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venerdì 8 dicembre 2023

La mia Recensione: The Churchhill Garden - Dreamless



The Churchhill Garden - Dreamless



Anche gli angeli chiedono aiuto, vuotano il sacco, tendono la mano, si afferrano al non so pur di ritrovare la luce. E se a farlo sono due artisti sempre in stato di grazia, che mai ci farebbero pensare a un momento di difficoltà, ecco consegnata una notizia sorprendente: accade tutto nelle note di questa canzone con il pigiama, una meteora lenta che cerca il rientro nell’atmosfera celeste, nella vita, nella condizione terrena. Sono pensieri che scivolano tra le mani di Andy Jossi, sempre più concentrato ad attraversare gli spazi con le sue atmosfere delicate ma piene di tensioni, rese ubbidienti dal suo inconfutabile talento. E nelle parole e nella voce di Krissy Vanderwoude, qui più che mai una fata dalla faccia triste, raccolta nella sua nuvola, alla ricerca del raggio giusto. Brano strepitoso, un concentrato del marchio di fabbrica del duo svizzero-americano, capace di rivelare come la vera amicizia diventi l’ambiente per una scrittura complice, aderente alla realtà, lasciando il tutto al destino destino di questi quasi sei minuti, nei quali ciò che accade è un grido addomesticato da chitarre in modalità alternative prima, dream pop poi, e infine shoegaze, per circolare nella palude di un testo che sembra privo di ossigeno e che viene interpretato dalla cantante di Chicago con un trasporto che non rinuncia alla delicatezza, ma che questa volta comprende gocce di amare lacrime. Senza sogni si potrebbe precipitare, musicalmente parlando, in un putiferio sonoro, nella rabbia, o smettere proprio di suonare. Invece…
Invece ascoltiamo sussurri che accolgono momenti specifici degli ultimi trent’anni, raccolti come ispirazione da Andy che poi, nella sua camera piena di artifizi splendenti, cuce sul manico della sua chitarra un disegno melodico che ancora una volta ha il suo stile, riconoscibilissimo. Dal canto suo Krissy lavora come sempre con il gioco delle doppie voci, con il suo angelico respiro che questa volta ha gli occhi bassi ma potenti, con la scorza doverosa che fuoriesce per portare a compimento il suo bisogno: ritrovare i sogni e farli camminare nel suo cuore. Sia la musica che il testo visitano, con classe e leggerezza, l’inferno: nel groviglio di note colme di liquidi in salita verso il cielo, le parole scendono in un'indagine che trova la verità.
La drum machine apre la danza lenta, poi sono le chitarre che si fanno accompagnare da una delicata tastiera e, sempre delicatamente, si arriva al ritornello che scuote con la sua leggerezza, come se fosse una goccia di brina di fronte all’ingresso del dolore. Appena finito, Andy entra dritto come un fuso in un arpeggio straziante e la voce ritorna, per compattare questa poesia invernale nel centro dei nostri ascolti.
Si piange abbracciando questa coppia di artisti e si esce sudati ma convinti che a volte l’arte compia dei miracoli: ci ritroviamo tutti insieme a brindare a questa sincera canzone, umile e che farà del nostro ascolto una benedizione celeste…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8 Dicembre 2023






martedì 5 dicembre 2023

La mia Recensione: Melga - Figli


 

Melga - Figli


Non è ancora venuto il momento di veder scomparire le storie dei rapporti umani, per quanto intossicati, imprigionati e pesanti, perché esiste chi sa vederle, inventarle, raccontarle con classe, precisione e una intimità che corrisponde a un grande rispetto.

Viene da Taranto, da una Puglia meravigliosamente impegnata a lasciare i suoi figli liberi di dare alle creazioni artistiche un senso, un luogo, una innegabile capacità di affascinare e conquistare, dolcemente.

Gaia Costantini, in arte Melga, è una figlia sensibile che compone musiche come se una foglia oscurasse il male e restituisse raggi tiepidi, per scaldare il cuore. Il suo nuovo lavoro è un EP che profuma di sogni, di intenzioni responsabili, della maestria di utilizzare generi che, partendo da uno spirito World, entra nell’entroterra pugliese con abilità, convincendo per via di schemi che riescono a rendere credibili testi scritti davvero con notevole capacità, con il canto che sembra il respiro di una fata in attesa sui bordi di nuvole bianche. Gli archi arrangiati dall’instancabile Marco Schnabl (nonché il produttore, eccelso, dell’intero lavoro) si uniscono al piano e alla fisarmonica di Melga, consegnando agli altri strumenti la completezza di una impalcatura forte e resistente. I ritmi variano, le melodie vengono corteggiate da invenzioni che, nello specifico, fanno divenire cinematografico il tutto, provocando stupore e sorrisi liberi di camminare nella strada delle fantasie più pure. Sono storie che hanno modo di far scorgere il baricentro del bisogno primario, quello dell’amore che parte, raggiunge, disperde, il tutto con il timbro di incontri significativi, decisivi, incontrastabili. Gaia soffia le parole come incantesimi nel tempo in cui la maggior parte dei figli non crede più in essi: si oppone, dolcemente, con grande dilatazione, per consegnare verità e realtà che abbisognano di essere mostrate. E senti tutto questo nei rintocchi di un piano che suona moderno, aggraziato da una vicenda lontana che esprime timidi sussurri, in quanto l’artista Tarantina è ben conscia di quanta non sopportazione esista nei confronti della musica classica e di quella considerata ormai sorpassata e vecchia. Disegna un armistizio, poi un compromesso, per vincere come un'apoteosi ristoratrice che veicola sollievo e riflessione. L’opera commuove, tocca le corde ormai stonate di una esistenza che non riconosce la forza positiva delle relazioni, di quei legami ai quali ci si dovrebbe rapportare con rispetto. Canta come un sogno disposto a scendere nella quotidianità, perché proprio da quella lei fa volare le sue perlustrazioni, indagini concrete e poetiche, inclini alla saggezza. 

Invita, dona, spartisce i suoi averi, ascolta, dialoga con i segni del tempo: Melga abbraccia i lati opposti, dal paradiso all’inferno, seminando la bellezza che mette a disagio solo chi ha il cuore gelido. Ma è proprio la provenienza (quella regione che ospita il calore e la voglia di vivere malgrado grandi disagi) a divenire il primo fattore vincente di cinque gazzelle che corrono nella prateria dei rapporti lasciando, ognuna di loro, una rosa blu nel centro di ogni sogno…


Figli è uno specchio di luce, la porta di un respiro profondo, la libertà cosciente che deve stabilizzarsi negli orizzonti, per raggiungere una salvezza possibile. Musicalmente è una semi-ballad, ariosa, colma di oscillazioni dolci per arrivare a una tenue esplosione minima, incantevole e seduttiva…


Teresa è un dialogo, una carta d’identità mostrata alla vita, con grande semplicità e una modestia umana davvero ragguardevole, con un piano prima tetro e poi divertente, quasi swing, in un'atmosfera che è un velluto in volo in una giornata autunnale. Quasi cabarettistica, piena di incursioni da parte di note e accordi per generare una dolce ipnosi, la canzone conquista per la sua leggerezza all’interno di scrosci temporali resi ubbidienti dalla confidenza di una splendida figlia nata nel 1953…


Qui ed Ora: il ritmo parrebbe sempre pronto a scattare, invece si vive una suspense tiepida, capace di splendide pause, con gli archi a conquistare fazzoletti pieni di lacrime, in una Torino sorvolata da due farfalle che entrano nel pentagramma per disegnare una traiettoria poetica, dalla pelle accarezzata da una struttura solitamente vicina alla musica classica italiana di fine Ottocento. E la fisarmonica inventa frammenti francesi per un crescendo con il guinzaglio: semplicemente, clamorosamente meravigliosa…


Con Cara Margherita, ci avviciniamo ai territori preferiti da Tom Waits negli Stati Uniti e da Davide Van De Sfroos e Vinicio Capossela in Italia. La vita fuma tra le dita, oppure vive nei tasti di un pianoforte, ma in ogni caso porta con sé un ritmo quasi sudamericano, con i lampioni francesi a inquadrare la scena. Ed è la pazzia che vince, fuggendo, rintanandosi in questi versi seducenti e pieni di saggezza.


