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venerdì 2 settembre 2022

My Review: The Dark Shadows - Sour Candy

 My Review:


The Dark Shadows - Sour Candy


Sydney is a cloud full of colour, the attraction for souls trying to fly through everyday life with the propensity to smile, in the middle of the turns of fatigued existences but willing to travel in the sun's rays.

Among those who best express all this are certainly three girls with huge hearts and hands capable of conveying positivity even when the topics they deal with have their breath inside disappointment, doubts, requests (rightly kept veiled) for clarity.

The Dark Shadows are back, one song and everything becomes lamplight, ecstasy, amazement in the play of notes full of wind. 

The fairy Brigitte Handley writes words of shattered glass, about a broken relationship, and to do so she travels in depth to extrapolate those elements of relations that can crack the heart, the skin, the meaning of existence.

But, as with many Smiths songs, the supporting music is joyful, full of energy, able to bring us the attitudes typical of the new continent so that we can face it all with great strength.

Ned Wu (drums), Carly Chalker (bass player) and Brigitte Handley (voice, guitar), are back with an intense, melodic, fresh track, a trip with the surfboard over the waves of the Australian sky, to establish a connection between different but well-blended musical genres, in which their propensity to give rhythm and melody their embrace to the 60s, the undeniable source of inspiration for this truly explosive trio, stands out. The result is a vortex rich in easily digestible juices, addictive and with the power to push us to repeated listenings, an adventure inside their coffers that makes us dance, not dreamy for sure, but aware that from a grey-tinged story one can find an incentive to change direction.

With an impetuous start, followed by a pause that shows their sublime qualities, the track arrives at the true beginning of the verse after 44 seconds, and we quickly find ourselves inside the conviction that we needed music like this, passionate and true, stratospheric in its embrace, perfectly produced, without any tension drop.

Sour Candy teaches the meaning of legitimate communication towards those who cause pain, and the answer is a joyful song: hats off!👏❤️🇦🇺


Out on September 6 2022


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 September 2022




La mia Recensione: The Dark Shadows - Sour Candy

 La mia Recensione:


The Dark Shadows - Sour Candy


Sydney è una nuvola piena di colori, l’attrazione per le anime che cercano di volare dentro la quotidianità con la propensione al sorriso, tra le pieghe di esistenze affaticate ma vogliose di viaggiare tra i raggi del sole.

Tra chi meglio riesce a esprimere tutto questo ci sono sicuramente tre ragazze dal cuore enorme e dalle mani capaci di veicolare positività anche quando gli argomenti trattati hanno il respiro dentro la delusione, i dubbi, le richieste (giustamente tenute velate) di chiarezza.

The Dark Shadows tornano a farsi vive, una canzone e tutto si fa lampada, estasi, stupore nel gioco di note piene di vento. 

La fata Brigitte Handley scrive parole di vetro rotto, su una relazione finita, e per farlo viaggia in profondità per estrapolare quegli elementi dei rapporti che possono far crepare il cuore, la pelle, il senso dell’esistenza.

Ma, come per molti brani degli Smiths, la musica a supporto è gioiosa, carica di energia, in grado di portarci le attitudini del nuovo continente per poter affrontare il tutto con grande forza.

Ned Wu (drums), Carly Chalker (bass player) e Brigitte Handley (voice, guitar), sono tornate con un brano intenso, melodico, fresco, un viaggio con la tavola da surf sulle onde del cielo australiano, per stabilire un contatto tra generi musicali diversi ma ben amalgamati, nel quale spicca la loro propensione a dare al ritmo e alla melodia il loro abbraccio agli anni 60, fonte di ispirazione innegabile di questo terzetto davvero esplosivo. Il risultato è un vortice ricco di succhi, facilmente digeribili, che crea dipendenza per ascolti che si sommano a ripetizione, un’avventura dentro i loro forzieri che ci rende danzanti, non sognanti di certo, ma consapevoli che da una storia a tinte grigie si possa trovare lo stimolo per virare.

Con un impetuoso attacco, seguito da una sospensione che mette in mostra le loro eccelse qualità, la canzone arriva al vero inizio della strofa dopo 44 secondi, e velocemente ci si ritrova dentro la convinzione che avevamo bisogno di musica come questa, appassionata e verace, stratosferica nel suo abbraccio, prodotta in modo perfetto, senza cali di tensione.

Sour Candy insegna il senso della legittima comunicazione nei confronti di chi causa dolore e la risposta è un brano gioioso: hats off👏❤️🇦🇺


In uscita il 6 Settembre 2022


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Settembre 2022






martedì 14 giugno 2022

Riflessione di Calliope Tamara su: Lou Reed - Street Hassle

Immersa in un silenzio di provincia, in un periodo pandemico in cui i pomeriggi sembrano ancora più lunghi, accendo il mio giradischi e decido di masticare LP acquistati da poco in un mercatino dell'usato in Romagna. C'è musica classica e poi questo disco di Lou Reed. Copertina invecchiata, nero su nero. La puntina comincia a pizzicare e vedo sgorgare, dal nero dal vinile, una sostanza sporca e putrida. Penso : mica sto bruciando il mio giradischi? Da dove deriva questa sostanza?

Gimmie some good Times, Dirt

e la terza traccia si apre con arcate decise e concise su quello che sembra un mi maggiore. È Street Hassle e la sua storia. Matilda si sente male e sono guai per quell'uomo nel locale insieme a lei. La sostanza comincia a spandersi per la stanza. Mi alzo da terra, mi allontano mentre il giradischi sputa in aria il suo cibo e parte il lato B  con I wanna be black. Come faccio a fermare questo casino? La sostanza erutta sulle note di Real Good Time together. Esecuzione stonata e fuori tempo, una magia più unica che rara. Mi metto a ballare, saltando qua e là, cercando di evitare il marciume per non sporcare le mie scarpe. Niente da fare, Shooting Star è alle porte.

"Certa gente

quella ti deluderà sempre

tu cerchi di fare qualcosa

e loro ti guardano storto" la rabbia di Leave me alone mi lascia senza fiato. Non riesco più a saltare. Quante volte avrei voluto dirlo anche io e non ci sono riuscita?

Wait... e respiro di nuovo. Il marciume si ritira e torna a casa. La puntina trema sulle ultime battute e si stacca dalla sua catena. Il silenzio è di nuovo qui.

Sorrido e mi siedo per terra.

Lato A... si ricomincia.


Calliope Tamara

Pescina

14 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/4bCvrqNBh6hPB7hG4EltjN?si=JK0CeDDJQ0m3DviDOYIaJQ





martedì 7 giugno 2022

La Recensione di Giampaolo Ingarsia: Tallies - Tallies

 


Tallies - Una familiare brezza colorata dal Canada

Pomeriggio uggioso in ufficio, auricolari d’obbligo.

Mi alzo per un caffè, lascio la solita cloud radio basata sui miei ascolti.

Rientrato alla mia postazione vengo avvolto da una colorata brezza “manchesterina” intrisa di riverberi e chorus per chitarre melodiose accompagnati da una voce angelica, sembrava, di una ragazzina o una bimba, ma, per intenderci, non come Alison Shaw dei Cranes.

Ovviamente, cotanti colori sonori mi distraggono e smetto di lavorare, godendomi il caffè, ebbro del vapore prodotto da queste piacevoli e lattiginose vibrazioni, familiarmente malinconiche.

Mi accingo, dunque, a identificarne la provenienza.

Pensavo fosse una delle tante band inglesi anni 80 che mi sono sfuggite e che mi sfuggono tuttora.

No: niente Europa (avrei potuto pensare, al massimo, la Scandinavia).
 Ragazzini da Toronto.

Si chiamano Tallies.

Sono in quattro: Voce (ogni tanto aiuta con la chitarra), Chitarra, Basso, Batteria.

Si sono conosciuti a scuola ed hanno sfornato un album nel 2019 e quattro Ep fra il 2021 e i giorni nostri.

Hanno appena rilasciato il nuovo singolo “Special”, completamente in linea con quanto sotto!.

Escono e sono distribuiti da: Hand Drawn Dracula in Canada, Kanine Records negli USA) e la nostra amata Bella Union (Spiritualized, Mercury Rev, Flaming Lips... per citare i più conosciuti e banali) in Europa.

Come accennavo, nuotiamo in un brodo i quali ingredienti sono: la schiettezza degli Smiths, le nebbie scozzesi dei Cocteau Twins e la “malincomelodia” dei Sundays (come loro stessi affermano nella loro bio, sul sito ufficiale).

Niente di avveniristico, dunque.. musica derivativa, OK, ma.. semplice, diretta e spontanea. Composta bene in sala prove e prodotta meglio in studio: bei suoni per tutti gli strumenti e la voce: ottimo mix, bel mastering per tutti i dischi che ho ascoltato.

Mi hanno colpito immediatamente, non solo per indiscutibili ancestrali affinità stilistiche, ma per l’evidente spontaneità con la quale sembrano aver appreso ed assimilato il messaggio di quei cari Robin Guthrie, Mike Joyce, Simon Raymonde, Morrissey o, chessò, Harriet Wheeler e compagnia sia suonante che cantante... giusto per fare qualche banale esempio di riferimento.

Melodie timidamente pop propagate con malinconica spontaneità inzuppata di interessanti riverberi, chorus e flanger (ripeto).

Testi mai pretenziosi, ma non troppo “shallow”, ecco.

Il primo pezzo che mi ha colpito (quello del caffè, appunto) è la assolutamente “CocteauTwinsiana” “No Dreams Of Fayres”, singolo del 2021.

Rimettendomi gli auricolari al momento del primo ritornello, sono stato colto dall’impulso di portare indietro la riproduzione fin dall’inizio.

Un bel riff di chitarra, con un bel suono e atmosfera, ripeto, marcatamente Sundays, Cocteau Twins.

Una batteria vera: di una consistenza decisa e non “vittimista, come le spallucce dei tennisti Italiani” (cit.), suonata con la giusta intenzione e misurata potenza, con tutte le frequenze al loro posto.. davvero un suono piacevole e poderoso, per il genere!

(sono un batterista: sono solito a storcere il naso sul suono delle batterie di molte produzioni shoegaze/dreampop, quando “vere”, in quanto, spesso, troppo eteree e con poca consistenza, ma.. oh, son di parte!).

L’incedere dell’accattivante linea melodica mi mette subito di buon umore, tant’è che mi aiuta a trovare il mood e le giuste parole per una difficile mail “diplomatica” ad un collega scomodo.

Questo per sottolineare che i nostri ragazzi hanno trovato la formula per farmi “vibrare” positivamente, perché, in questo caso, ma anche in genere come spigherò in seguito, dimostrano di suonare la musica di certi ambiti, come l’avrei suonata io.

Il testo, che si esprime come da manuale, nel ritornello, è semplicissimo e delicatamente introspettivo: malinconicamente disilluso.

Niente arcane e complicate figure retoriche simboliche.

Niente artefatti o tecnicismi metrici.

Facile da cantare e non troppo imbarazzante per farlo!
 Amo cantare la musica che ascolto.

Buona anche la struttura armonica: accordi leggibili, linea di basso pulita e coinvolgente.
 Una canzone simpaticamente suonabile con la chitarra in due minuti, ma non per questo banale.

Ripeto e sottolineo che li avevo scambiati per una band “antica” in tutto e per tutto.
 Non so se sono chiaro in questo punto, ma ritengo questa caratteristica come un merito da attribuire tranquillamente a questa giovane band.

Seppur in ambito inequivocabilmente derivativo, dimostrano di “essere nati nell’era sbagliata” (nel senso buono) e questo conferisce loro una consistente credibilità d’ascolto.

Naturalmente mi è subito partita la “scimmia” da novità, che non si è ancora minimamente dissipata due mesi dopo e, per uno che si stanca facilmente come me, è già molto!

Compro immediatamente tutta la loro sparuta discografia liquida (abitando a Malta, trovare i loro vinili è piuttosto difficile.. stendo un velo pietoso sui costi di spedizione - NDR).

Sorridente, speranzoso ed impaziente, mi metto in ascolto del loro, per ora, unico album: “Tallies”, uscito nel 2019.

Lo ascolto tutto d’un fiato per due/tre volte, senza che sopraggiunga mai l’istinto dello “skip track”.

L’essenza sonora della band conferma le impressioni del singolo che avevo ascoltato.

I suoni della sezione ritmica su questo primo lavoro sono più marcati ed incisivi e coccolano maggiormente il mio orecchio batteristicamente interessato, riportandomi a certe produzioni dei Ride o dei Teenage Fanclub (quelli iInglesi).

Lo stesso si può dire delle chitarre (una, ma suonata su più tracce) che si confermano importanti, sempre molto gentili, melodiose e assai penetranti sul mix e nella mente.

Potrei dilungarmi in un’analisi di ogni canzone, perché, davvero, tutte meriterebbero un commento, ma per questioni di logorrea, scelgo, con difficoltà, di commentarne solo una oltre alla simpatica “Mother”, dal bel ritmo un po’ motown, da considerare il “singolo” dell’album, basandosi sulla differenza del numero di ascolti rispetto alle altre.

La mia scelta cade su “Easy Enough”, che chiude il disco ed è anche la più lunga: l’unica che supera i 5 minuti e del quale è stato realizzato un videoclip molto 4AD style.

La più nebbiosa e “potente”, con un bel ritornello e, soprattutto, un bel post-ritornello: elemento strutturale che i ragazzi utilizzano spesso e che apprezzo molto, devo dire.

Il talento del chitarrista (Dylan Frankland), anche produttore artistico e sound engineer della band, si conferma nella linea melodica che qui è particolarmente efficace, alternandosi piacevolmente alla bella voce di Sarah Cogan, che, personalmente trovo piuttosto ammaliante e mai virtuosa.

Melodie colorate, “bagnate” da un utilizzo magistrale dei riverberi, mai troppo esagerato, rendendo l’ascolto piacevole e sempre leggibile.

La loro musica è assai in linea coi layout delle loro produzioni che occhieggia, nemmeno tropo velatamente, a certa familiari 4AD, MUTE o Beggars Banquet dei tempi migliori.

Non potendoli vedere dal vivo, mi sono prodigato a cercare qualche loro live (del quale potrò fornire i links volentieri).

Sempre piuttosto composti, ma soprattutto sinceri e appassionati.

Specialmente batterista e bassista (quest’ultimo credo sia cambiato nel tempo): ognuno dei quali è sempre completamente calato nel turbinio proprie emozioni.. persone evidentemente molto, molto timide!

Tutti quattro globalmente molto precisi ma non virtuosi.

Molto coinvolgenti.

Sarah canta molto bene anche dal vivo (cosa non trascurabile).

Suoni sempre ben curati..

Magari avrei gradito qualche variazione in più nelle versioni live delle canzoni rispetto a quelle su disco,

Ma... vabeh, ci sta!

Andrei comunque a vederli volentieri se fossero vicini o in situazioni molto molto comode; certamente non prenderei un aereo apposta per muovermi in caso di loro concerti a Berlino, Parigi o Londra, come ho fatto, ad esempio, per altre band anche “non
enormi“ (come ho fatto ultimamente per Twilight Sad o Calexico - OT).

Forse il look del bravo Frankland, che ho scoperto avere un passato in una band punk- hardcore, a tratti, potrebbe sembrare un po’ forzato, ma alla giovane età ed alla sincerità artistica, IO, perdono tutto, specialmente quando vengo così piacevolmente coinvolto dalle sonorità.

Ripeto per l’ennesima volta: sto scrivendo di una band il cui nome, magari non verrà impresso sugli annali della storia del Rock, ma, sicuramente vibrano di bei suoni ammalianti, colorati e malinconici.

Ottima colonna sonora per le giornate degli appassionati di certe atmosfere vicine alle band e, generalmente, delle case discografiche sopra citate.

Ci si affeziona con facilità, ecco.

Mi è sembrato di conoscerli e di ascoltarli da sempre, che facciano parte del mio imprinting sonoro.

Scoprirli, invece, così giovani, conferisce loro un fascino particolare.

Insomma un ammaliante e coinvolgente “niente di nuovo”.

Non suonano “nuovi” come potrebbero le Wet Leg , magari

(Mah, forse, anche loro, in fondo.. così nuove, nemmeno... diciamo che “osano” di più).

Il“niente di nuovo” dei giovani Tallies, però, è ben suonato, sincero, spontaneo, lucido e nebbioso al punto giusto.

Bravi!

Canzoni semplici con il potere di farsi ascoltare per ore.


Giampaolo Ingarsia

Malta

7 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5eC8BJIxShy2t6Oh3x5Hpx?si=hFJqV_fWRYmku-mzdV4Tiw







giovedì 19 maggio 2022

La mia Recensione: Gang - Ritorno al fuoco

 La mia Recensione 


Gang - Ritorno al fuoco


“La vita è come un ponte: puoi attraversarla, ma non costruirci una casa sopra.”


“Quando un uomo si allontana dalla natura il suo cuore diventa duro.”


Pillole di saggezza dei Nativi Americani.


Le parole raccontano, svelano, spiegano ma non sono null’altro che la coda, i nipoti di infinite verità, stimoli, pruriti di bisogni, atomi, ribelli, il rimbalzo finale di mille scintille che non potranno mai svelare l’assoluto. E tanto altro ancora. Le parole sono prigioniere di decodificazioni e non costituiscono mai lo specchio di interezze multiple, per impedimenti naturali, assolutamente non colpevoli.

Poi c’è Marino Severini e allora tutto viene sospeso: si è davanti sicuramente a una rara eccezione, una serie di cavallette compatte che attraverso l’unione non disperdono nulla di ciò che le ha generate.

Da sempre Autore, da sempre la sua parola è feroce, come un silenzio di fuoco a scaldare i nostri smarrimenti, a rendere misera la nostra arrendevolezza per poterle dare un volo.

E la Musica?

In generale ha perso negli anni la brillantezza, impegnata a inventare nuovi generi, a fare della miscelanza l’unico divertimento.

Dal canto suo arriva Sandro, anche lui con la semplicità: non vergognarsi di nulla, non esasperarsi e cercare l’abbraccio sonoro di altri musicisti per aggiungere colori e lampi. Ed è così che tutti hanno i polsi carichi di gioia nel performare parole fatte di note che vibrano dentro il tendone di un circo, temporale libero, per nulla preoccupato di mostrare che dalla storia si possa ancora imparare e scrivere canzoni autentiche. Conta il messaggio. A prescindere. I due fratelli hanno accolto compagni di scorribande allegre, hanno scambiato la libertà propria con quella di una nutrita schiera di anime intenta a fare di questo album un arcobaleno che con il suo semicerchio ha saputo collegare la curiosità alla espressione artistica.

Un album che è un pranzo completo dove si rischia di fare il bis perché la sazietà non è nel suo dna, piuttosto questa abbondanza stimola ancora di più l’appetito. Una scintillante adunata di strade Americane si sono incrociate con quelle europee, con la storia madre di un folk educato alla bellezza per sostenere versi pieni di riferimenti, sogni, volti dalla pelle crassa di rughe valide, dove l’estetica perfetta non ha avuto accesso, ancora una volta, nella penna di Marino. 

Si sente la volontà di prendere dal cassonetto dell’umido storie rifiutate perché ritenute sporche, con liquidi puzzolenti: i fratelli Severini invece le hanno coccolate, dato loro sguardi interessati e non hanno concesso loro di finire in un inceneritore senza anima.

Hanno portato tutto nella casa della loro intelligenza e gli hanno ridato un senso, una direzione, uno spessore partendo da un intento preciso: la Cultura risiede dove esiste uno sguardo che assorbe e che non giudica. Che ha un grembiule dalle mille pieghe, mille macchie di pennarelli ed un grande sorriso come il benvenuto di un’anima che brinda orgogliosa di fronte a chi preferisce emarginare.

Un lavoro capace di fermare il tempo, di ridare alle storie la memoria, che è la dignità della profondità che si ribella allo scarto, peculiarità di una modernità che i due prendono solo con il contagocce. Con i Gang non si deve cercare la loro identità: si trova la nostra che nascondiamo, affoghiamo, buttiamo. Così facendo nascono punti di domanda continui che sono la nostra fortuna e le storie raccontate diventano la nostra spinta, quella determinazione che era nella nebbia delle comodità. Si può crescere nella discordanza, nella non completa adesione a un pensiero, ma alla fine forse molto di noi si ritrova con un impulso a divenire un ascolto che valuta il senso di uno schieramento. RITORNO AL FUOCO è un ponte che collega antichi valori a quelli nuovi: è una lunga seduta sulla prateria delle possibilità in cui loro hanno affidato al vento il compito di far planare il tutto, il vecchio e il moderno, per una discussione che tenga conto della evoluzione dell’essere umano e pure del suo contrario. Hanno piantato le loro bandiere studiando il cielo, guardando la deambulazione tendente alla caduta di un mondo consumato dall’esasperazione di chi gioisce solo di creazioni consumistiche sterili. Sandro e Marino hanno mostrato il senso dello studio, partendo dalla Natura del mondo per unirla a quella umana. 

Per molti i Gang rappresentano quella lotta continua, quell’impegno sociale così raro da sentire. Ed è vero. Ma credo esista un lato poetico, che non si smarrisce davanti alle ingiustizie, che a loro preme svelare, congiunto a dei valori elevati e sostanzialmente fastidiosi per chi fa del disimpegno la propria  identità. È evidentemente necessario esprimere quel lato, come parte fondamentale per mettere in evidenza un tutto che nulla esclude dallo sguardo…

Questa ultima gemma non è solo un urlo, un pugno alzato al cielo (quello lo sono stati e sempre lo saranno) bensì un goniometro, un lampo, un percorso che setaccia, una stretta di mano alle persone che con l’esclusione muoiono. I Gang si rivolgono a loro ascoltandoli, contano i loro lividi e li mettono in canzoni un po’ per alleggerire le loro tragedie e un po’ perché la musica ancora riesce a far pensare, a fare breccia, a riunire forze apparentemente lontane.

È un cascina piena di gente che lavora RITORNO AL FUOCO, dove tutti raccolgono il fieno, gettano il diserbante nella terra della vergogna, quella umana, sono indaffarati a seminare gli eventi che nessuno mostra interesse a fare propri e, come i contadini che gettano i semi sulla pelle della terra, loro lo fanno con le canzoni, per continuare a raccogliere i frutti. Che possono essere dal sapore dolce così come amari, perché una buona tavola comprende entrambi.

Il futuro di quelle persone è nella poesia che sa sentire la forza nascosta di impeti necessari ma sempre più stanchi e consumati. Un album che ci mette la polvere addosso, lo sputo sulla zappa e il piccone e il sorriso di chi al vento e alla pioggia deve tutto. 

E così arrivano le storie di chi non finisce al centro dell’attenzione: Severini è l’antenna che capta, canta, porta con impeto tutto ciò e lo sbatte sugli occhi di chi ha spento il pudore. Sono canzoni che possono fare piccoli miracoli e quelli umani sono più devastanti perché compiuti da chi è perfettamente uguale a noi. Che fastidio eh? Che dispetto eh? Che coraggio!

Ecco, come un ventaglio dalle mille pieghe e su cui siedono le lacrime di chi ha il sangue amaro, queste composizioni producono aria fresca per il cervello di chi ha spento la luce: là fuori il mondo è sempre più diviso ed egoista, i due Marchigiani con tatto e veemenza, con ragionevolezza e senso dello schifo cuciono la perfezione elegante che si pensa possa solo essere una dote tecnologica, figlia di una produzione priva di ogni propensione al calore. Ma ascoltare questi brani è tornare indietro e avanzare al contempo in un futuro con meno ferite.

Una produzione eccellente quella di Jono Manson, che sembra essere il cowboy con gli amici giusti per fare scorribande nella prateria, salvare i bisonti e non ucciderli. Tutto questo parte da una radice americana antica, che deve molto alla valutazione del talento come uno dei tanti punti di partenza. Vi sono anche bravissimi musicisti italiani, strumenti che non invecchiano, tutto mischiato rendendo l’identità artistica internazionale una festa cosciente, che semina, semina e semina imperterrita. La sensazione è che queste canzoni non abbiano mai una fine, ma che siano trucchi di stregoni di tribù indiane atte a non separare nulla di ciò che la Natura lascia in dono.

Con un suono fresco, arrangiamenti coinvolgenti, tutto sembra immerso in un bicchiere di vino rosso bevuto durante un turno di lavoro per far assentare la fatica.

Non si potrà mai capire del tutto l’infinito elenco di ciuffi d’erba dal color blu che fanno di questo album una notte che abbraccia la coscienza diurna, sino a lasciare alla loro punta il colore rosso, quel sangue che su di loro pulsa di intelligenza e vitalità. 

Non vi è tristezza nelle melodie, tantomeno nei versi: quella che si trova è l’attenzione verso chi sembra piccolo e sporco, con i suoi passi spesso resi sordi. Ai due fratelli questo non sta bene e accendono la torcia, creano una escursione termica necessaria per scuotere i sensi e illuminare questo presente così plastificato e inerme. Ribelle è chi sa dove nascono le brutture e le uccide dando voce alla bellezza che risiede soprattutto in chi è emarginato. Non è solo combat-folk, non vi è manierismo e comodità in questi solchi, c’è una propensione alla ricerca che connette modalità diverse e alle quali loro vogliono dare espansione, per poter arrivare ad essere orecchio e voce. Il loro disco migliore da tanti anni a questa parte perché i migliori non sono i musicisti (i due fratelli e compagnia bellissima), ma il profumo delle vite di quelle anime che il Capitalismo definisce puzzolenti e a cui le canzoni donano una giornata tutta intera da cui ricominciare. Si è liberi quando si capisce di non avere le catene degli altri: questo lavoro sarà un bisonte fermo che insegnerà questo e tanto altro…


Canzone per Canzone


L’ascolto incomincia con un brano che rassicura, toglie ogni dubbio sullo stato di forma della band: LA BANDA BELLINI è la pelle che conosciamo del combo marchigiano, con il loro combat-folk con i valori, le lotte, la storia figlia della strada appiccicata alla loro coscienza.

Si prosegue ed è subito un rallentare, una forma che necessariamente muta: VIA MODESTA VALENTI è la poesia feroce fatta con meno musica, meno strumenti perché tutto è affidato alla semplicità dei sogni con il groppo in gola, con la sua perfetta capacità di unire l’Irlanda alle coste meridionali degli Stati Uniti con una storia tutta Italiana.

Con ROJAVA LIBERO arrivano le lacrime: l’intro è affidata a uno strumento che sembra condurci alla rilassatezza, ma poi è puro rock robusto Californiano, con la sua stella che con il petto petto gonfio reclama la libertà. Un perfetto esempio di strumenti pieni, vuoi per l’organo, per la chitarra blues graffiante, vuoi per la voce di Marino, per le parole che occorre ripetere con convinzione.

AMAMI, SE HAI CORAGGIO è il frutto del percorso dei fratelli Severini: linea melodica ineccepibile, arrangiamenti che colorano il gioco senza regole di un testo che resiste e permette ancora l’innamoramento. Quando essere anacronistici diventa il gancio perfetto per sentirsi normali, con la sezione fiati che regala gocce di poesia sonora.

I Gang sanno come unire musiche dalla faccia felice con testi pieni di graffi, ma che concedono spazio alla fiducia del viaggio: UN TRENO PER RIACE è tutto questo, con i dubbi e i timori, ma un mondo in attesa sarà disponibile alla fine del binario. Il Messico sposta le nuvole alla band e l’accoglie con gioia.

Le orecchie e il cuore ora hanno di fronte A VOLTE: una chitarra semiacustica e una voce iniziano la vicenda di una coscienza che fa a pugni, accogliendo lungo la strada altri strumenti che si affacciano discreti, donando la leggerezza necessaria. Si vive con gli occhi aperti e con le antenne su una storia che è un doveroso filo pieno di domande.

Con il suo quasi Soul, quasi Northern Soul, con il suo vibrare Blues nascosto, EL PEP è il fiato di un uomo che canta sotto le stelle accese: la bellezza di artisti capaci di dare un movimento circolare alla canzone con l’intuizione di una semplicità che racconti come le parole ciò che rimane frizzante conferiscono al brano l’importanza che merita.

Le lacrime si accendono dentro e fuori il cuore: CONCETTA è la storia di un disastro umano che viene consentito, viene illuminato con la voce della poesia, sono parole di ferro verso quei silenzi che gridano ma che il potere blocca, sino a quando il fuoco di una esistenza toglie il disturbo rendendoci tutti sconfitti. Una canzone più dura del pugno del punk, della veemenza dell’heavy metal, perché davanti alla vergogna umana nessun genere musicale può essere perfetto. E chi è attento e sensibile brucerà un poco insieme  a Concetta…

Con le lacrime ancora pulsanti, l’ascolto ci conduce innanzi a DAGO, la sintesi, la summa dei Gang, tutta la lora peculiarità espressa in musica e parole dagli occhi lucenti, per divenire il boato della morte che vuole spegnere il sangue amaro. Una chitarra blues produce un assolo breve ma che assomiglia ad uno sparo, seguito dalla propensione Dark Country/Gothic Americana Folk Noir, per poi tornare nelle conosciute terre folk europee in una canzone assolutamente perfetta per scuotere tutti.

Una cover di Francesco De Gregori diventa la penultima traccia dell’album: una versione che porta l’America verso Roma per una delle vibrazioni in musica più belle che siano mai state scritte. Lo scriba di certo avrebbe preferito un brano nuovo, ma si inchina davanti all’arrangiamento che guarda verso il Mississippi e concede a PAZ un volo splendido.

Il falò dei fratelli Severini arriva all’alba, con un sensazionale crepitio: AZADI è l’ultima fascina, quella che tiene “lontana la paura dal dolore”, un canto quasi spiritual dentro melodie e suoni dalla pelle leggera, che navigano tra le stelle e i tamburi, per un messaggio finale che ci stringe in un abbraccio che difende il senso di questo viaggio dentro la memoria e i suoi confini, per poter liberare il tumulto di considerazioni che generano tensioni. I Gang ci fanno sciogliere davanti al fuoco, con le note e le parole di chi fa dell’arte musicale non una esibizione ma una concreta forma di rivendicazione necessaria. Clamorosa e utile, il congedo da un album che lascia speranze perché sa scaldare e formare un’identità che prima dell’ascolto sembrava sbiadita…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/2J88BBP1Nr1gIG5WAKQzMc?si=kI5GKlLCSRWwvpOV3YwpJg





domenica 8 maggio 2022

La mia Recensione: Banco del Mutuo Soccorso - Banco del Mutuo Soccorso

 La mia Recensione 


Banco del Mutuo Soccorso


Roma l’Antica, la Madre, La Culla, la Sapiente, la Spavalda, la Strega, l’Egocentrica Dominatrice.

Visse e conquistò, conobbe la tristezza nella sua favola sanguigna per poi, inevitabilmente, scomparire un poco dal centro del mondo. Ma continuò a vivere.

Fu il fermento di anni fulgidi, di lividi, di cavalli che tornavano a correre tra le sue strade, di anime con fame e sete di coscienza in fase di aggiornamento a far sì che tornò soprattutto ad essere la madre risorta in quella Cultura che sembrava sfinita, in punto di morte.

Erano gli anni 60, la brina e la brillantina di giovani anime che incominciavano a creare un precedente: compattarsi, discutere, confrontarsi e scontrarsi, ma decisi a non lasciare agli adulti il tutto. Era stata determinata una serie di prese di posizioni.

E nel cuore della Divina Lupa nacque il Banco del Mutuo Soccorso, la band corsara, con il polso fermo, occhi dilatati a creare cerchi e a fare dei dubbi un generoso punto di partenza.

Arrivarono e sconquassarono la noia, le incapacità, la mediocre modestia qualitativa di anime dormienti e dettero impulsi nuovi, dirompenti, efficaci.

Usarono la forza dell’inventiva, della creatività, del trasporto emozionale e del pensiero per dare un calcio ai limiti. Non erano soli: nel mondo e in Italia questo fermento vibrante stava contagiando, senza far correre il rischio della morte bensì il suo esatto contrario, perché c’era un numero crescente di anime desiderose di veder esplorare e di esplorare anch’esse territori diversi.

La Musica come sommatoria di Arti e di studi, di fluidi in cerca di canali mentali con approcci diversi.

Il Banco fu un clamore così capace di stupire che fece crescere la convinzione che non fossero i miracoli, le belle canzoni, i begli album a dare un po’ di sollievo, ma piuttosto un impegno che si specificava nella sonda, nell’antenna, nella libertà di unire il tempo e la coscienza in un fluire di intuizioni, esercitazioni, di luoghi mentali e fisici da scoprire e da mostrare al mondo. La band Romana ha reso la musica una lente di ingrandimento, un manuale che esplicitava, espandeva e non un Bignami, una veloce e inutile sintesi: era giunto il tempo di ampliare i mezzi coscienti, per farli abbracciare con progetti dalla architettura complessa.

L’Italia dei primi anni 70 era bellissima, con i suoi giovani dai mille entusiasmi, le loro lotte, i loro campi da seminare e coltivare dentro delle menti lucide e capaci di accoglienza. La band aveva ottenuto l’interesse, il supporto di persone che studiavano i movimenti barocchi di musiche che cercavano quella nuova forma creativa di provenienza Inglese: il Progressive.

Un matrimonio di saggezze varie più che un incrocio di stili musicali. La forma canzone, la prevedibilità, la fatica di quel ripetere un cliché ormai privo di grandi tensioni venne evitato per creare una proposta di classe, di gran classe, estremizzando ma senza per questo diventare futile. Anzi.

La ricchezza di quei voli entrò nella modalità di brani e di album dalla faccia tonda, ricca, gonfia di tesori pieni di senso, che arricchivano l’ascolto.

Venne il tempo di esordire, di lasciare all’eternità l’uso della propria creatività e il giudizio. Furono sei damigelle dagli abiti pieni di fiori, fango, con le loro storie trasversali, con le lenti pulite di un cannocchiale nuovo di zecca, a consegnare ufficialmente all’Italia una risorsa senza briglie.

Ancora oggi non esiste modo di sintetizzare l’abbondanza, di ridurre i ragionamenti, di poter fermare i sogni davanti a questo primo album che sempre insegna, getta sconforto e al contempo regala sorrisi rassicuranti.

Sei uomini per sei damigelle: universi e contorni a trovare contatto, suites a scoprire l’intensità e la validità di movimenti che si allontanavano dall’inizio del brano per consegnarci il cielo.

Un esempio di come la complessità abbisogna di un approccio lento, di un ascolto con gli occhi sopra la storia del mondo, di immagini che sembrano annebbiate ma che invece mostrano che la vera confusione era l’essere divenuti dei bambocci davanti alla banalità, che è il lato scomodo e fuorviante della semplicità.

Cavalcate e galoppate con sulla schiena personaggi affannati ma liberi, note e suoni a frantumare una fragile solidità che si era fatta pesante e priva di senso. I sei creano storie, linguaggi, messaggi da dover assorbire con respiri diversi in un caleidoscopio non del tutto prevedibile. Sono fiamme, scosse elettriche, tasti, rulli di tuoni, voci che tutte insieme offrono al sangue una linfa nuova, sconvolgente.

Il Progressive non andrebbe definito, il suo stile estetico non vuole parole che devino dalla sua essenza. Si allarga e fugge dai perimetri, dalle forme geometriche, dalle sentenze. Mostra il fianco alla critica ma avanza, contro tutti e a volte anche contro se stesso.

Questo album presenta cambi di ritmo, sezioni varie dentro gli stessi brani ma ciò che è importante è capirlo, non definirlo. E ancora oggi c’è da intendere cosa abbia dato origine a questa carrellata di gioielli senza tempo. Si evidenziano elementi metaforici, l’uso della fantasia come elettrodo, regalando scintille e punti di contatto tra situazioni spesso molto distanti tra loro. Tutto questo conduce alla presenza di elementi criptici che rendono complesso l’intendimento, ma senza per questo motivo annoiare o rendere impossibile il beneficio.

Questa è una musica che parte dalla testa per posizionarsi nel cielo, una musica che diviene fisica come conseguenza ma che non desidera rimanere terrena. Il disco contiene manciate di follia, riflessi di esagerazioni che trovano nello sviluppo un respiro che si gonfia di consapevolezze potenti.

Ascoltarlo è mettere la mente davanti ad uno scompiglio necessario: malgrado una produzione non eccelsa, questo diventa un pregio perché ci lascia il profumo degli anni 70, di una generazione che sapeva creare una serie di bing-bang intellettuali che il tempo non ha sconfitto, non ancora.

Lo studio, la versatilità, l’intenzione di una sperimentazione sensata diede a questo lavoro modo di conoscere mondi bisognosi di espressioni e ascolti. Una danza nella quale le sei damigelle hanno giocato a mosca cieca, a nascondino, a rubare il fazzoletto per far compiere all’album voli in assenza di gravità. Determinante, rilevante, curò le ferite e diede spazio alla bellezza, creò uno specchio fedele delle difficoltà umane del tempo.

È preziosissimo sin dalla sua copertina: è un investimento nel quale continuare a mettere ciò che ha valore, in cui inserire le monete dei nostri pensieri, atteggiamenti, modalità di espressione, facendone l’unica banca che non sfrutta i risparmi.

Le atmosfere mostrano attività ludiche e seriose, nella giostra dei gioielli seminascosti di cui Francesco Di Giacomo dipinge parole sulla nostra pelle piena d’olio.

Musicisti eccelsi a innaffiare l’indole di un insieme che genera dipendenza, trasporto, scuotimenti come indagini del pensiero con la bocca spalancata.

Che dire? Non si può perdere l’occasione di entrare nel giardino di questo mago con le sue damigelle e di esplorarne i frutti…



Canzone per Canzone 


In Volo


Il medioevo è il portatore sano di una damigella che si annuncia: l’inizio dona un brivido sinistro, dove Vittorio Nocenzi mostra la complessità del suo talento, creando un mantello dove il cavallo alato corre impetuoso. Un ingresso torbido che dà subito la misura di un album che scavalcherà la storia e gli stili, dove Astolfo deve decidere se ingannare con false immagini: non accadrà, perché sia queste che le prossime canzoni vivranno di immagini pure e vere. 


R.I.P. Requiescant in Pace


Il cavallo ora corre sul rock del suo tempo con il sudore che gronda dalle dita di Renato D’Angelo con il suo basso facoltoso, la chitarra blues inglese di Marcello Todaro e gli schizzi pianistici di Gianni Nocenzi. La voce di Francesco canta come un raggio di sole con gli occhiali che vedono e descrivono la gloria e il sangue caduto per farlo diventare brividi senza sosta. Si nuota dentro i pugnali che trovano le lance e che feriscono: la musica è un calvario leggero, dai passi sognanti. La malinconia, la forza, la dinamicità dei sei si amalgama in un lato descrittivo immenso degno degli eroi di quel tempo, Led Zeppelin su tutti. C’è modo e spazio per sconvolgere con il finale drammatico, applausi infiniti dentro il Colosseo.


Passaggio


La Psichedelia succhia dal Barocco e si tuffa sulla strada per lasciare il suo odore, in un breve passaggio di settantotto secondi che scuote mentre i secoli si accoppiano su note angeliche e un vocalizzo sacro tenuto quasi nascosto.


Metamorfosi 


Il cielo si riempie di colori, la quarta damigella balla, mentre tutto si fa sperimentale, in una pentola sonora dove troviamo l’immensità del talento dei sei maghi a rapporto con la strategia. 

Dai Deep Purple, ai Led Zeppelin, alle cantine buie di una Londra schizzata, arriviamo a un mappamondo scenico che brilla di avamposti, di idee che fanno del ritmo il signore dalla voce grossa e delle precipitazioni melodiche la scintilla di nuovi percorsi possibili.


Il giardino del mago


Un miracolo complesso che diventa qualcosa di più di grande di una canzone: una performance artistica di livello immenso, dove tutti si mostrano dotati di mani dai poteri incommensurabili, trame fuori dalla  comprensione ma piene di logiche che avanzano ascolto dopo ascolto. Quattro movimenti, quattro praterie a guardarsi da vicino, dove le doti tecniche sono il presupposto di un bagliore che illumina il giardino del mago così indaffarato a creare stratagemmi e illusioni dalla pelle lucida. Il canto, il controcanto, la storia che scivola sulle orecchie incredule, la chitarra e il piano che si fanno spiare dal basso e dalla batteria che diventano complici sublimi: c’è tutto e di più qui. Raggiunta la perfezione, l’incanto diventa storia infinita: gli spazi incontrati sono comete in avvicinamento, le schegge di chitarra e i tasti del pianoforte visitano l’ignoto e si resta sgomenti, in un coma lucido, vigile, ma che non consente movimenti. Quanta preziosità, allora, in questa composizione che mette l’attualità sociale di fronte alla sua collega di qualche secolo prima, in un precisare meticoloso che rende tutto chiaro.


Traccia


Meglio concludere la storia di un clamoroso miracolo con una canzone che non rinneghi i minuti precedenti ma che sia una sorta di memoria, un ribadire l’intensità usando la modalità di farlo in due minuti. Riuscendoci perfettamente. L’impeto, la lezione di scorribande piene di grazia di Paganini e la potenza evocativa di Beethoven fanno da annunciatori a questi tuoni dai canti settecenteschi in una cascata tumultuosa, torbida e magnifica. 


Ale Dematteis

Musicshockworld

Salford

8 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/1JTfLR9dGJp1VFSMoJ1ips?si=Kw8oTdr1S_uUttMde6kq0w






venerdì 29 aprile 2022

La mia Recensione: Auge - In purgatorio

 La mia Recensione 


Auge - In purgatorio


Uno stato di allucinazione che viaggia dentro un tunnel con nove finestre scure: un briciolo di luce appare a quietare la mente sudata.

Questo è l’album di esordio della band Fiorentina Auge, composta da tre canne di fucile col silenziatore, che rovistando negli spazi silenti di anime in tensione termica, compiono il loro viaggio per stendere fogli di carta vetrata dalle piume di petrolio e alghe, lasciando la nostra pelle unta da una bellezza con la febbre costante.

È un volo pindarico e ben organizzato, le tappe si fanno trovare pronte all’amalgama e scattanti come rapite da se stesse, si spostano nel cuore per avvolgerlo tutto.

Sono angeli dalle mani potenti Sara Vettori, Matteo Montuschi e Mauro Purgatorio, capaci di scrivere sin dall’Ep di esordio Magnetic Domain canzoni che erano da me descritte come “taglienti, spigolose, complesse”, cantate in inglese e già capaci di emozionare lo scriba.

C’è stato un cambiamento di lingua nel cantato decidendo che l’italiano potesse meglio specificare le nuove composizioni e direi che la scelta si è rivelata perfetta. Con la produzione di Flavio Ferri tutto si è fatto adulto, fermo, combattivo, energico e devastante, come sa essere un viaggio dentro se stessi. Il musicista e produttore Milanese ha saputo compattare il progetto fiorentino con la sua esperienza e capacità conoscitiva dei propri mezzi e di quella della band per un risultato finale eclatante ed entusiasmante.

Le canzoni sono ipnosi con i freni e l’acceleratore ben sintonizzati, in un lavoro comunicativo esemplare, di grande impatto, capaci di condurre l’ascolto dentro ad una bombola di ossigeno, tra molecole e respiri profondi.

C’è un senso di purezza nell’album che ci rende neofiti, fanciulli curiosi e al contempo smarriti, nel quale questa sensazione non ci lascia timorosi ma incredibilmente spavaldi: si desidera perpetrare l’ascolto come rapiti da unguenti che lisciano la pelle malgrado scariche emozionali continue. 

La miscela tra l’impianto musicale e quello lirico è di sicuro effetto, come disturbi collettivi allineati per lo scuotimento di menti poco allenate allo stupore e alla responsabilità. Sono minuti nei quali la fierezza risiede nelle abilità che sono radici in movimento per fare di noi operai per il futuro, votato con convinzione estrema ad un nostro progetto interiore. Quando si è scossi esiste un grazie da cedere, da fissare nella mente, in questo caso, di questi tre artisti, che hanno stabilito connessioni multiple in un pianeta musicale italiano in notevole fermento, dichiarando la propria presenza ed un posto di assoluto rilievo.

I generi musicali che troviamo sono sapientemente amalgamati e fluttuanti, come anguille nel deserto capaci di sopravvivere creando abbracci come ristori e cascate di acqua per mettere in contatto esigenze diverse. Ed è rock che si tinge la superficie cutanea di grigio e nero, con il post-punk a prendere pennelli ruvidi sino a rendere l’atmosfera vicina a impianti gotici, senza esagerazioni che tolgano quella attitudine positiva che comunque alberga dentro ad un album che non rinuncia ai sogni.

L’amore afferra gli abissi e ci contagia con il metallo più prezioso e l’impressione di uno stordimento che stende le labbra in un sorriso piccolo ma che rende il cielo soddisfatto.

Un esordio significativo e prezioso da approfondire: mi appresto nel farlo consapevole che l’ascolto sarà come giocare con una strega in un giorno di festa…


Canzone per canzone


Questo sentiero di calore incomincia con “L’avvento”, con un iniziale tappeto sonoro riconducibile agli U2 di The Joshua Tree, per poi separarsene e diventare una Desert Rock song con grovigli che a partire dal testo (un dialogo con il Divino, con la fierezza di un disaccordo sul suo ruolo) si prende la musica con spine e sangue sparso per fare di questo pezzo iniziale una bomba lenta ma con effetto micidiale.

Il cantato superlativo apre la granitica “In auge”, che sembra uscire da una cascata Darkwave che strizza l’occhio agli Afterhours scuri come non mai. Perché è proprio l’abisso il piedistallo di questo percorso nevrotico, come la gramigna più libera, capace di soffocare. Qui lo fa con una melodia secca e breve per determinare l’amore, visto da eclissi in libertà non vigilata.


Continua la catarsi con “Cadendo”, un temporale che ci fa cadere, danzare, preoccupare con la sua storia tra sogni e la realtà più marcia. Nel suo essere un micidiale mantra che potrebbe gonfiare le radio, si prova la scomoda sensazione che sia il testo che la musica nascondino una drammaticità in questa nostra esistenza e allora non ci resta che chiudere gli occhi e muovere i nostri corpi, scevri di tutto per poter godere di questo proiettile bellissimo, precipitando…

Ascolti la successiva “Sai” ed entri nelle grinfie di un amore rapace e devastante, con tutto l’album nel mio modo di percepirlo rappresentato da questo brano,   è un flash illusorio che trova giorni ridimensionati dal sentimento più potente, capace di essere creativo come distruttivo. Ed è un saliscendi di suoni come di penitenze, di funi con sangue torbido impresso in ogni secondo, dove la musica si muove acuta e sbilenca sino al fragore per tornare a farsi piccola. Una clamorosa esibizione di classe compatta che lascia brividi nel cervello, ipnotizzando e facendo tremare ogni certezza acquisita.

Chiude il lato A del vinile “Indispensabile”, torbida corsa di una obbedienza e lo fa con la sua robusta propensione Americana, quella che aveva preceduto il grunge, con maggiore snellezza, con una chitarra sibillina che sa cogliere l’incubo, cosa che il protagonista non sa fare: ed è strategico il cambio ritmo, le atmosfere che vivono dentro una matrioska maligna e dicotomica. Saper far coesistere suoni multipli, di decadi diverse, e miscelarli con altrettanti generi differenti è segno di una qualità innegabile e alla fine del brano indispensabile…

Il senso di sorpresa questa volta è dato da una cover che non ti aspetti, ma che nel congegno dell’album funziona perfettamente: diviene come per mistero parte della band che la sequestra mutandone la pelle. Un serpente di rara bellezza che si chiama “Anima Latina” di Lucio Battisti (che amerebbe di sicuro questa trasformazione) apre il lato B come un bagliore che spoglia le paure, ma inietta veleno sibilante con questo flusso di elettronica e rock compattato e sigillato per aggiungere alla band Fiorentina i segni particolari di un fare complesso, sposato alla fascinazione e al corso del tempo. Una rivisitazione che illumina la superficie del corpo lasciando la scia di una bava corrosiva.

“Tu sei me”: un piano inatteso e triste apre la strada ad un proiettile acuto e sbilenco nato per uccidere le illusioni e i ricordi. Si corre nel deserto con chitarre e basso gonfi di polvere e spietate melodie contagiose, dove ciò che è fugace muore e rinasce nella bellezza di questo vapore acqueo che svela ancora di più come i tre sappiano assorbire l’energia per liberarla in una storia sonora amletica e potente.

Ed è tuono: partendo dai primissimi secondi che odorano di The Mission del secondo album Children, “L’ultimo pensiero” è il diario sonoro che scrive la sua direzione con un fare armonioso e lacrimevole, dove i Livornesi Malfunk sembrano resuscitare.

Il cantato è un rasoio melodico che nuota su chitarre come rovi trattenuti, pronti per cadere ed esplodere ma che si trattengono dal farlo. E giunge un fischio sensuale che attira ancora di più la nostra attenzione su un crooning ipnotico per far scemare la canzone dopo aver sudato e conosciuto l’estasi.

Tutto si conclude con la schiena di una duna colma di rock che si chiama “Fantasmi”, con la sua abilità nel variare propensioni e nel gestire pulsioni quasi psichedeliche e donarci una bufera lenta di sabbia. Le voci raddoppiate ad un certo punto sembrano provenire da una antica sessione dei Black Sabbath, mentre le chitarre diventano rivoli che trattengono il calore ed il senso di morte che si aggira sornione tra le note. E sembra una siringa che punge il tempo questo brano, un insieme di crepacci tenuti in vita miracolosamente, dove tutto sembra pronto per congedare la propria esistenza. Ogni cosa scivola e rende evidente che lo stile è il marchio del dna della band toscana che può guardare il mondo con fierezza.


Un album che rivela l’ottima condizione di salute del tanto criticato rock che in questo caso, anche se mischiato ad altri generi, dà la sensazione che la sua attitudine abbia nel suo ventre migliaia di vene pulsanti perfettamente in attività. E quelle degli Auge brillano per intensità e capacità. 



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Aprile 2022

L'album è acquistabile presso la casa discografica Vrec 
















venerdì 4 febbraio 2022

My Review: Wovenhand - Silver Sash


 My review


Wovenhand - Slver Sash


Twenty fingers, two hands, a house and a project that has developed the creativity of two souls facing each other.

No distances to be shortened, no mediations to be found, but a sowing of seeds, each with their own intention, making the ground (the songs) the point where to find a goal and fix a start, made of corrections and reinterpretations.

David Eugene Edwards and Chuck French are two colts without saddle or bridle, two inhabitants of the art world who, with decidedly different projects, have created energy and made it immortal in these 9 new compositions.

The mysticism of Wovenhand is combined with the intense rock side of Planes Mistaken For Stars, of which Chuck French was guitarist and bassist and who also sang with the US band.

An album full of tension, a single body with nine arms, drawing black smiles with poisoned teeth, with lyrics that like raw gold deserve respect and bows. 

A work which turns out to be very different from what we are used to hearing to, a race inside the United States whose face David has always wanted to try to sketch with brushstrokes between stories and truths perfectly embraced and connected. Now everything becomes more bloody and determined, with guitars which know steel, tribal drumming and incandescent words to give us the impression that everything resembles a marking of time with bitterness and a sense of strong conviction that we are already inside a universal judgment which shakes the souls.

A rock side that sounds like a sentence, a sonic earthquake which lands on our losses.

And in the four years it took to be released, the ninth Wovenhand album seems to be a lightning bolt that rips apart everything that had been deposited inside our convictions, showing us a band as if it had been kidnapped from itself to keep its distance from its past.

It's a deep emotion to repeat the listening: everything becomes more lucid and full of consciousnesses that dismantle every hypothesis of happiness, the skin turns out to be heavy and dirty, stained by a propensity towards catastrophe more and more conscious and able to intoxicate every hope, making us wait.

Everything suggests that what is expressed is a leave-taking from the trust in the human being, with Edward's magnetic voice inserted inside the dust, which seems to be distant but instead pulses tremendously to make us slaves, the only point of contact with respect is its being often doubled.

The mix of which Silver Sash is composed travels through an almost unrecognisable neofolk, rock with a black cape, correct and rude punk that spits on its past, hinted and camouflaged Stoner Rock, an Alternative so wide that it mocks its identity, to finally glide to a folk noir almost unrecognisable but present, because you just have to widen the pupils of your ears and you will find it. 

No doubt it's a theatrical performance that moves us but makes us aware. And an infinite applause will make it eternal.


Song by song


Tempel Timber 


An opening that could be deceptive: something from the past here seems to suggest a certain continuity, in reality everything already clashes, an almost veiled feedback lies on the rough, slow but thunderous skin that catches fire. Guitars like rips, chimes to lead us into the gothic American temple.


Acacia


On the theatre stage, initial camouflaged post-rock gives way to electrified and robust neo-folk, in the rush of sheets of metal like swarms without control, with chords that twist to a bare-chested bass, then a dry solo that smells of the 70's to complete the new blow of the sabre.


Duat Hawk


The album's lead single travels within the boundaries we already knew well from 16 Horsepower and then Wovenhand themselves. But everything becomes more choral and disturbing: if on one hand we enjoy a listening close to comfort and a certain dose certainly more catchy, on the other hand the sadness makes us unable to enjoy a musical texture that here is yes closer to what we know, but certainly more terrible and definitive.


Dead Beat


The second excerpt of the album is pure adrenaline, it's an invitation to surrender, Edward's voice convinces us to leave any sense of reason and leads us into the powerful drumming, absorbing us.


Omaha 


Almost as if, in a way, the cliché of the previous song was repeated, we enter even more into a purification rite that, starting from abrasive guitars, ends up in powerful drumming, even if it knows how to stop to give space to the electric wounds.


Sicagnu


The frenzy is confirmed by this sacred and mystic wave, the dilation of heaviness that through a drumming which beats our skin ends up in almost metal guitars. Then comes the musical lull but Edward knows how to hold our breath with his maximum ability to evoke his glorious past with a suggestive finale.


The Lash


The Lash shows the splinters of the storm we just experienced with the first 6 songs and takes us into a sonic middle age, everything becomes tragedy.


8 of 9


Absolute masterpiece, centre of gravity of the album, a classy performance that gives us the shivers with the screeching of oblique and evil guitars, and then everything opens up into the atomic cloud that turns us off, weeping. And it's trauma, time as the sentence of an announced defeat, the song that in the central night becomes fading thunder, and then ends its breath in our now heavy arms.


Silver Sash


Electronic pulses, everything suspended and tense, the end of the album is entrusted to a slow kick that breaks our teeth, remnants of sounds that slowly condense to drive us out from that hiding place in which we were forced to take refuge. Wovenhand discovers and kills us, slowly, with enormous class...


Alex Dematteis

Musicshockworld 

4th February 2022

La mia Recensione: Man of Moon - Machinism

  Man Of Moon - Machinism Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze...