asfissiante e poderoso, conferma l’intenzione che la musica, affinché possiamo subirne il fascino e diventarne dipendenti, debba partire dai brividi, dall’immediatezza che fa scattare i corpi in piedi e correre e danzare come cavallette senza ordini precisi di lavoro. La musica contenuta in queste nove tracce sarà educativa malgrado ossessioni e maleducazioni evidenti, perché un nuovo linguaggio doveva produrre l’omicidio del già noto. Nessuno inventa nulla, nella totalità del termine, ma sicuramente qui si trovano miniere evidenti di nuovi metalli, diamanti e oro da estrarre e da mostrare per creare un nuovo principio di appartenenza. Il futuro, grazie a questo album, diventa l’improvviso parto che genera una creatura che trucca il senso della vita, sconquassa, illumina e sin da subito schernisce la realtà con stilettate seminascoste. Non più canzoni di protesta, di rifugio psichico, di benessere perché assenti da ciò che crea disagi, bensì l’universo dell’incerto che ha nuovi nomi e cognomi da studiare, da capire, nuove eccentricità da far spostare, nuovi sensi da scoprire.

Musica come omicidio del conformismo, elemento patogeno da indossare con fierezza per sconfiggere il senso di salute che, attraverso il capitalismo, aveva affossato anche i musicisti, sicuramente vittime dell’industria musicale così devota alla forme di controllo. 

Troviamo quindi una galoppata di cliché usati per essere derisi, ammirati, lasciati in un angolo, adorati e odorati, in una giostra contraddittoria che affascina e porta allo stordimento, facendo in modo che alla fine dell’ascolto ciò che avrà generato sarà stupefacente e nutriente. Si sentiranno riferimenti parziali, diretti (David Bowie su tutti, in un paio di episodi), Jimi Hendrix, la psichedelia inglese delle vie eleganti dei quartieri chic di Londra e tutto il caos statunitense che, mettendosi un mantello e appesantendo un pò il corpo di ferraglia, si trascina con leggiadria fra ritmi sostenuti, ballads ipnotiche e divagazioni che risultano in questo trambusto sonoro perfettamente sensati.

Geniale nella sua esagerata energia, nei suoi fiumi fumosi degli anni 30 a cui sono stati tolti polvere e grasso, ecco che Love It to Death è un capolavoro ineccepibile di cui oggi pare difficile capire il senso. Ma molto proviene proprio da queste canzoni, dai suoi autori, da quel produttore e dal fato musicale che concede sempre spazio alla ricchezza, sotto forma di una genialità senza tempo…


Song by Song


1 Caught in a Dream


È un Glam che sembra essere pulito, ma che contiene croste maligne al suo interno, mentre viaggia spedito nei suoi riff brevi e precisi. La forma Rock nella sua veste più semplice, apparentemente, ma preparatoria per il suo proseguo. Trova motivo della sua presenza un solo di chitarra che regala adrenalina e melodia per un brano che diverte e fa riflettere.


2 I’m Eighteen


La traccia che spalanca il successo è costruita su un arpeggio accattivante, una chitarra solista bella in modo osceno e il cantato di Vincent che farà nascere imitazioni a non finire. Accordi Power sul ritornello creano la semplice unione tra esaltazione e liriche critiche di un mondo adulto che genera sconquassi. Una rullata di batteria sul finale e la tastiera di Michael Bruce concludono un vero e proprio inno ipnotico, ma con le stigmate di un brano vivace.


3 Long Way to Go


Se rallenti Ziggy Stardust di David Bowie nei primi secondi, ti pare di immaginare il Duca Bianco vestito di nero. Ma quella canzone nacque dopo questa. Andiamo avanti e vediamo i prodromi di un futuro che sta nascendo dentro queste note, tra il rock ’n roll incatramato e i trucchi ritmici del Glam, che sanno utilizzare un piano ritmico su chitarre piene di pioggia pesante.


4 Black Juju


Si entra in una processione con i sensi pitturati di catastrofe, tra psichedelica propensione a seguire i Black sabbath dell’album di esordio e il teatro che scompone il tutto per generare una piacevole confusione. Poi i Doors fanno capolino, ma il cantato qui è lontano da quello di Jim Morrison. Piuttosto: tutto pare intenzionato a generare timori, paure, in un viaggio lavico dove il basso scivola con agilità sul manico mentre il drum continua il suo lavoro tribale. La chitarra pizzica le corde come in un viaggio nella parte nord-orientale dell’Africa. Poi Vincent prende la modalità vocale di Jim e battezza un crooning nero e perfetto.


5 Is It My Body


La dolcezza vive nella modalità del canto iniziale (pur sempre insanguinato), per poi trovare prototipi hard Rock che prendono ritmo e robustezza per scivolate sonore dove tutto è perfettamente connesso grazie al lavoro di Bob Ezrin, nel raggiungimento evidente di un piano conoscitivo che esalta e comprime, attraverso la perfetta sincronia tra chitarra e basso, che permettono ascesa e discese, mantenendo elevato il senso di seduzione.


6 Hallowed Be My Name


Ennesimo capolavoro di sintesi dalla propensione futura: fraseggi Hard-Rock lasciano spazio a dettami psichedelici chirurgici, per una composizione che pare seguire i fumi dei Deep Purple e dove il contagio dei generi può favorire un divertissement inaspettato ma geniale. Per brevi secondi (dal quarantesimo al quarantacinquesimo) sentiremo in anticipo una chitarra amata poi molto dai Sex Pistols e da molte punk band. Ma sono i 60’s i genitori della strofa, mentre il bridge è pura follia del gruppo che registrò l’album a Chicago. Brano essenziale per capire la drammaturgia e il filone di questi cinque cavalieri del gioco d’azzardo


7 Second Coming


È il cabaret che apre lo scenario del pezzo per poi proseguire su chitarre graffianti e stacchi continui di batteria, come un veleno che segue ordini di uccisione, cercando e trovando uno stile che si rivela essere piacevole almeno alla vista… Palestra per il futuro da solista di Vincent, la canzone conosce attimi di approcci alla musica classica (sempre Bob…), per fare di questo brano un capolavoro assoluto, spesso incompreso. E il colpo di teatro finale della voce del bambino alla ricerca del padre è davvero esaustivo per definire la fiumana inventiva.


8 Ballad of Dwight Fry


Bela Lugosi (dal film Dracula del 1931), attraverso il suo schiavo Dwight Frye, entra nell’album e non poteva mancare per il brano più suggestivo. Una lacrima che si schianta in un dialogo, dove frustrazione, rabbia e tristezza consentono a Vincent una interpretazione strabiliante, tra chitarre e la trovata di una tastiera che paralizza, come se fosse giunta improvvisamente, per far detonare completamente il brano. La voce, beffarda, secca, graffiante (caro Stiv Bators so quanto hai amato l’artista di Detroit), nuota nei circuiti chitarristici per poter volare rancida e scostumata.

L’indefinito viaggia nel mistero e qui ne troviamo il perfetto esempio.


9 Sun Arise


Bisognava trovare un contrasto per l’atmosfera di questo album e la canzone giusta non era annoverata tra le proprie della band. Ecco in aiuto quella splendida di Rolf Harris, per l’ennesimo colpo di teatro. Realizzata dieci anni prima dall’autore Australiano, i cinque trovano una forma ludica efficace e fenomenale, per scintillii nevrotici di chitarre su un gran lavoro ritmico del duo basso-batteria e la voce di Vincent che si alleggerisce e mostra ottime capacità nel volare su una melodia allegra e scanzonata.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/6p7jHbG5Bd6z2JgfKx0um7?si=C-HPda24SwmKZUFoElMTig






martedì 18 ottobre 2022

La mia Recensione: Rowland S. Howard - Pop Crimes

 Se il Pop commette un crimine è quello di lasciare andare via per l’eternità un mago dalle unghie nere che si è preso la licenza di congedarsi con un album che ha proprio nel suo cuore un piglio Pop.

Ma non l’ha mai conquistato veramente e lui l’ha guardato storto, quasi incurante, certamente poco affascinato.

E il suo epitaffio è un grido a bassa voce, tra tormenti e moti angelici che fanno a pugni, con ramificazioni urticanti e rasserenanti per uno scontro che come risultato dà un disco meraviglioso, tra lacrime tenute in volo fisso davanti agli occhi, con la sensazione che ti cadano tra le pupille.

Con l’antico compagno di scorribande ed eccessi Mick Harvey, Rowland ha fissato per l’eternità la malinconia dei suoi battiti, esposto le sue vene a colpi di ombre continue senza mai sprofondare nell’oblio, come se fosse ancora in grado di governare le fiammate del cancro che di lì a poco l’avrebbe portato in un’altra dimensione. Ascoltando le otto tracce, sette originali e una incredibile cover dei Talk Talk, si entra nei suoi spasmi educati ma capaci di arrivare dentro di noi come folgori, perché la sua unicità, eleganza, raffinatezza e l’infinita classe mostrano tutte quante questo impianto scenico generoso e che lo qualifica, a detta dello scriba, come il miglior autore di canzoni del suolo australiano. Il disco è infarcito di blues nero, tagliente, lento, appoggiato sulla colonna vertebrale di un’America capace ancora di stimolarlo. La cura del dettaglio ubriaca, la finalizzazione che lo rende denso di atmosfere delicate ma vibranti (dove spicca la sua voce impastata con la grazia in un ballo cupo) accompagna le composizioni verso una spiaggia adornata di luci soffuse, sino a inebetire del tutto l’ascolto. Un rallenty continuo che fa esplodere il cuore dentro un lavoro celestiale di acute visioni sonore che ne espandono la bellezza al cielo. Il canto del cigno è cupo, intenso ma mai votato alla disperazione: tutto è cosciente, pieno zeppo di sofisticata propensione a creare brani che mutano a seconda del nostro umore. Ecco allora che si presta a un uso diverso, elemento che lo contraddistingue e lo consegna all’Olimpo di ciò che si deve conoscere, come un obbligo severo ma gentile.

I testi, cantati con una modalità che sembra essere il frutto di fiori che fuoriescono da vasi di lava con il mantello, sono efficaci escursioni di un pianeta psicologico che cerca ascolto, tra trame amorose con la polvere da sparo, e graffi decadenti mentre si espongono al sole. Una scrittura capace di vibrare da sola, per una emulsione che schiaccia il vapore acqueo, sempre pronto a uccidere, quando si tratta di contesti amorosi, per una mancata capacità di ascolto e confronto, un je t’accuse raffinato ma sempre evidente, per necessità e per via di un delirio che non conosce resistenze. La finestra del suo petto è rotta, caduta tra le braccia di una preghiera che non sembra possibile che venga ascoltata dalla madre di Cristo, come invece è il bisogno di qualcuno nella canzone che ci mostra pienamente come le sue storie siano a un passo dall’assurdo ma dannatamente umane. Sempre attenta a non esagerare con l’uso delle rime, la sua scrittura tratteggia profili psicologici, sospetti, grida che scendono dalle mani alle corde della sua chitarra che, ubbidiente, la segue nel vortice di trame dalla scorza dura, quasi impenetrabile. Sentire questa sua comunicativa così fulgida, nel contesto di note spesso d’acciaio, ruvide, grevi, crea non uno iato bensì una fascinazione incontrollabile.

La musica? Una sinfonia in perfetta sincronia con il deserto, dove tutto è secco, preciso nell’individuare ciò che è indispensabile, sopra un disincanto che muove le note in caduta libera senza però togliere il respiro, che la rende una prerogativa di chi sa come fare un patto con l’impossibile…

Ballads color velcro, in attitudine di protezione, con melodie dalle spine pettinate che inducono all’accoglienza, superando la paura di essere sedotti da tsunami sonori senza volontà di fare sconti. E quando il ritmo si alza un pò non è la danza che ci aspetta ma un volteggio, per poter baciare le ombre che lo compone. Si precisa la sua capacità di coinvolgimento con gli altri artisti dando la certezza che non siano session men bensì veri e propri membri di una band dal percorso millenario, sicuri, audaci e capaci di depositare ai piedi del cielo un tappeto su cui far volare i nostri ascolti estasiati e beneficiati di questa propensione univoca. Sempre come se fosse un arco pronto a lanciare le sue frecce, il genio australiano veste le canzoni come scie di vento, specialmente quando gli accordi sono quasi semplici, nessuna ostentazione da mostrare, piuttosto il bisogno di coricarsi sopra le trame di dense melodie per creare un unicum che non possa avere crepe sulla pelle. Si vola tra l’Australia degli anni 80 e la poesia ipnotica degli chansonnier francesi degli anni 60, senza perdere di vista quanta poesia, macchiata di una vena nera e calda, avesse lui stesso creato con The Birthday Party, il cilindro impazzito che alzò la polvere su un’Australia dormiente e non attenta ad alcune sensibilità che stavano creando rifiuti pieni di malcontento. Le chitarre sarcastiche e arcigne lanciano sibili romantici dentro un involucro in cui il basso e la batteria sembrano spose perennemente attente a lavare le macchie di così tanta radioattività. Perché queste canzoni, apparentemente di facile fruizione, in realtà corrodono e sanno sgretolare quel senso di bellezza che ci fa masticare tutto avendo lo stesso gusto in bocca. Invece…

Invece ciò che ascoltiamo è un complesso edificio di striminziti riferimenti (comunque da cogliere) e la valanga ipnotica di musicisti che si sono dati appuntamento davanti alla porta del mistero. La voce benedice e stordisce, perché nella sua apparente pacatezza esiste la stessa quota di furore del suo vecchio inquilino di quella Sydney che è stata la fionda che ha unito lui e il tenebroso Nick Cave verso una cittadinanza artistica e umana europea.

La stoffa però è la medesima: Rowland sa come ipnotizzare e farci rimpiangere la nostra minima dose di tranquillità. Sono episodi fumanti, tesi verso la conquista di una zona dove il soffocamento è elettrico, contorto, dove ciò che serve non è la forma canzone perfetta ma porti di accoglienza per una pioggia di lacrime quasi ammutolite dalla sua bravura. Sa esprimere ma al contempo contenere inchiostri di battiti slegati dalla futilità di milioni di anime indaffarate con il disimpegno, giostrando il tutto con scelte oculate, al di là della perfezione, perché questo accade a chi va oltre la propria strabordante genialità.

In questa narcolessia evidente, compaiono però episodi di poetica propensione verso le illusioni, lo spostare le attenzioni verso il prossimo, come portatore sano di miracoli improbabili, dentro relazioni torbide, in  addii che gonfiano il dolore e aumentano la mancanza di un’oasi di tranquillità.

Non vi è bisogno di caos, i testi strappano le tende degli ascolti portando alla preoccupazione, come se l’artista fosse un amico reale: Shut me Down raccoglie tutta questa intensità.

Non un testamento ma lo specchio della sua profonda difficoltà nel vivere: canzoni come autopsie che ci rendono gli occhi piccoli e già pieni di frequenze nevrotiche, quasi epilettiche, perché in questo flusso ogni secondo è un lutto tra la gioia e la morte che si sfidano in baci asfissianti.

E si dia spazio al silenzio, tra un episodio e l’altro, sia data via libera alla riflessione, i testi tra le mani e la curiosità, e la voglia di trovare il modo per sconfiggere la paura: dentro il suo distorto sistema artistico e umano vivono fascine di rugiada pronte a snellire la noia e le abitudini di brutti e confusi ascolti. In questa torbida collezione di esagerazioni c’è più equilibrio che in molte canzoni pop, dannatamente capaci di commettere crimini senza la nostra consapevolezza. Ora è il tempo di pescare nel suo maremoto, di farsi trascinare dalla sua bellezza a contatto con il diavolo per un’esperienza dove anche l’ascolto sarà fradicio di emozione…


Song by Song


(I know) A Girl Called Johnny


Il primo botto, quello che scoperchia il cielo, proviene da questa storia cantata a due, con Rowland che duetta con Jonnine Standish: è una piccola camminata psichedelica nella mente del prolifico artista australiano che apre subito il forziere del suo talento con una canzone che sprigiona emozione, con le voci che esaltano l’organo di Mick Harvey, e svetta per delicatezza e un malato romanticismo.



Shut me down


Il blues si tinge le dita di nero e con il profumo di whiskey che gli visita l’anima e le corde vocali, in una trascinante, epica dimostrazione di ciò a cui cosa possa condurre la mancanza della persona amata, ci fa giungere all’estasi. Anche da questo brano si capisce come lui e Nick Cave siano fratelli nell’anima, nessuno copia nulla dall’altro, ma sono invece uniti da attitudini simili che finiscono dentro un’orgia lenta. I rintocchi di organo creano poesia nel cuore mentre tutto va a sparpagliarsi nel cielo.



Life’s What You Make It


Non una cover ma un delirio soffocante condiviso con Mark Hollis, dove le chitarre sprigionano tensione e rendono dissacrante ogni tentativo di approcciarsi al brano dei Talk Talk: Rowland è l’unico che potesse davvero rivelarne gli scoppiettii con le ali distorte, in un viaggio dentro gli Usa rurali, malati e stanchi. Una corda che contiene una voce pronta a precipitare, trasportata da un’atmosfera blues-folk in cerca di uno schianto.



Pop Crimes 


Il male esiste, è un basso satanico che non concede repliche, perché conquista coinvolgendo per prima una chitarra sulle soglie dell’inferno. Il testo, una spada piena di tagli, consente a Howard di sprigionare violenza con la voce quasi mimetizzata dentro strali e graffi, per un risultato che è sconvolgente e stratificante. Una follia che si alza dal lettino e cade dentro amplificatori che sanno equilibrare il tutto con schitarrate ed il mare ipnotico dello strumento di J.P. Shilo che ci rende prede esangui.



Nothin


Oltre il capolavoro: Nothin è una pietra piena di fumi contaminanti che stroncano l’apparato uditivo per entrare dentro le mancanze che si sciolgono con il vento. Ed è Country/Gothic Americana & Folk Noir di purissima fattura, che conquista e appiattisce tutto con la sua linea melodica breve ma davvero capace di assestare un pugno nello stomaco.



Wayward Man


Il diamante più puro dell’album, feroce, con il basso di Brian Hooper che porta le chitarre a sventagliate acide, amplessi di nera attitudine, mentre Rowland diventa un quasi Crooner spiritato e immenso. Tutto stride e ferisce, chitarre come sirene con la voce sul punto di rompersi, e il vuoto che lascia spazio a un bridge aperto verso la fine del mondo.



Ave Maria


Nico è sempre viva, dove non esiste la sua voce vive la sua anima che qui sfodera un sorriso nero all’interno di un matrimonio con i proiettili dentro la memoria che torna ferendo, lasciando il cuore in uno sparo avvolto da musiche quasi paradisiache, ma è solo una comoda illusione.



The Golden Are of Blooshed


Fermi tutti: il sangue diventa tenebra, la storia raccontata è perversa e allucinata, la voce un lupo in cerca del giusto spazio per esibire i suoi artigli, dove la sfiducia nel partner porta la musica ad esserlo altrettanto, per magiche connessioni nel ventre del male. Un incubo che ha radici nella letteratura, che passa attraversa Jim Morrison alleggerito di acidi ma gonfio di alcol, per depositarsi dentro un’atmosfera sinistra ma vellutata, quasi capace di attirare le anime innocenti in un teatro degli orrori dalla pelle truccata. Ed è la vita che muore in una grotta con la chitarra che spranga il respiro, chiudendo questo gioiello senza tempo in un abbraccio soffocante…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/0rpPmk289NRqguHC8XQ0LV?si=PH7_FDBxTNurEPB_NrOtnA






mercoledì 21 settembre 2022

La mia Recensione: Gaetano Nicosia - Sparare a vista

 La mia Recensione:


Gaetano Nicosia - Sparare a vista


C’è qualcosa di devastante per lo scriba nell’essere anarchico: una serie di torsioni mentali ed emotive che si raggruppano nell’incredibile oceano di ingiustizia che l’essere umano crea, porta avanti e addirittura difende.

E la voce diventa sempre più sottile, con la tendenza a sparire. Ma poi in soccorso arriva un album, che crea spazio alla speranza, anche se nel farlo non manca l’occasione per piangere e specificare una rabbia davvero immensa.

L’artefice è un avvocato dal cuore enorme e dalla mente lucida e combattiva che muove la sua arte dentro coscienze ammutolite e purtroppo soprattutto assenti. Scrive un lavoro composto da nove esplosioni per svegliarci dal torpore che fa dimenticare la follia del male che non esita a sparare sulle voci che si oppongono al potere. L’unico modo per silenziare e rendere innocuo il tentativo di spodestarlo.

Sono una madre e suo figlio i protagonisti di questo progetto: la loro storia cucita nella modalità di uno Stato volgare e prepotente, dal grilletto facile. Sono nove “no”, nove “basta”, nove “vi fermiamo noi” che con convinzione e abilità sfoderano la loro forza e credibilità. E la morte di un ragazzo diventa messaggio di resistenza, la stessa praticata da una madre ferita gravemente ma con ancora respiri da vivere, sanguinanti e tremendi.

Gaetano usa dolcezza e irruenza, un senso urgente per non far addormentare la memoria e sveglia il mare di indifferenza e distacco con composizioni impetuose, frastornanti, come dinamite dalle mille sfumature, perché il senso del dovere gli fascia l’anima.

Un concept album dalla faccia piena di rughe nella sua storia per poterne però creare una nuova, dove lo spirito guida sia la consapevolezza.

Se l’incipit giunge dal libro del collettivo N23 “Perché non sono nata coniglio”, dove la storia di Roberto Franceschi diventa la lotta di sua madre per restituire al cielo tonnellate di doverosa giustizia, Gaetano raccoglie la tensione, la sviluppa e le dona parole e musica per trasportarci dentro una nube nera, nella quale immaginare che non sempre le ingiustizie rimangano quelle degli altri. Così facendo scattiamo in piedi non per ballare o cantare ma per reclamare diritti che dormivano nel letto della nostra intorpidita coscienza.

È il rock che torna ad alzare la voce, che ritrova una funzione sociale, con l’obiettivo perfettamente raggiunto. Lo fa individuando il nemico, la storia che lascia ferite e lacrime, trasformando queste canzoni in un’enorme sveglia nella testa.

Le chitarre, il basso, la batteria: una officina che si sposta in un hangar, per divenire cacciabombardieri con le parole urlate e sussurrate dalla gola di Gaetano, che diventa una furia anche tramite l’ottimo lavoro di produzione di Flavio Ferri, trovando il modo di precisare senza sbavature l’infinita corrente elettrica di una storia drammatica e la sua conseguenza.

Musica da tenersi stretta, da temere, da seguire, da sviluppare nei nostri spazi solitari, per poterci davvero connettere al mondo al fine di essere perfetti animali sociali, senza nessun risparmio da esibire. Un disco con il sudore e i brividi, che genera febbre e smottamenti, attraverso il quale il dito viene puntato contro le istituzioni, i comportamenti menefreghisti e svuotati dal rispetto che Gaetano invece mostra come assolutamente necessario.

I ritmi sono carichi di vibrazioni, le canzoni di inclinazioni verso la robustezza dove le distorsioni sono calibrate e non atti di fighetteria stilistica.

Nell’architettare questo concept album l’artista milanese ha setacciato, è divenuto un segugio di informazioni precise per poi convogliare il tutto in riflessioni che ha musicato, dando loro la capacità di inserirsi perfettamente nel desiderio che le canzoni diventino fiumi dove la vita torni a galleggiare e non l’ennesima macchia di petrolio a inquinare.

Ecco che allora la musica diventa utile e spazza via il gusto, la preferenza, la confidenza con la zona di conforto che alla fine è una discarica tossica.

Gaetano Nicosia si è immerso in atmosfere col mitra e l’elmetto, con le ginocchia piegate dal dolore, riuscendo però a farci vedere il cielo e a farci assaggiare il desiderio di cambiare le cose, avendo prima capito il da farsi.

Un album con le maniche arrotolate, un via vai frenetico di solidarietà e sostegno per il dolore di quell’ingiustizia che ha portato via una vita da questo mondo e fatto lacrimare la madre. Ma così come quella donna ha usato il dolore per reclamare desideri legittimi, Gaeatano usa la musica per mettere a posto quello che può permettersi di fare.

Canzoni che spazzano ma anche che seminano, il tutto concepito come un flusso magnetico dove gli opposti debbono smettere di farsi la guerra.

In tre episodi (vedremo poi tutto nel dettaglio) tutto sembra rallentare e conoscere prospettive nelle quali la necessità di respirare la calma conduce a incontrare melodie più marcate, maggiormente predisposte all’incanto (che siano in modalità semiacustica, o attraverso una psichedelia con una fisicità sognante), consentendo tregua e riflessioni senza correre.

Il suono dell’album è arcigno, benigno e maligno, sempre avendo l’impressione che voglia tener conto della storia, ma con l’obiettivo rivolto verso forme di considerazione che hanno lo sguardo al futuro, come se contemplasse una strana e tagliente forma sperimentale, un’avanguardia a piccole dosi ma poetiche e battagliere.

Si fa necessario, quindi, avere il muso duro di Bertoliana memoria, questa volta in un contesto dove l’errore significa scivolare, cadere giù, nelle braccia del nemico. Ci sono fuochi da accendere, da vedere, da subire e Gaetano ce li porta dentro gli occhi, mentre le chitarre sono schegge sparse tra questi trentatré minuti di contropotere che, oltre a viaggiare tra note, strumenti e parole, viaggia soprattutto nelle mani e nelle gambe che riescono, dopo l’ascolto, ad essere un’azione concreta per impedire a quella storia di avere la possibilità di ripresentarsi. Un album che è l’onda sonora di quelle pagine: qui sono chiassose perché amplificate e pregne del ruolo di dover ribadire la triste vicenda usando la favola della musica, in quanto è uno dei pochi veicoli in grado di fornire altre armi verso i soprusi.

Qui non si tratta di un artista impegnato a spiegare ciò che succede: piuttosto è un prendere posizione e volare cantando con la mente capace di non farsi imprigionare e di incutere paura.

Non più Maestro e alunno nella palestra dell’apprendimento, bensì una strategia che attraverso liriche impetuose e strazianti diventa l’unica arma da usare. Un lavoro toccante, disagevole, che non lascia perplessità. Se è il vostro pollice su o verso che conta allora state lontani da questi paraggi perché all’interno di questo involucro non si ha tempo da perdere e l’ascolto è già una preziosa forma per arrestare il nero beffardo che sa che è anche attraverso i gusti che si addomesticano le coscienze.

Per concludere: l’instabilità dello iato tra realtà, sogno e velleità è parte integrante di questo progetto, che ha in sé l’energia, l’unica possibile, per non essere un bell’album ma una scheggia negli occhi, da mantenere sino a quando le cellule si svegliano per dare a Roberto Franceschi e a sua madre  Lydia non solo un posto di cronaca nera e il risultato di un potere omicida, ma una culla dove possano guardarsi ancora amorevolmente: tocca a noi dare a quella famiglia la possibilità che diventi una realtà bella e importante e non solo un sogno…


Song by song 



Ma io non sono Stato


L’atmosfera, sin dall’inizio, ci fa intendere come sarà l’album. L’opening track è una trascinante esibizione di chitarre fangose, con cambi ritmo che non smorzano la tensione e un basso assassino, come una legnata sulle gambe, rovista il nostro ventre. I sogni infranti di Roberto Franceschi dimostrano il Potere di uno Stato omicida.


Anime perdute


Chitarre tremanti che ci portano in zona Sonic Youth fine anni ’80, aprono il cielo di ricordi di cui Gaetano deve purtroppo segnalare la disperazione con un testo che è una pentola che straborda con la sua acqua incandescente.


Molto semplice 


Sostenuta dal basso e da un chitarra sibilo che dalla periferia giunge nel centro del cuore, questa favola nera avanza con il suo incedere rock che balbetta suoni magnifici sino alla deflagrazione.


Odessa 


Tenebrosa nel suo primo respiro, la voce di Gaetano diventa capace di volare con il suo lieve eco, mentre il sentimento sonico rarefatto con gocce blues e psichedeliche ci fa entrare nel deserto con questa atmosfera tenebrosa.


Sparare a vista


Manifesto anarchico per eccellenza, ci riempie di consapevolezza con le lacrime aggrappate a un proiettile. Il giro armonico e il ritmo ci portano dentro vertigini nere dove tutto esplode senza sosta.


Uomo nero 


Il concept album continua con un episodio straziante, dove un finto pop di convenienza sviene ipnotizzato da parole di piombo, la morte dell’Occidente che ha donato la propria libertà a una Democrazia che si arroga il dovere di fare ciò che vuole. E intanto “Noi sappiamo molto bene il male dove sta”.


Bocca a bocca


La finta ballata, l’illusione, e poi è un orgasmo plumbeo di chitarre Glam annerite, con propensione alla rivisitazione delle possibilità del rock di essere molteplice nelle sue forme. Compatta, è distorta nella sua anima ancora più che nel suono.


Urla e ricordi


I Fugazi, i Sonic Youth e la scena alternativa americana dei primi anni ’90 si riuniscono dentro questi spari lontani, in un artifizio meraviglioso di richiami punk tenuti per le orecchie, nel quale svetta un basso sepolcrale, e la capacità di dare a un assolo breve tutta la suggestione che le parole hanno inciso nella nostra mente.


Caro Papà 


Il giorno dopo la consapevolezza di cosa significhi questa storia, il suo dramma, il suo urlo, Gaetano decide di concludere l’album con una lettera a voce aperta, su un loop elettronico e la polvere psichica della chitarra che spinge i nostri occhi a chiudersi. Parole come rose in attesa di essere accarezzate, la modalità è quella di avere la stessa capacità di alcuni momenti dei Pink Floyd di anestetizzarci, di placarci. Anche la volgarità della storia umana può conoscere una canzone immensa…


FF Recordings

Produttore: Flavio Ferri


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Settembre 2022


https://open.spotify.com/album/1piUiSNx53CUKvw4jUjEyS?si=-I0Zh0vsTTi0UPT3kWwgyQ









martedì 6 settembre 2022

My Review: Pale Blue Eyes - Souvenirs

 My Review:


Pale Blue Eyes - Souvenirs


The will to live, compromised, bruised, poisoned, dampened and hopelessly destined to lose vitality can draw support from art, and often music conveys precious energy.

In the case of the English band's debut album, we cannot but take advantage of the propensity for positivity, with the creation of songs that tend to make us open our mouths in generous smiles and to dance tirelessly.

We have the certainty (God knows, if he exists, how much we need it) of finding in the quality of the compositions of this effervescent trio a range of sounds, effective arrangements and strobe light effects in the waves of notes full of joy.

The musical genres are under the banner of the revival of certain 80s intuitions and the 90s attitude of rediscovering the will to dream: from a skillful use of electronic music (we have many references to Kraut-Rock in an excellent way), to the most velvety Post-Punk, to Shoegaze relieved of a certain tension and heaviness, to a Pop-Dance with imprints of wisdom, everything is governed by a careful production that conveys freshness.

One can hear the specific and well-articulated work, the will of a celestial circuit made of stars, planets and a sun that gives tons of strength to cope with a complex existence.

It is time to go and specify this colourful and majestic circus.


Song by Song 


Globe


A stinging synth, Matt Board's dreamy vocals, Lucy's effective drumming and Aubrey Simpson's leaking bass make the opener track a gem that makes us lift our lower limbs in a confetti-filled dance.



Tv Flicker


The flamboyantly dressed 90s show themselves with enthusiasm in a corollary of clear solutions to lead us to the dream vibrating in the air: energy and the chorus of notes perfectly sealed together.



Little Gem


The initial drumming takes us back to Da Da Da of the never forgotten Trio, but then comes the perfect combination of Synthpop and Dreampop and paradise is granted to us with subtle vocals.



Dr Pong


It's magical, filled with reminders of The Legendary Pink Dots (relieved of their dramatic nature), and then ensnares us with enchanting electronic sprinkles, leading to the magnetic and sensual refrain.



Honeybear 


The guitar becomes heavier, more incisive (Shoegaze seems here to be one of the trio's endless possibilities to make it catchy and light), and the dreamy vocals are the perfect counterpoint.



Star Vehicle


Robert Smith's band appears at the beginning of the track to take us on a conscious, harmonious ride, and in this song we really get the impression that youth does not mean immaturity: sounds and propensities full of quality, which make our hearts vibrate.



Champagne 


We toast with effervescent drops of notes that rise into the galaxy, in the perfect interplay between bass, guitar and synth, capable of keeping us at the edges of our seats and throwing us into the never excessive lightness.



Sing It Like We Used To


Perhaps the moment of greatest intensity, shivers and immense joy that surround us copiously, for a song that seems a sudden gift: a chorus of voices, a guitar with an alternative movement and the bass which captures  us pushing its notes into our stomachs.



Undern Northern Sky


The 80s, the ones that were swollen with hazy rays, come in, revisited and corrected, like vibrating waves that, through Synthwave, psychedelia and softness, provide nostalgia and joy at the same time, in a sublime contradiction.



Chelsea


The surprise of slowing down the rhythm and a delicate atmosphere comes with the last track, a Shoegaze dive that brings Slowdive back within dreaming distance. But then the guitar makes us realise that the three are mainly interested in finding their own style and they do it perfectly.




Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6th September 2022


https://paleblueeyesmusic.bandcamp.com/album/souvenirs


https://open.spotify.com/album/3ygeCJvvmY78sdfbvpFdYN?si=it-hk5e8QxajTuxSrQ20lg





La mia Recensione: Pale Blue Eyes - Souvenirs

 La mia Recensione:


Pale Blue Eyes - Souvenirs


La voglia di vivere, compromessa, acciaccata, avvelenata, smorzata e irrimediabilmente destinata a perdere vitalità può trarre supporto dall’arte, e spesse volte la musica veicola energie preziose.

Nel caso dell’album di esordio della band inglese non possiamo che approfittare della propensione alla positività, con la scrittura di canzoni che tendono a farci aprire la bocca in generosi sorrisi e a farci danzare senza sosta.

Abbiamo la certezza (solo Dio sa, se esiste, quanto ne abbiamo bisogno) di trovare nella qualità delle composizioni di questo effervescente terzetto una gamma di suoni, di arrangiamenti efficaci e di giochi di luci stroboscopiche nelle onde di note pregne di allegria.

I generi musicali sono all’insegna della ripresa di certe intuizioni degli anni ’80 e l’attitudine degli anni ’90 a ritrovare la volontà di sognare: da un uso sapiente dell’elettronica (quanti richiami al Kraut-Rock in modo eccellente), al Post-Punk più vellutato, allo Shoegaze sollevato da una certa tensione e pesantezza, a un Pop-Dance con impronte di saggezza, tutto è governato da una attenta produzione che regala freschezza.

Si sente il lavoro specifico e ben articolato, la volontà di un circuito celeste fatto di stelle, pianeti e di un sole che regala tonnellate di forze che servono per affrontare un’esistenza complessa.

È tempo di andare a specificare questo circo colorato e maestoso.


Song by Song 


Globe


Synth pungente, il cantato di Matt Board che si fa onirico, l’efficace drumming di Lucy e il basso colante di Aubrey Simpson fanno della opener track un gioiello che ci fa sollevare gli arti inferiori in una danza piena di coriandoli.



Tv Flicker


Gli anni ’90 dall’abito sgargiante si mostrano con impeto in un corollario di soluzioni limpide per condurci al sogno vibrando nell’aria: energia e la coralità di note perfettamente sigillate tra loro.



Little Gem


L’iniziale drumming ci riporta a Da Da Da dei mai dimenticati Trio, ma poi arriva la perfetta combinazione tra il Synthpop e il Dreampop e il paradiso ci viene concesso con un cantato sottile.



Dr Pong


È magica, colma di richiami sulla sponda dei Legendary Pink Dots (alleggeriti della loro drammaticità), per poi incatenarci con spruzzate elettroniche ammalianti, per giungere al ritornello magnetico e sensuale.



Honeybear 


La chitarra si fa più pesante, incisiva (lo Shoegaze sembra qui una delle possibilità infinite del trio di renderlo accattivante e leggero), e il cantato sognante fa da perfetto contraltare.



Star Vehicle


La band di Robert Smith si affaccia all’inizio del brano per condurci dentro una corsa, consapevole e armoniosa, e in questa canzone abbiamo proprio l’impressione che giovinezza non significa immaturità: suoni e propensioni colme di qualità, che ci fanno vibrare il cuore.



Champagne 


Si brinda con gocce effervescenti di note che salgono nella galassia, nel perfetto gioco fatto di rimpalli tra basso, chitarra e synth, capaci di tenerci con il fiato sospeso e di buttarci nella mai eccessiva leggerezza.



Sing It Like We Used To


Forse il momento di maggior intensità, brividi e immensa gioia che copiosamente ci circondano, per un brano che sembra un regalo improvviso: coralità delle voci, chitarra dal movimento Alternative e il basso che cattura spingendo le sue note dentro il nostro stomaco.



Undern Northern Sky


Gli anni ’80, quelli che erano gonfi di raggi nebulosi, entrano, rivisitati e corretti, come onde vibranti che, tra Synthwave, psichedelia e morbidezza, procurano nostalgia e al contempo gioia, in una contraddizione sublime.



Chelsea


La sorpresa del rallentamento del ritmo e di una atmosfera delicata arriva con l’ultimo brano, un tuffo Shoegaze che riporta gli Slowdive a portata di sogno. Poi però la chitarra ci fa capire che ai tre interessa soprattutto trovare il proprio stile e lo fanno perfettamente.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Settembre 2022


https://paleblueeyesmusic.bandcamp.com/album/souvenirs


https://open.spotify.com/album/3ygeCJvvmY78sdfbvpFdYN?si=jtpByeaZSfCWI8t81h0Xzg






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