Il brano che chiude quest’opera è un clamoroso capolavoro, nessuna difficoltà da parte del Vecchio Scriba ad affermarlo: Francesca è un battito d’ali di una poesia crudele che muta la sua pelle e la fa divenire un lenzuolo di lino per accerchiare il dolore. Una lunga proiezione nel salone in penombra di ogni paura permette alla musica di essere cinematografica, maestosa, attraversando modalità diverse, una lunga apnea che, tramite trame fitte di tristezza imbevute di speranza, si tuffa nel testo che rivela forze multiple, per assestare alla sofferenza un duro colpo. Si ritorna nella prateria, si incontrano caratteri possenti come quelli dei lupi, per poi valutare le perdite e le conquiste che vengono tradotte da una musica saggiamente straziante ma con le finestre aperte…


Un lavoro che dovrebbe conoscere l’espansione massiccia nel cielo dei vostri ascolti: complimenti davvero Gaia!



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Dicembre 2023


https://open.spotify.com/album/1CkWdOGM0QaHiukbRDIc0Z?si=oeBNEKsrTMaQfXZwaxaeyg

sabato 2 dicembre 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester


Una bolla può riempirsi di emozioni volute, improvvise, e poi anche sospendere il respiro, vagabondare nello stupore? Se partecipi all’evento musicale dell’anno certamente sì, ed è esattamente ciò che è accaduto nell’elegante Canvas di Manchester, dove sul palco si è assistito a un miracolo generoso: l’unione di modalità, ruoli e approcci diversi alla musica, per un risultato che fa, questa volta, dello shock un beneficio multiplo. L’ipnosi ha toccato le spalle di ognuno dei partecipanti, tranne che di quelle poche persone che hanno preferito chiacchierare, pagando, finendo per disturbare pure Aaron. Ma è innegabile che il risultato sia penetrato negli animi sensibili e votati all’attenzione. Le canzoni scelte dai fan ed elaborate da Joe Duddell in pochissimo tempo hanno modificato l’interpretazione nei confronti di quelle originali: tutto si è trasferito su un altro piano emotivo e sensoriale, con la piacevole sensazione di una nascita notturna dentro i cuori. Struggevolezza, malinconia, tristezza, che sono spesso l’habitat naturale di queste composizioni, hanno spiccato il volo fasciate da un foulard di lino, per poter arrivare, indenni, all’interno dei raggi lunari. Pazzia, tremore, tensione ma mai senso di perdita hanno governato i sedici flussi pieni di magia per ritrovarsi in un’entrata diversa: una catapulta infinita di brividi ha stabilito che questa esperienza potesse creare con la memoria uno strumento infinito colmo di forza e vitalità. I cambiamenti, i ritocchi, la verve di un direttore davvero capace di intuire prima e di portare poi il tutto in uno status intoccabile fa di questa serata la rappresentazione di unioni che sono parti naturali, e di cui si può solo sperare in una continua proliferazione. 

Gli archi, come già avvenne nel 2017, spingono sia verso l’addome che verso la volta celeste consapevolezze nuove, diramando nei sentieri dei pensieri nuovi luccichii. E si è fragili, avvolti da segreti interpretativi che esaltano l’individualità, mentre a pochi centimetri dalla propria persona altre sembrano essere riempite di scuotimenti simili. Su un piccolo palco undici persone hanno avuto la capacità di avvicinare il pop alla musica classica, di annullare eventuali distanze per esaltare il calore, il colore delle note e sintonizzare la passione all’interno di un circuito visitato densamente, e non per caso. La voce di Aaron, molto più attenta rispetto alla settimana scorsa, ha graffiato, fatto conoscere tumulti, spaccando vene e vertebre grazie a una intensità micidiale: come se si fosse accovacciato nella propria intimità e avesse deciso di lasciarla cadere nel microfono. Accordato ai toni grevi di sette musicisti perennemente in uno stato di grazia, di serietà, e pure di responsabilità, il frontman ha fatto scivolare la sua ugola sul tappeto di vibrazioni talmente appiccicate tra loro da far nascere un unico groppo in gola per tutta la durata del concerto. Il via libera al pianto, allo struggimento è stato semplicemente impressionante e devastante: tutte le parole che conoscevamo già a memoria, e che forse avevamo la presunzione di aver capito, questa sera sono state in grado di insegnarci nuovi elementi, sbattendoci per terra, nel caos, nella gioia, nell’abbraccio tra il bianco e il nero di un cielo stellato all’interno del Canvas. Il drumming questa sera, grazie a lunghe pause, ha messo in mostra un'efficacia notevole, perfetta, esaltando anche il basso, per un insieme che ha reso illuminante l’interpretazione: è stato così per ogni brano suonato insieme. Poi, a un tratto, Aaron è rimasto da solo con l’ensemble, ed è stato come prendersi un pugno caldo nel gelido della notte Mancuniana. La lentezza, la densità, l’energia fosforescente è uscita dagli amplificatori per baciare la nostra inerzia, l’immobilità, per produrre un diverso schianto nelle nostre percezioni. Le catene, quelle menzionate in Know The Day Will Come, sono cadute sulla nostra pelle, come un generoso atto liberatorio: a volte nelle contraddizioni si stabiliscono patti di saggezza infinita…


Nella nuova prigione, le ali della agognata libertà si sono trovate ridimensionate, insegnando, sprigionando l'entusiasmo mentre le lacrime bagnavano il pavimento. Quattro delle sei canzoni, che erano state pubblicate sei anni fa, dopo il primo contatto tra la band e l’ensemble, sono state riproposte ma anch’esse modificate, accarezzate e baciate da una nuova idea, attraverso una “vivacità” espressiva che ha donato loro ancora più l’impressione di una drammaticità in estensione.

Le luci hanno veicolato la rara capacità di connessione con le note: fatto che ha impressionato il Vecchio Scriba, che non ha rinunciato a chiudere gli occhi per volare, con precisione, in uno stato di assorbimento più che mai necessario. Il tempo è sembrato uno speleologo lanciato nel cratere dei brani per mettere in luce frammenti di meraviglia continua, con lo stupore in grado di correre nelle vene senza volontà di fermarsi. Il pubblico, entusiasta e inebetito, ha potuto ancora una volta legittimare il proprio amore e portarlo nello spazio di un ricordo dove poter bussare spesso: serate come queste non capitano spesso.
Un’esperienza che mette in risalto anche la fiducia della band di Manchester nel lasciare che qualcuno, esternamente, metta una lampada nel ventre di questi gioielli: se esiste una perfezione questa va cercata negli altri e i quattro lo hanno ampiamente dimostrato. La lotta, l’abnegazione, il limite e il suo opposto hanno stabilito una pioggia di lacrime e riflessioni che hanno generato paralisi e al contempo una “strana” gioia: parole come messaggi francobollate a note che hanno cambiato d’abito sono riuscite a spalancare il raggio d’azione delle nostre antenne consegnandoci la mappa di nuove verità. I sorrisi non sono mancati: durante l’esecuzione di Grace of God Aaron è caduto nell’esitazione, con il sostegno dell’adorante pubblico, per concludersi in un applauso ritmato che ha veicolato un’emozione incandescente: laddove esiste un errore, esiste anche un supporto…
Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife e All the Idols sono stati i momenti più spettacolari della serata, con Block Out The Sun a guardarle dall’alto. Ma innegabile è la qualità dell’intero concerto, un ammasso denso e generoso che ha spaziato nella discografia esaltandone ancora di più la bellezza, la forza, l'intensità per rendere preciso il senso di devota appartenenza alla band. Il lavoro di Joe è da premio Nobel per la letteratura emozionale, per aver consegnato ad Aaron lo scettro di angelo indiavolato ma rispettoso, e per aver consentito ai suoi ragazzi di lasciare un incredibile tatuaggio raffigurante l’arte al massimo livello su quel palco: la storia ha una data, una direzione e un incanto che renderà per sempre quelle catene libere di essere sentite come ali dei nostri sogni migliori…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Dicembre 2023

martedì 28 novembre 2023

La mia Recensione: Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo


Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo

Non ci restano che i miracoli per poter ambire alla salvezza e alla soddisfazione, alla realizzazione di se stessi, a trovare un senso che trasformi il superfluo in un motore che generi petali profumati. Esiste ancora la fortuna da cui attingere energia e spunto, il salvagente che permette di nuotare nello spasmo allucinante della vita. Se volgiamo lo sguardo all’ambito musicale, troviamo un’anima complice del suo tempo, perfettamente integrata in un rapporto con la Natura, come modalità che rifiuta il completo incrocio con il fare umano, godendo di ogni frammento che la sollevi e la lanci in un mantra spirituale. Il suo nome è Umberto Maria Giardini, tornato a deliziare senza avere in sé gioie e sorrisi da dispensare, aperto nel chiuso dei suoi pensieri, dei suoi atti che hanno la pelle rivestita di note e di racconti, ma non permettendo mai di riuscire a definire il mappamondo su cui lui poggia i piedi. Un album che tatua il suo disincanto per le vicende terrene, spaziando nei secoli con personaggi che raccontano le incapacità, gli squilibri, donando la sua sfiducia (ma solo in parte) per un sistema espressivo (quello artistico) che probabilmente lo lascia perlomeno perplesso. Nelle canzoni però esiste un cuore pulsante, una mente lucida che si adopera ancora per non arrendersi. Che sia vero o meno poco importa: come sempre l’artista di Sant’Elpidio al mare non si è risparmiato con la sua operosa generosità, descrivendo, considerando, spargendo semi di incantevole poesia, per offrire una finestra, una palestra, un moto che per alcuni minuti sa essere folgore nel fragore di ogni nostra fragilità. I suoni sono elettrici, svegli, densi, ma sempre affiancati da un manto acustico che buca il cuore, spiazza e inibisce, dolcemente. Perché davvero si ha la sensazione che UMG abbia scritto una serie di addii, che si sia congedato dalla fiducia, abbia rilevato storture e incapacità, ma sempre con una scrittura piena di immagini che non mancano di mostrare la presenza del compositore, o di offrire un’alternativa consolatoria. Ed è ancora l’amore che innaffia il suo orto vitale, come un guscio che fugge dal suo interno per cercare spazio nel cielo. Non un correre via, bensì un camminare tra una serie di sponde che rimbalzano per non far assentare l’armonia di una mente brillante che scrive la vita concentrandosi sul presente, senza distrazioni temporali. Con il supporto di una vera band il disco amplia il raggio di azione della sua scrittura, non legata al nostalgico passato o totalmente devota alle sue preferenze musicali, ma avvertendo la necessità di esplorare orizzonti nuovi, senza però far mancare quell’indole intimista che lo ha sempre contraddistinto. Lui cammina nell’immaginazione e i suoi spartiti sono veicoli di armonici respiri che spesso si posizionano in paesi lontani da quello italiano. Quando la psichedelia si accoppia al folk, Umberto diventa un mago con il cappello di lana all’interno della foresta nera in Germania, intento a fare degli accordi e degli arrangiamenti una serie di pozioni magiche che servono a restaurare la percezione del tempo e dei luoghi. Questo nomade dell’amore scrive un arcobaleno e lo soffia via lontano (come gesto convinto e necessario), partendo dai circuiti della sua profonda intenzione di non dare troppa fiducia alla musica, ma regalando l’ennesimo suo palazzo mentale dentro il fruscio della straziante abilità di dare alla dolcezza ancora una chance. Ed è così che si manifestano incontri dove i suoi confini si fanno molteplici per definire il mondo e il suo opposto, in una forza fisica in cui il bilanciamento propende decisamente da una parte. Si interroga, in un dialogo fitto con la sua coscienza, e lo fa tra le vie di versi che, apparentemente dorati e lucenti, nascondono una vibrazione amara che permea quasi interamente l’album. Fa oscillare il ritmo, il rock è nell’aria senza dover necessariamente scuoterla, dal momento che le favole hanno sempre bisogno di musiche quasi mute. I suoi occhi impastano elementi facendoli scivolare tra le dita per poi giungere alla sua chitarra. Combinare testi e musica facendo sì che non si disperda nulla è una dote rara: Umberto ci riesce in quanto pilota ogni cosa con idee chiare, scrivendo dieci ali che si alzano al cielo per portare il contenuto al sole, per sciogliere ogni velleità e far morire il tutto tra le sue braccia. Perché davvero sono canzoni con il timer: le devi imparare in fretta, in quanto puoi temere che si dissolvano da qualche parte e in qualsiasi momento.
Sono carezze e sberle.
Come un magnete in un giorno di tempesta ti ritrovi a notare i suoi momenti critici con riferimenti elevati, la tendenza a fare della sua voce il termometro di un sentire sempre più in difficoltà. Ma la classe, il talento lo sostengono per non essere un cattivo esempio. Ecco allora uscire dalla sua penna ventagli di luce a irrorare il cervello.
Mostra i muscoli che non sono inclini a generare terremoti, bensì fiumi di percezioni per poterci far vedere come la storia umana non abbia mai cessato di essere mediocre e approssimativa: dagli imperatori ai giorni nostri, dai barbari alle vette fisiche e mentali, tutto è scomposto e non predisposto alla serenità. Sono le chitarre ad anticipare soprattutto il basso e la batteria, ma capaci di un matrimonio sonoro che dia l’impressione che vi sia un involucro dentro il battito di ciglia di parole che guardano in faccia il pudore, rendendolo timido e insicuro. Giardini investe nell’espressione dell’errore, educa per primo se stesso ad andare oltre la tolleranza, scrivendo il destino dei suoi pensieri perché abbiano sempre gli occhi aperti e concede al sonno di non mutare questa sua abilità.
Mondo e antimondo è un acrobatico volo nelle sterpaglie, nei sentieri della storia, uno smistare, continuamente, parole e musica verso il baricentro impolverato di questo affanno quotidiano. I rapporti umani che lui racconta sono complicità multiple con la forza di una bomba atomica ingentilita ma sempre interessata a scuotere, con garbo e delicata educazione.
L’amarezza, il pessimismo, la preoccupazione per le sorti del nostro pianeta non sono svelati o sbandierati, ma sembrano insinuarsi tra le canzoni, con il risultato di un cerchio carismatico ma complesso. La cura è verso il senso, coinvolgendo i dettagli in un percorso che ingloba come una prolungata apnea: la sua voce è il respiro forte di ogni debolezza mostrata, riuscendo a scrivere un album che abbraccia la fede senza invocarla, una smisurata preghiera nel tintinnio degli affanni.
Ora è tempo di nuotare nelle pozzanghere ben vestite di queste estasianti manifestazioni di forza, per poter addolcire il cuore e l’anima…

Song by Song

1 - Re

La preghiera delle zolle, dove tutto viene diviso, selezionato, è quella che consente di iniziare il nuovo album di UMG. Una sonda che esalta e riporta al centro delle pupille la natura e il percorso umano fatto di dominio e cancellazione di una distanza che è stata cambiata. Robusta e malinconica, prende energia dalla corrente della Manica per portarci le illuminazioni dalla terra di Albione, nel pieno degli anni Novanta. Le campane iniziali ci fanno immaginare la vita delle campagne, il sudore, lo sforzo, la chiamata alla spiritualità che passa attraverso i gesti di chi si china verso la terra. Così fa la musica: muove la mente per farla oscillare in una semi-danza, dove la variante è data dall’emozione delle parole che si incrociano con un arpeggio davvero magnetico…

2 - Miracoli Ad Alta Quota

Continua il viaggio della ricerca delle piccole cose davanti alla grandezza dei confini del mondo, salendo verso l’alto con il rischio di cadere. Per farlo, la musica si fa gentile, con un inizio che strizza l’occhio al folk degli anni Sessanta, per coniugarsi poi con un mantello elettrico che sussurra, mai grida, attraverso piccoli tocchi della sei corde. Il cantato assomiglia all’invocazione degli occhi che reclamano spazi solidi e concreti. Quello che aveva creato come Moltheni qui echeggia, sollevando lembi di pelle, facendo illuminare gli occhi, nell’abbandono necessario, con il tempo che mette le sue mani sulle nostre spalle…

3 - Andromeda

Petali di hard-rock e grunge avanzano sulla superficie sonora, rivelando l’amore dell’artista per i giochi d’atmosfera, il dondolare tra una parte più spinta e una più intima, come se i Soundgarden e Mina si incontrassero per fare colazione insieme. Abile nell’usare bene le disgrazie di Andromeda per compararle a quelle dei giorni nostri, Umberto crea la sua macchina del tempo e mette a bordo una storia d’amore che commuove…

4 - La Notte

Immagina Imagine di John Lennon lasciata davanti alla porta di una storia argentata da una scia del vento: Umberto rende rarefatti i suoni per poi aggiungere del catrame, tra i colpi della chitarra elettrica e un drumming semplice dai suoni perfetti, e la sensazione che durante l’ascolto si stia levitando. La partecipazione della crescita di anime in cammino conduce alla consapevolezza: così fanno le note, per un arcobaleno che pare giungere dalla scena cantautorale genovese degli anni Sessanta, come se tutto fosse su una nuvola e l’autore con dolcezza le avvicinasse alle sue pupille. Il solo di chitarra, grigio e malinconico, è la ciliegina sulla torta di una ballad senza tempo…

5 - Le Tue Mani (feat. Cristiano Godano)

L’amore, nella sua fisicità più profonda e ermetica, viene portato all’interno della storia che vede la voce calda e sognante di Cristiano Godano: una bella sorpresa, per un connubio artistico perfetto, data la vicinanza della sensibilità dei due artisti italiani. Presenze e assenze si palesano nel ventre di un testo notevole, con il pentagramma che assorbe una linea melodica che bacia in modo sublime sia la carriera del leader dei Marlene Kuntz che quella di Umberto. Con la stessa sensibilità dei Low e dei Grant Lee Buffalo, il brano circumnaviga la complessità del sentimento più sussurrato del mondo, e stabilisce, all’interno dell’album, che la chiarezza degli intenti passa anche attraverso questa notevole, e mai creduta possibile, novità.

6 - Versus Minorenne

L’alternative apre le braccia di tutti i musicisti coinvolti, per poi divenire una candela dalla luce bassa, che scalda le volontà delle richieste. La voce di Umberto è una frusta, dolce e gentile, che arriva al falsetto sognante, per poi immergersi tra le parole che ancora una volta avvicinano la natura di un bosco al cuore. Con tracce psichedeliche appena sussurrate, il brano rivela ancora una volta come la potenza del cantato non si separi mai da una coscienza lucida, che annette la ragione alla passione…

7 - Nei Giardini Tuoi

Le prime note della chitarra acustica ci riportano all’album di esordio dei Counting Crows: sono scenari che sembrano far vedere una lingua d’asfalto all’interno di un deserto. Poi i Radiohead soffiano note sui palmi delle mani di Umberto, in un'espressione artistica colma di dolcezza e amarezza, nel dondolio della chitarra elettrica che rende l’atmosfera un sogno sulla schiena delle emozioni più vibranti. Tutto qui è uno sguardo, un addio, che rasenta la perfezione con il finale molto vicino agli Smiths…

8 - Muro Contro Muro

Le lacrime si appoggiano sul fazzoletto, un groppo in gola diventa un sordo tuffo al cuore, e ci si ritrova tra le note del pianoforte e quella della chitarra, che si spalleggiano, per consentire alle parole di planare senza esitazione all’interno di una canzone che rivela tutta la sensibilità di Giardini, che qui dipinge verità puntando i fari negli occhi, creando fatica nell’interpretazione, riuscendo a sbigottire, a lasciare una suspense perfida ma magnifica. Il tempo è un crocevia che consegna la volontà di non rinunciare al dolore, se questo significa poter partecipare a un peccato. Il brano più struggente di quest’opera, che abbisogna di una estrema capacità di separare la storia raccontata da quella nostra. Semplicemente la summa di tutta la sua carriera…

9 - Figlia Del Corteo

L’inizio è una confessione amara, un raggio sbiadito dalla consapevolezza di un’autoanalisi severa, mentre la musica è invece una culla che sembra voler far addormentare le ragioni espresse. La parte strumentale, accompagnata da una chitarra che si accinge a separare la realtà dal sogno, è uno schiaffo lento, con gli archi che gonfiano la pelle di acqua salata. Poi il tintinnio della sei corde elettrica ci porta all’interno di un Dream-pop rarefatto, che chiude questo dolore che ha conosciuto la vergogna, per divenire il pezzo con il quale fare di Umberto un rifugio personale…

10 - Mondo e Antimondo

La coscienza interroga chiunque, in quest’ultimo, strepitoso brano, per donare un ventaglio di risposte che siano colme di idee concrete. Una suite divisa in due parti, dove la prima è una favola lenta, raccontata con un vestito che miscela elettronica e psichedelia, per poi sbocciare nella seconda in una ballad piena di sussurri e spasmi, contenuti in un giro di accordi minimalisti e sostenuti da un arpeggio essenziale, rivelando poi la voce come una lama che assomiglia alla vanga del brano di apertura: sono brividi incolonnati, senza sosta. Il titolo fa presupporre opposti che si guardano in faccia, ma la canzone che dà il nome all’album è un congedo dal sogno, un lungo assolo di fasci amari lasciati marcire, con classe, dentro una nuvola musicale che assorbe lacrime e disincanto. Un mantra, una preghiera pagana, un sussurro senza fine, chiude un’opera devastante: non c’è bellezza senza dolore e nessuno meglio di Umberto sa come renderlo concreto…

Miglior Album Italiano del 2023.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, Inghilterra
29 Novembre 2023

L'album uscirà il primo giorno di dicembre del 2023

Potete ascoltarlo qui:


Potete ordinarlo qui:









domenica 26 novembre 2023

La mia Recensione: HUIR - VITAL


HUIR - VITAL

Nella prateria immaginaria di abilità in costante movimento, qualcuno si inserisce dal mondo reale, debuttando con un invito ad adoperare gli aspetti negativi dell’esistenza, quelli che maggiormente si vorrebbero evitare. Sono due pirati coraggiosi, provenienti da Barcellona (Spagna), attenti a portare la loro profondità di intenti all’interno di un circuito sonoro che sa miscelare ombre e luci riuscendo a farci danzare, visitando generi musicali che sembrano uno solo: un miracolo dolce, potente, astuto, svelando intenzioni impressionanti da parte di chi si trova davanti alla prima pubblicazione. Del tutto integrati nella modalità artistica della loro label (Cold Transmission Music), questo combo pare avere la grazia di scrivere un gioiello che stuzzica la curiosità mentre, al contempo, scatena immediatamente i sensi verso una meravigliosa gioia cupa. Le poche note della chitarra rivelano l’approccio darkwave, l’atmosfera pare visitare un’indole elettronica con spruzzate eleganti di synth-pop che regalano scorrevolezza e una gioia strana, particolare, imbevuta di piccoli artigli. La voce e il cantato di Ana Of The Head è una carezza che ci riporta a quella intimità gotica dei primi anni Ottanta: soffice ma, con le parole che escono dalla sua ugola, è in grado di offrire brividi che scuotono l’anima. Dal canto suo, David Solazo è un ingegnere navale che porta la sua creatura in mezzo alle onde notturne spostando le onde con grande maestria. Semi seminascosti di una coldwave malinconica sembrano salire al cielo soprattutto quando la chitarra si assenta e Ana pare rimanere sola: una interessante congiunzione di stili diversi trovano il modo di aumentare il carico emotivo della scrittura. La produzione è affidata a un mago noto, quel Maurizio Baggio che conosce perfettamente il modo di arricchire le capacità degli artisti per un risultato che è evidente: saper essere soggiogati con infinita classe nei centonovantacinque secondi del brano, mentre si ha l’impressione di trovarsi all’interno di un circuito mentale nel pieno delle sue riflessioni. Il mistero, la luce, il ritmo, le intenzioni volte a un lavoro di seduzione mistica fanno di questa canzone un abbraccio speranzoso verso l’EP in arrivo nel prossimo anno. Riescono nell’intento di farci godere delle nostre esistenze e lo fanno buttandoci dentro la pista a cielo aperto di un oceano che porterà questa fiamma a illuminare una nuova parte di tutti noi. Semplicemente riuscita questa intenzione e possiamo dare il benvenuto a una nuova, seducente e capace, coppia artistica.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford,

26 Novembre 2023

https://huirbanda.bandcamp.com/track/vital

mercoledì 22 novembre 2023

La mia Recensione: JOY/DISASTER - HYPNAGOGY


 JOY/DISASTER - HYPNAGOGIA


Dio mio: quanta bellezza, quanta ricchezza…

Il vento delle mancanze e delle approssimazioni viene spazzato via da una rosa cilindrica contenente undici esplosioni emotive che fanno aggrovigliare lo stomaco e sublimano i sensi, in una corsa dove tutto viene lasciato alle spalle, con il futuro che si appresta a benedire questa fluorescenza piena di artigli e deliziosi pugni in volto. Tutto accade grazie a una formazione che da tempo semina prodezze e che con l’ultimo lavoro HYPNAGOGIA raggiunge la perfezione artistica, senza sbavature, offrendo un campionario artistico di enormi dimensioni, vuoi per il contenuto, vuoi per la forma, perché in entrambe le situazioni il loro ventaglio è solido e allontana ogni dubbio e incertezza in chi potrebbe essere scettico. Invece la freschezza, la possenza della struttura, le diramazioni, la vivacità con la quale il nero e il grigio si approcciano al sole della vita fanno spalancare la bocca: ci sono prodigi che vanno sostenuti ed è questo che bisogna fare. Compie diciotto anni la band di Nancy ed è proprio il caso di dire che con la maggiore età questi uomini, che baciano la vita con in bocca ortiche, rovi e rose blu, hanno conquistato una maturità avvolgente, spiazzante, attraverso un mare agitato di frecce, con i suoni che raccontano ancora prima dei riff e della successione degli accordi e delle trame melodiche.
Sin dal roccioso esordio, nel lontano 2006, con JD, il Vecchio Scriba ha visto espresse le doti di un insieme poliedrico, tagliente, capace di fiondarsi nei terreni della ricerca per poter governare i palpiti di una molteplice necessità di esprimere esigenze che dovevano emergere. Con il successivo Paranoia tutto era chiaro: la calamita era stata depositata per sempre nel nostro cuore. E poi un crescendo senza possibilità di arresto…
Ma veniamo a questo ultimo sussulto, il nuovo lavoro, che rimarrà per sempre nel bacino di ogni desiderio.
Impressiona la profonda partecipazione al delirio umano senza che la band rischi di sporcare l’anima: l’impresa è quella di entrare nella realtà e non di osservarla da lontano, rendendo il tutto credibile, per un gioco sensuale di umori, odori, descrizione della psiche umana che rende esterrefatti. Inclini all’indole Post-Punk sin dagli esordi, indossano la fluida veste di un Guitar Rock che avvolge la sezione ritmica per esaltare, attraverso incastri continui, il loro intuito e desiderio di completare ciò che un unico genere musicale non consente di fare. Ecco, allora, una musica che graffia, assorbe, reclama ascolti attraverso incantevoli fraseggi, peripezie umorali, seminando detriti maniacali intensi, destrutturando la convinzione che si sia già detto tutto. Robusta è l’opposizione da parte loro, ed è un’azione compiuta attraverso un martellamento ritmico e melodico, che inghiotte ogni ritrosia e sviluppa l’oceano di riflessioni che si impastano alle lacrime.
La determinazione nel trovare uno stile ed erudire la nostra ignoranza è un satellite sanguigno, privo di veleni ma denso, come una lingua d’asfalto. Per fare questo, ogni singolo brano favorisce il perfetto abbraccio tra melodie gonfie di spine e ritmi che evidenziano una concreta abilità nel prendere distanze da chi alimenterà paragoni e rimembranze. Loro scartano, con grande orgoglio, questo rischio e tracciano il cielo musicale con traiettorie colme di novità, senza negare un impianto storico che ha suggerito ma non determinato la modalità espressiva.
Il maggior artefice di tutto questo ben di Dio è Nicolas ROHR, un illuminista della gravità pulsionale, il mago francese che incide sul pentagramma con una chiave di violino posizionata sul cuore. E, quando le sillabe escono dalla sua gola, si precipita nel cuore di ogni tensione nervosa… Sebastien MASSUL è il pilota del ritmo, dalle bacchette fosforescenti e le braccia possenti, ma melodiche quando occorre, per dare alla batteria un ruolo poetico e robusto. Simon BONNAFOUS è la seconda chitarra della band, un angelo dal mantello pieno di gocce di sangue che distribuisce pugni gentili. Soupa RUNDSTADLER è un magnete delle quattro corde, capace di rendere la terra un sisma continuo, e i suoi colpi sono frustate che rendono la pelle un brivido continuo.
Come una sala operatoria nella quale l’intervento consiste nell’estirpare il cancro, così i quattro artificieri francesi si accaniscono sul corpo esanime della vita per eliminare quintali di sporcizia: intervengono con la mano ferma, decisa, scartavetrando tutte le impurità, per restituire dignità e sollievo. Queste canzoni sono terapeutiche, rovistano nella storia umana e proiettano i loro talenti dentro le nostre vene. Il cantato, in inglese, è sicuro, i testi scritti bene e la modalità vocale è uno specchio, preciso, di come i pensieri e i sentimenti possano stabilire un’unione perfetta.
Tutto è solidale, convinto, come un matrimonio buio che si inoltra nelle viscere dei comportamenti: le liriche sono spavalde, dirette, concentrano l’esperienza umana dove la paura non è permessa ma la toccano, riuscendo nell’impresa di uscire vincitori. I rapporti umani sono pieni di descrizioni nelle quali sogni e promesse sono un tappeto di guai che loro tendono a compattare verso uno scioglimento liquido, riportando la verità di ogni mediocrità davanti a uno specchio che suda e trema.
L’energia che producono è un regalo divino, che scuote ma al contempo indirizza a utilizzare meglio il tempo che si ha a disposizione, perché sono riusciti a dare una lezione a migliaia di band fossilizzate su pochi, spenti, boriosi schemi, rinfrescando la musica tutta: non disperdete questo miracolo possente. Ora è tempo di navigare dentro queste alghe infettate di bellezza irresistibile…

Song by Song

1 - Celebrate

Celebriamo, eccome se lo facciamo, la canzone che apre l’album: su un inizialmente lento e malinconico avvio, i quattro riescono poi a fomentare gli animi e a lanciare, progressivamente (grazie a un basso insanguinato), il tutto dentro un riff ipnotico e il cantato melodico ma baritonale. Il testo è una funzionale invettiva contro un interlocutore che spreca il suo regno, nel tempo del cambiamento che soffoca ogni sogno. L’assolo è ruggine che esplode e il drumming una fucilata…

2 - Fear

Struggente esibizione di una relazione in fase decadente, tutto viene orchestrato per essere un mantra tribale, con la volontà di dare all’indie rock la possibilità di flirtare con il post-punk. Le lacrime raccolte nelle ombre celebrano il coraggio di un brano che esercita una fascinazione continua, con il dualismo energetico di chitarre che spavaldamente rendono queste emozioni come un’anguilla che sfugge alla morte…

3 - Nowhere

La ballad che uccide la verità: quando tutto ciò che si scopre fa affondare l’entusiasmo. Un testo drammatico trova la giusta cornice sonora, per un combo che grattugia ogni velleità, sino a quando la chitarra solista si butta sull’oceano del dolore. Compatta, esibisce una teatralità che rimanda agli umori del primo post-punk, con una scia di morte che spezza gli occhi: siano lacrime preziose…

4 - Sorrow

Si può descrivere un fallimento non proiettando il tutto nel fango della lentezza? I Joy/Disaster ci riescono, con un arpeggio straziante, la ritmica che schiaffeggia i sensi e un ritornello che è una corona di spine. Decadente, elettrizzante, melodica, spoglia ogni capriccio in un pulsare dalle sembianze gotiche, dove però il basso e la batteria ci riportano in un rock che pulsa vita. La canzone che rivela l’ampiezza delle loro abilità.

5 - Whispering to the wall

La fragilità e la pochevolezza umana vengono inchiodate da queste iniziali note suonate da un piano pieno di dolore, poi il brano concede al cantato il palcoscenico per un resoconto amaro ma veritiero. Cupa, tenebrosa, metallica (in quanto tutto ha la parvenza di un uppercut sferrato contro i nostri desideri), la composizione offre il lato migliore di quella lunga fila di band che negli anni Novanta cercavano di riportare la darkwave e il post-punk nel piano della necessità. Qui, i quattro, fanno molto meglio: ossigenano il presente con la loro malinconia e saggezza. Un altro chiodo nella testa…

6 - In the end

Con la stessa classe dei Madrugada, il combo francese scrive un trattato di saggezza, con l’esperienza di dover comparare il reale al sogno, per scrivere un finale diverso. Lenta, capace di essere ossessiva con chitarre quasi nascoste ma che poi, in modo sublime, accompagnano Nicolas in un ritornello che è una scossa elettrica piena di aghi e spine…

7 - Changes

Il tempo, che stagna e non cambia, viene circondato da parole e note musicali che fanno intendere quanto la band sia incline a tenere il piede sull'acceleratore ma con gli occhi attenti. Un sali e scendi, dove il ritmo cambia, rovista tra le nostre gambe, per lanciarci in una danza scomposta, come marionette stordite da cotanta forza in evoluzione…

8 - Wiping tears

Demoni e desideri vivono nello stesso giardino: i quattro alzano il ritmo, riempiono i cannoni e lanciano una bomba, senza aver paura, per sorpassare la mediocrità e scrivere un nuovo, roboante trattato di sudore e verità. Il drumming e il basso sono pistoleri infuocati e desiderosi di fare una strage, le chitarre sono attori dal copione meraviglioso e incandescente e il cantato la ciliegina sulla torta infetta…

9 - Promise

Prendi i Franz Ferdinand e rendili ermetici e trascinanti in una danza piena di spettri: un teatro che si approccia al cabaret, con il ritmo che favorisce il tuffo dentro il vuoto. Semplicemente incantevole, con un corollario gotico che si intravede, per un ascolto che rende le nostre gambe delle ali dorate…

10 - Secrets

Dio mio: quanta bellezza, quanta ricchezza… Tutto dipende dalle decisioni e i Joy/Disaster estendono il discorso in un percorso vitaminico, robusto, lisergico, atomico, rovente, dove alla fine dell’ascolto tutto brucia dentro… Non è presente la negatività, ma l’amarezza dell’esistenza che gonfia le note e rende i nostri occhi fiumi di lacrime in stato gassoso…


11 - Into a dream

L’aspetto onirico ha quasi sempre trovato adesione nelle ballads, in flussi dolci che circondano la poesia. Nell’ultimo brano di questo album pieno di gioielli, invece, si assiste a una esibizione di robusta capacità volta a trasformare il soggetto in un incantevole arpeggio elettrico. Il tutto viene sostenuto da una melodia capace di sbatterci in faccia una serie di parole che, come le note presenti, compattano il bisogno di un addio cosciente di una nuova allucinante dipendenza: come le altre dieci, pure questa canzone sequestra e scarica la sua adrenalina nei nostri inebetiti ascolti…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Novembre 2023

https://joy-disaster.bandcamp.com/album/hypnagogia

lunedì 20 novembre 2023

La mia Recensione: Ethica - Aether



Ethica - Aether

Prendiamo la mente e portiamola nel ghiacciaio Russo, dove le nuvole sono armonici silenzi in avanzamento, e lo spazio un raccoglitore di trame musicali in cerca di un aeroporto mentale. Il passaporto che ci serve deve testimoniare la nostra capacità di separare la realtà e il circolo polare onirico, con quest'ultimo come unico interesse, il protagonista del nostro impegno. Siamo qui per parlare di una band in grado di fare dei miracoli, pressando la storia e facendola divenire un vasto prato sulla pelle nuda del ghiaccio. Trame intense, ritmi coinvolgenti e chitarre in ascesa sono la base su cui si poggia una voce figlia di angeli incantatori.
Provengono da Niznij Novgorod, una città nel cuore della Russia centrale, e non poteva essere diversamente in quanto tutto vibra all’interno di un organo così bisognoso di attenzioni e le loro creature sonore giungono proprio da lì. Sono pennellate di vivaci interazioni con il dominante trasporto di musiche che cambiano la realtà della gravità, per separarci dalla quotidianità e sedersi accanto al suono. Epicentri shoegaze e dream pop consentono la partecipazione di un pop educato al contenimento, riuscendo però a generare coinvolgimento: una vicenda rara, la sorpresa nel constatare vertici e oscillazioni che si baciano per far diventare queste otto canzoni fiumi celesti. Ciò che fa correre brividi piacevoli è la volontà della band di creare intrecci continui, all’interno di traiettorie stilistiche chiare ma sempre disponibili a non voler limitare per forza il loro lavoro in un genere musicale. E così ci ritroviamo spesso con la sensazione di ascoltare una miriade di riferimenti che paiono voler sfuggire alla riconoscibilità, per trovare il sistema di un'identità diversa e rispettata. Un album intenso, veloce, sognante e profondo, con arpeggi, scatti, scie fluorescenti a farci sorridere, intenerire, danzare per poi consegnarci, come dono regale, la sensazione di aver visto la pioggia divenire una raccolta di baci e abbracci. Se è tangibile la loro propensione a connettere gli anni Novanta ai giorni nostri, altrettanto visibile è la loro fabbrica mentale determinata a cercare accorgimenti (una volta si sarebbe potuto ipotizzare la parola arrangiamenti) per lasciare i brani liberi di seguire pulsioni lontane dai confini restrittivi di stili e generi che soffocherebbero queste pulsioni che non sono per nulla adolescenziali. Il suono svela un legame con il mondo, un abitare la distanza dal paese di appartenenza che forse non gradisce questa contaminazione europea e americana. Potrebbero provenire addirittura da un pianeta illuminato da uno stato di grazia indiscutibile. Freschi, dotati di talento, questi ragazzi scrivono una lettera alla Dea della bellezza: canzoni come un bacio dell’anima a un mondo che ha dimenticato di sognare…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Novembre 2023


ALBUM DELL'ANNO 2023 N.3

https://ethica.bandcamp.com/album/aether?search_item_id=2917726266&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2978194855&search_page_no=0&search_rank=2&logged_in_mobile_menubar=true


sabato 18 novembre 2023

La mia Recensione: Born Days - My Little Dark


Born Days - My Little Dark

L’oscurità è la compagna preferita del viaggio del tempo, dall’inizio di ogni forma vivente, perché la sua essenza non necessita dello sforzo della luce e riesce ad assorbire più facilmente ogni forza contraria. Quando è l’arte della musica ad approcciarsi a questo contesto, ecco che è possibile nutrirsi di veementi stupori appiccicati, nel frastuono delle oscillazioni sensoriali che non negano la loro soggezione nei confronti dell’argomento. Incontriamo un’artista americana, Melissa Harris, in grado di sondare, di mischiare le elucubrazioni, di trasferire il conosciuto sulla pelle sguaiata dell’inconscio, per attivare circuiti mentali e sonori nel connubio che esporta la bellezza dal piano ipotizzato a quello reale. My Little Dark è un gioiello all’interno di lenti viaggi nello spazio, partendo dai tratti onirici per finire a quelli somatici, avendo in dote l’indiscutibile capacità di fisicizzare il tutto. Focalizza il progetto e si arma di dilatazioni, sperimentazioni, costruendo cornici e dipinti perfettamente oliati nella sua prodigiosa orchestrazione elettronica, vero traduttore delle sue necessità. Si è sgomenti, impauriti, inteneriti, mai perplessi, sempre desiderosi di questa dolcezza che bacia il buio, attraversando lo scorrere del bisogno che conduce a una metamorfosi senza fine. Non sono canzoni, ma strutture di acciaio prive di stridori all’interno delle nostre tempie, nelle quali abita una forma di gentilezza non prevista ma di cui diventa obbligatorio cibarsi. Melissa disegna le traiettorie del suono per erudirli, attinge da oceani di imprevisti per educarli, plasmando e seducendo per quella continuità del lato espressivo che conduce l’ascoltatore a stabilire una verità ineccepibile: se esiste il concept album, questo ne è la dimostrazione perfetta, precisa, avvinghiando il corpo e la mente in una morsa che non lascia graffi. Netta è la sensazione di entrare in un sogno, all’interno di una navicella spaziale, con il silenzio che spinge a rendere muti i nostri pensieri, affidando l’unico nostro spazio libero al compito di sentire questa voce sintetizzare miliardi di assioni, nel gioco di molecole in cerca di una guida. Allora siano i sintetizzatori, i beats, le trame come lame piene di suspense a determinare uno sconvolgimento che sia eterno. La morte pare un appuntamento galante e interessante, non meno dell’esistere: questi brani tolgono travi, schegge, affanni, e regalano pace senza squilli, trasportando l’esistenza sopra il cielo.
Innegabile l’abilità di far nuotare la musica in una coperta elettrica piena di spugna, con i tintinnii che coccolano e ammantano. Naviga questa incredibile creatura nella storia dell’elettronica, da quella puramente giocosa a quella gioiosa, da quella pragmatica a quella sperimentale, per essere poi determinata nell’esporre il risultato al fine di rendere piacevole la paralisi consequenziale.
Si è sicuramente nutrita di studi, di approcci, i maestri del possibile lei sicuramente li conosce, ma, da alunna impenitente, li ha superati, con questo album che dimostra come la matassa sconosciuta, se scoperta, riesce ad abbattere tutte le gioie precedentemente vissute. Sconvolge, per la sua sapiente dose di sale nelle onde magnetiche dei suoi computer, dei suoi synth, per lo zucchero depositato nella sua modalità del cantato, mentre, quando meno te l’aspetti, lei ti ha già reso dipendente dal suo intento…
Quintali di misticismo, chilometri di lenti a contatto per mettere a fuoco l’invisibile, giochi continui tra l’ingenuità e la saggezza, la conducono ad attraversare diversi generi musicali senza redini né controllo, finendo per farci diventare disarticolati ma perfettamenti consoni al suo obiettivo, che pare quello di smembrare le sicurezze e la noia che possono provenire da quello in cui invece noi troviamo risorsa e affinità. Mette la psichedelia, il Dream-Pop, la Coldwave, la Darkwave nel suo imbuto raffinato per farli deperire, con intelligenza e la giusta dose di cattiveria.
Prende i passaggi immaginifici e li francobolla a quelli reali, nella danza distorta di una confusione spettacolare, sempre con il ritmo che non vuole raggiungere la massima velocità: anche per questo motivo il suo è il coraggio di un’anima forte e consapevole, perché non cerca il successo bensì un’espressione educativa, che sappia, forse, anche essere spiazzante.
Il buio copre ogni speranza, ogni sorriso, lasciando che sia il sommerso della mente a guidare le risorse che la sua musica espone con generosità, spaziando e seminando canzoni come rapine in banca senza proiettili o maschere sul volto: lei precipita nel furto consegnando alla paura una risata, lenta, anestetizzandola. Scrive un miracolo per complessivi cinquantuno minuti: la misura, iniziale, della sua infinita classe…

Song by Song

1 - Enemy

Ed è carillon umorale, nella lentezza che accoglie atmosfere sia dolci che tetre, in un loop su cui la voce vola con il suo nemico, per una tristezza che riceve un clamoroso sostegno: applausi!

2 - My Little Dark

Il volo cresce, in altezza e velocità, sempre però senza affanni né sudori: tutto viene calibrato perfettamente per una torcia elettrica che rende il cielo il figlio di questa carezza che abbraccia, per avanzare una proposta alla morte che qui vive una sfida all’insegna dell'incanto.

3 - Bird Song

Il desiderio di vita Melissa lo mette nelle parole del testo come nella musica: partendo dal cinguettio di una natura ancora vogliosa di presenza, si arriva a una tastiera che tratteggia il cielo, con le corde vocali che si riempiono di tensione elettrica, mentre la melodia è talmente umana da commuovere…

4 - Over Again

“Burn myself over again”: un temporale di intenti trova sede nella spettrale Over Again, una litania laica che invita alla danza ma avendo tutti i sensi all’erta. Una sapiente miscela Darkwave nell’aspetto ma non nel genere musicale specifico, si inoltra nel bacino di una essenziale dreamwave con pennellate di electrowave a definire un brano immenso, sospeso e liturgico…

5 - Dreams

Una passeggiata nel parco rivela particelle di pensieri importanti: viene costruito un cavo elettrico dalla grande tensione, in uno spettacolare setaccio di note versatili e inclini a muoversi nei contorni di un trip-hop che corteggia la neopsichedelia.

6 - How To Disappear

Piovono nuvole nel cuore, con l’impressione che Melissa sappia utilizzare parte della saggezza della musica classica per poi smembrarla e lasciarci un tappeto sonoro quasi semplice, ma che in realtà rivela l’immensa capacità di donare equilibrio tra le varie fasi della canzone.

7 - Ganymede

Forse il momento più solenne dell’album, il sunto delle sue volontà e la manifesta capacità di essere un ago sottile che penetra i sensi. Dopo la parte iniziale onirica arriva l’evoluzione elettronica che offre una drammaticità perfettamente controllata.

8 - Deep Empty (DMT Feelings)

Forse la depressione invade la corsia di questo album: lo fa con parole e musiche giustamente grevi, che paiono figlie di antiche tristezze sfiorate e vissute dai Cure e dai Sound, seppur con differenti attitudini musicali. Ma qui manca, piacevolmente, il fiato…

9 - Destroyer

Il teatro dell’orrore si getta in un testo che scombina i vestiti dei pensieri. Le successioni di un loop energetico e i synth che recitano progressioni pesanti rendono il brano un effervescente inchino in cui la paura sogghigna felice. Clamorosa!

10 - Conscious Conscience

Certi pensieri hanno voci che rivelano verità che sembrano lontane: per concludere l’album l’artista di Chicago percorre minuti come se il lettino di uno psicologo accogliesse la sua più profonda intimità. Si è come avvolti in uno schiaffo lento, ossessivo, con i palmi delle mani che schiacciano lentamente il nostro collo. Mentre la voce sembra liberarsi di tutto e salire tra le braccia delle nuvole…

Un’opera clamorosa che il Vecchio Scriba definisce come il secondo miglior album di questo 2023…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19th November 2023

https://borndays.bandcamp.com/album/my-little-dark


mercoledì 15 novembre 2023

La mia Recensione: The Beatles - Now and Then





The Beatles - Now and Then

Esistono magie che non richiedono spiegazioni, disturbi, nessuna gravità ulteriore ad affondare il senso. Vagano, sfiorano, specificano, rimanendo libere di essere intoccabili. Proseguendo nel tempo una corsa instancabile, precisa, diritta, diretta a farle entrare nell’Olimpo, dove la perfezione regna sovrana. Si può discutere quanto volete su tutto, non su questo evento, perché la canzone pubblicata sotto la sigla The Beatles è tale e va proporzionata a un significato globale che sorpassa il tempo in quanto i quattro sono, senza dubbio, la band più influente, e non solo, di sempre. Sono i regnanti terreni di una bellezza riconosciuta già dalla volta celeste. Più che di un ritorno qui si parla di una operazione di assemblaggi, per poter rendere eterna e infinita la necessità di avere continuamente l’esigenza dell’idea che quel serbatoio dal combustibile prezioso non conosca fine. Che sia stata la tecnologia a favorirne l’ascolto poco conta. Davvero. Il brano è una struggente testimonianza di quanto la semplicità sia stata la scintilla di ogni loro produzione, per arrivare a toccare le emozioni più accessibili, forti, in una adunata indiscutibile. Si piange, ci si stringe alla consapevolezza che il testo, nella sua fluidità, garantisce l’accesso alla comprensione. Che poi non piaccia, non sfiori il cuore non ha importanza: esiste in quanto veicolo di incontri, di messaggi da verbalizzare, di sfrenate corse al suo interno. E perché la morte non appartiene agli Dei.


Come spesso accade con i quattro di Liverpool, la musica è ambasciatrice di delicatezza, di una struggente, percepibile inclinazione nei confronti di ciò che reca dolore, con la voce di John Lennon che sembra bucare le nuvole e cadere in un volo lento verso le nostre orecchie che diventano un abbraccio. Ci sono certezze che abbisognano della giusta modalità per essere espresse e in questo gioiello morbido tutto fuoriesce senza attriti, in un vagabondaggio terreno che raccoglie battiti e pensieri, intrisi di preoccupazioni e dubbi grigi, e dell'emblematica verità che la distanza sia da sempre un problema irrisolto. E niente più dell’amore lo certifica. Un testo che affronta, nello specifico, la relazione con il tempo nel campo amoroso, dove tutto può appannare le forze e le convinzioni. Duecentoquarantotto secondi di una clessidra che smuove, agita, spalanca la sua interezza dentro la nostra fragilità, distribuendo, con il suo incedere morbido, all’interno del nostro esercizio mentale, petali che sembrano conoscere l’immortalità: per farlo, basta considerare che l’ascolto potrebbe essere prolungato, senza tentennamenti. Lo stile degli scarafaggi più famosi al mondo è intatto, non pare vero che abbiano attraversato i decenni di assenza riapparendo come se nulla fosse cambiato. Invece… Dicevamo della magia, ed è tutto vero. L’armonia regna sovrana, gli arrangiamenti, minimalisti, e la produzione non esagerata consentono al brano di avere un posto notevole nel loro percorso. In quale periodo la si potrebbe collocare questa canzone? Anni Sessanta? Settanta? Ora? No: non esiste una risposta per via di questa abilità, sempre incredibile, che rende il loro operato artistico in grado di sfuggire al tempo, precedendolo, per sistemarsi, come un fiore su una roccia, nel luogo della perfezione. E poi: riuscire a rendere reale l’impossibile, e farlo nel modo perfetto, poteva accadere solo ai Beatles. La strofa, il ritornello, abbracciati e convincenti, testimoniano come in pochi minuti si possa essere partecipi di un incanto, irresistibile, di cui abbiamo il compito di beneficiare. Compatta e struggente, trasferisce ciò che non era altro che un demo di Lennon sul pianeta Beatles: che sia giusto, sbagliato, ragionevole, poco serve perché quella formazione musicale va oltre la ragionevolezza, per via del fatto che certi appuntamenti sono immancabili, doverosi, e nulla dovrebbe trovare spazio per mettere ciò in discussione. 

Una perfetta Pop Song che rende immaginabile la sua collocazione all’interno di una valle colma di gente all’ascolto, per rendere possibile l’abbraccio con il cielo. Lenta, veloce a toccare una inevitabile dipendenza, la canzone riassume ed espande le capacità di quei quattro fenomeni, dimostrando che, per quanto la tecnologia abbia agevolato questo processo creativo, tutto proviene da una umanità, da una classe infinita, indiscutibile. Che poi sia un testo che affronta la distanza ad avvicinare e riavvicinare le persone dimostra ancora una volta il loro potere assoluto. Non c’è nulla di nostalgico in questo brano, dato lo spessore. Piuttosto, ed è inevitabile, si sprecherà tempo ad accusare i due Beatles in vita di voler approfittare di questa nuova produzione. Ma l’hanno sempre fatto, tutti e quattro insieme, inondando il nostro cuore con quantità e qualità perfettamente connesse. Non è cambiato nulla. Perché una composizione dei Beatles può rendere una giornata qualcosa di speciale: NOW AND THEN…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16 Novembre 2023

https://www.youtube.com/watch?v=AW55J2zE3N4

La mia Recensione: Man of Moon - Machinism

  Man Of Moon - Machinism Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze...