sabato 20 aprile 2024

La mia Recensione: St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


 St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


C’è una poesia che vola nell’aria, non ha tracce di inchiostro sulla pelle ma note vibranti sulla schiena, in una contorsione che aspira il cielo abbellendo, in modo sorprendente, la scia luminosa di una notte insonne. Un brano che nella sua struggente monotonia rivela ruscelli di splendidi comitati di tristezza, con l’intenzione di esplorare lo spazio celeste contemplante una stella morente. Non ha bisogno di variare, se non nel ritmo che aumenta, con l’ingresso della batteria e un'atmosfera sempre più avvolgente, per coniugare il testo a un insieme di grappoli sonori che, come una voragine liquida, compattano l’universo dei sentimenti.

Come si può fare dell’addio una festa con gocce di roccia di montagna che scivolano in mare? Si scrive Soothing Nights mentre il dolore governa ogni spinta che vorrebbe fare della vita un semplice e impotente ricordo. C’è nell’ascesa del ritmo una modalità che abbiamo saputo ammirare con i Belle and Sebastian, ma in questo caso tutto sembra andare incontro a un destino in cui l’assenza del fiato della canzone ci lascerà nella commozione più totale…

Il quintetto svedese esplora una piuma, gli accadimenti del passaggio del tempo, osservando da una prospettiva che sembra essere quella di una nuvola autunnale: tutto è incline a equilibrare la vena nervosa di un malessere per renderla viva sotto il nostro sguardo, che non può essere niente altro che un applauso con gli occhi lucidi. Markus Hahn con la sua chitarra pennella bollicine, quella di Jimi Sebastian (che è anche la voce della band) è la gemella che ribadisce questa vertiginosa alchemia, e sono coadiuvati dalla nostalgica tastiera di David Lindberg, il basso quasi muto ma essenziale di Mats Skoglund e la batteria semplice ma perfetta di Fabian Ris Lundblad, che è una carezza che mette vivacità e ordine, per fare di questa slavina emotiva un miracolo: se avesse posto nel vostro cuore sorriderebbe di certo…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024

https://open.spotify.com/track/3eky1P2ngoFfbBrmtUBmY9?si=_FeTg6NIRC2Uu_mLqUND9g

My Review: St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


 St. Jimi Sebastian Cricket Club - Soothing Nights


There is a poem that flies through the air, it has no ink marks on its skin but vibrant notes on its back, in a contortion that sucks in the sky, embellishing, surprisingly, the luminous wake of a sleepless night. A song that in its poignant monotony reveals streams of beautiful committees of sadness, with the intention of exploring celestial space contemplating a dying star. It does not need to vary, except in the rhythm that increases, with the entry of the drums and an increasingly enveloping atmosphere, to combine the lyrics with a set of sound clusters that, like a liquid chasm, compact the universe of feelings.

How can one make farewell a party with drops of mountain rock sliding into the sea? Soothing Nights is written as grief governs every thrust that would like to make life a simple, impotent memory. There is in the rise of the rhythm a mode that we have come to admire with Belle and Sebastian, but in this case everything seems to meet a fate in which the absence of the song's breath will leave us in utter commotion….   The Swedish quintet explores a feather, the happenings of the passage of time, observing from a perspective that seems to be that of an autumnal cloud: everything is inclined to balance the nervous vein of a malaise to make it come alive under our gaze, which can be nothing more than a teary-eyed applause. Markus Hahn with his guitar brushes bubbles, Jimi Sebastian's guitar (who is also the band's vocalist) is the twin that reaffirms this vertiginous alchemy, and they are assisted by David Lindberg's nostalgic keyboard, Mats Skoglund's almost mute but essential bass and Fabian Ris Lundblad's simple but perfect drums, which is a caress that brings vivacity and order, to make this emotional avalanche a miracle: if it had room in your heart it would certainly smile...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024


https://open.spotify.com/track/3eky1P2ngoFfbBrmtUBmY9?si=_FeTg6NIRC2Uu_mLqUND9g

La mia Recensione: Healthy God - Poison, healing, poison poison

 


Healthy God - Poison, healing, poison poison


Che meraviglia assoluta è sorprendersi ancora, dopo una vita di ascolti musicali, e provare una gioia così precisa, limpida e fluorescente?

Il tutto è organizzato da un’anima sola, un autore italiano, di Milano, che ha vissuto una trasferta a Londra per tornare a risiedere in Italia, nella calda e accogliente Sicilia.

Quello che ci apprestiamo a sperimentare è un’esperienza che avvolge i sensi e li sparpaglia nel tempo (conoscenza musicale e memoria in questo ascolto sono estremamente importanti), nei luoghi che hanno reso la musica un tempio indiscutibile dove regna la qualità, il valore, il senso di un operare con precisione una mappatura di capacità che tornano sempre utili.

Daniele rincorre gli abiti luccicanti del piacere, perlustra i movimenti del dolore mettendo sopra loro una mano, per proteggerlo, si getta nei corridoi lacerati dei rimpianti e dei rimorsi, stabilisce un contatto sonoro con l’elettronica cristallina e seducente dei Suicide, innesta pillole di post-punk senza esagerare, scrive un trattato di misteriosa psichedelia con maschere di cerone, non tralascia di certo di imbastire un manichino di Alternative per donare attimi di leggerezza nei quali la classe evidente fa schiudere un sorriso, mentre nei dintorni l’urlo delle difficoltà spinge per prevalere. Queste sette composizioni, però, dimostrano un equilibrio strategico, per fare della sua musica un menù completo, digeribile, dai sapori multipli e con la sorpresa finale di riuscire a sentire un profumo intenso dalle note appoggiate su un pentagramma che pare essere stato scritto tra case abbandonate, acciaierie e scorribande psicotrope.

Tutto sembra un’analisi che, partendo dall’essere esplorativa, è in grado di suggerire un’apertura nella quale il conscio e l’inconscio discutono per determinare una realtà che, oltre a essere limpida e precisa, sappia spingere l’attenzione verso una partecipazione diretta da parte degli ascoltatori.

Brani come segnali intermittenti, SOS multipli, corse affannate, villaggi pitturati da una mente consapevole che il paesaggio, per poter essere comprensibile, vada vissuto. Ed ecco che l’artista si butta, con un paracadute che arriva di sicuro dai primi anni Settanta, nelle articolate strutture elettroniche, capace di convogliare beats strepitosi, un drumming fantasioso e potente, chitarre acide che lavorano per sfibrare i nervi della storia inglese, per stabilire il recinto della sua mente fervida e fertile. Si ha la sensazione che siano venti e non sette le canzoni che possiamo ascoltare: un dato che già rivela la potenza di un disco che è un trattore intento ad arare gli ascolti sino a trasformarli in obbedienti granelli di terra.

La voce, il cantato, i testi: da quanto tempo il Vecchio Scriba non sentiva un compattamento del genere, con la capacità di commuovere, preoccupare e far interrogare? Colpisce come la drammaticità si coniughi a una stramba dolcezza, un veleno che pare mutare verso il liquido che può ricordare la fragranza di profumi che sanno stordire.

Il registro è spesso alto, la metodica è quella di paroli brevi, secche, ben pronunciate in inglese, e la sapiente e davvero profonda capacità di divenire un corpo unico con le musiche. Esiste una sacralità in questo disco, un utilizzo davvero effervescente di cambiamenti strutturali che allargano il campo di azione delle possibilità: è come abbracciare un fucile e trovare nella canna proiettili di tipo diverso e, quando il dito preme il grillento, l’esplosione è un arcobaleno in bianco e nero che sfida quello colorato.

Senza esitazioni andiamo a metterci nei pressi di queste fragorose e ben pettinate composizioni, per poterci cibare di un lavoro che mi auguro riesca a incuriosirvi e a dare materia ai vostri impulsi, con l’intento di essere alla fine dell’ascolto maggiormente disciplinati nell’accogliere un album così potente…


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

Un synthpop iniziale in odore di Human League scuote subito la pelle, che con il passare dei secondi si ritrova addosso lacrime di un electropop in fase perlustrativa. È come se ascoltassimo il silenzio sacro di una processione di intenti fuori da un capanno abbandonato.


2 - Can’t Go On Can’t Let Go

La rincorsa del post-punk più sottile, il suo latrato che inquina il sole, ci presenta un brano nel quale la chitarra esibisce con grande intensità la storia del suo sviluppo, con un cantato che, modulato, potente e a tratti sguaiato, impressiona. E quell’arpeggio che si presenta prima del ritornello odora di immenso, come gocce che dalla storia americana dei Television arrivano ai giorni nostri…


3 - White Walls

Si parte dal 1971, l’anno in cui nacquero i Suicide, e si raccolgono per strada chitarre acide, un loop che ossida e corrompe. Poi la chitarra allarga la sofferenza e fa cadere tutti i mattoni di queste pareti bianche pronte a tingersi di grigio…


4 - The Dance

Torna il duo di New York (Suicide) il tempo necessario per mostrare l’inizio di un ululato che pare avere tentacoli di generi musicali compressi, intenti a tener segreta l’origine, in un trambusto che rimane convincente per tutti i centocinquantadue secondi…


5 - Catholic Guilt

Ecco la canzone più intensa e seducente, una estensione di elementi concentrici che abilmente fanno uscire bolle di ossigeno: tutto è qui in attesa di graffi e indagini sonore che smantellano molte convinzioni. Appaiono gli Ultravox, si sente l’operato dei Cabaret Voltaire nel cercare un concetto e definirlo, per poi entrare con il cantato quasi comatoso nella poesia dell’indagine. Il ritmo è una scorribanda, tra altalene e tuffi nel vuoto…


6 - This Is Not A Game

Gocce di noise provenienti dalle balbuzienti labbra dei Liars sono solo il pretesto per scrivere un brano drammatico, dal ritmo sincopato, dai beats minimalisti ma alquanto efficaci, per dare poi alle chitarre la possibilità di generare uno splendido caos stellare…



7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Trecentouno secondi di pura ipnosi, con svariate modalità, all’insegna di un ritmo lento ma astutamente prodigo nel convogliare l’attenzione verso un gioco analitico dove solo la voce sembra voler spaziare tra la dolcezza e la malinconia. La chitarra, uscita da Seventeen Seconds dei Cure, fa da collante a questa strategica dispersione di semi, in un vortice dal climax intenso, travolgente e mistico. Si piangono lacrime di metallo, si vive la frustrazione di dolori che si acquattano come iene in attesa che la nostra debolezza li convinca ad attaccarci…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Aprile 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=clRCrtCtSwWt-Z0fjjGvdQ

My Review: Healthy God - Poison, healing, poison poison


 Healthy God - Poison, healing, poison


What an absolute marvel it is to be surprised again, after a lifetime of listening to music, and to experience such precise, clear and fluorescent joy?

The whole thing is organised by a lonely soul, an Italian author, from Milan, who took a trip to London to return to Italy, to the warm and welcoming Sicily.

What we are about to experience is an experience that envelops the senses and scatters them in time (musical knowledge and memory are extremely important in this listening), in the places that have made music an unquestionable temple where quality, value, and the sense of operating with precision reign supreme, mapping skills that always come in handy.


Daniele chases the shimmering clothes of pleasure, patrols the movements of pain by placing a hand over them to protect it, throws himself into the lacerated corridors of regrets and remorse, establishes a sonic contact with the crystalline and seductive electronics of Suicide, grafts pills of post-punk without exaggeration, writes a treatise on mysterious psychedelia with wax masks, and certainly doesn't neglect to baste a touch of Alternative to give moments of lightness in which the obvious class raises a smile, while in the surroundings the scream of difficulty pushes to prevail. These seven compositions, however, demonstrate a strategic balance, to make his music a complete menu, digestible, with multiple flavours and with the final surprise of being able to smell an intense perfume from the notes resting on a stave that seems to have been written among abandoned houses, steelworks and psychotropic raids.


Everything seems to be an analysis that, starting from being exploratory, is able to suggest an opening in which the conscious and the unconscious discuss in order to determine a reality that, in addition to being clear and precise, is able to push attention towards a direct participation on the part of the listeners.

Songs like intermittent signals, multiple SOSs, harried runs, villages painted by a mind aware that the landscape, in order to be comprehensible, must be experienced. And here the artist jumps, with a parachute that certainly comes from the early seventies, into the articulated electronic structures, capable of channelling resounding beats, imaginative and powerful drumming, acid guitars that work to fray the nerves of English history, to establish the enclosure of his fervid and fertile mind. One has the feeling that there are twenty and not seven songs that we can listen to: a fact that already reveals the power of a record that is a tractor intent on ploughing the listeners into obedient grains of earth.

The voice, the singing, the lyrics: how long has it been since the Old Scribe heard a compact like this, with the ability to move, worry and make one question? It is striking how the drama is combined with a strange sweetness, a poison that seems to shift towards the liquid that can recall the fragrance of perfumes that can stun.

The register is often high, the method is that of short, dry, well-pronounced words in English, and the skilful and truly profound ability to become one with the music. There is a sacredness in this record, a truly effervescent use of structural changes that broaden the scope of possibilities: it is like embracing a rifle and finding bullets of different types in the barrel and, when your finger presses the trigger, the explosion is a black and white rainbow that challenges the coloured one.

Without hesitation, let's get close to these thunderous and well-combed compositions, in order to feed on a work that I hope will succeed in intriguing you and give matter to your impulses, with the intention of being at the end of listening more disciplined in welcoming such a powerful album...


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

An opening synthpop in the odour of Human League immediately shakes the skin, which, as the seconds go by, finds itself in the throes of an electropop scouring. It is as if we are listening to the sacred silence of a procession of intentions outside an abandoned shed.



2 - Can't Go On Can't Let Go

The pursuit of the subtlest post-punk, its howl polluting the sun, presents us with a track in which the guitar displays the story of its development with great intensity, with a modulated, powerful and at times husky vocal that impresses. And that arpeggio that appears before the refrain smells of immensity, like drops that from the American history of Television come to the present day...



3 - White Walls

It starts in 1971, the year Suicide was born, and picks up acid guitars, a loop that oxidises and corrupts. Then the guitar widens the suffering and drops all the bricks of these white walls ready to be tinged with grey...


4 - The Dance

Back comes the New York duo (Suicide) just long enough to show the beginning of a howl that seems to have tentacles of compressed musical genres, intent on keeping the origin a secret, in a hustle and bustle that remains convincing for the entire one hundred and fifty-two seconds



5 - Catholic Guilt

Here is the most intense and seductive song, an extension of concentric elements that cleverly let out oxygen bubbles: everything is here waiting for scratches and sound investigations that dismantle many convictions. Ultravox appear, you can hear the work of Cabaret Voltaire in searching for a concept and defining it, then entering with the almost comatose singing into the poetry of the investigation. The rhythm is a rambling, between swings and dives into the void....


6 - This Is Not A Game

Drops of noise coming from the stuttering lips of the Liars are just the pretext for writing a dramatic, syncopated track with minimalist but quite effective beats, and then giving the guitars the chance to generate splendid stellar chaos




7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Three hundred and one seconds of pure hypnosis, in a variety of modes, under the banner of a slow but cunningly prodigal rhythm in channelling attention towards an analytical game where only the voice seems to want to range between sweetness and melancholy. The guitar, straight out of The Cure's Seventeen Seconds, acts as the glue to this strategic scattering of seeds, in a vortex with an intense, overwhelming and mystical climax. We weep metal tears, experience the frustration of pains that crouch like hyenas waiting for our weakness to convince them to attack us...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 April 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=xdhMhu62TzSJ8AR-SzhsEg

giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 album)



 

David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


Come è buffa la vita, quando riempie il pianeta di esistenze che sembrano avere poca visibilità e poi, immediatamente, le ributta nelle strade dando loro una nuova occasione. È il caso del protagonista di questo scritto, un talento indiscutibile, in grado di creare, con la sua fantasiosa e abile versatilità, due album in uscita contemporanea, quasi per tappare il buco di un’assenza che a parere del Vecchio Scriba sembrava una bestemmia, visto il valore di queste ventuno composizioni totali. Due alberi, due figure paterne, proprietari del percorso di questo artista, dai connotati solo in parte simili, vedono il musicista (chitarrista e bassista) e cantante muoversi tra l’alternative, l’indie pop, il folk più solare, la dance elegante e leggera.

Nel 1989 a Manchester il bassista dei Joy Division formò una band che si chiamava Revenge. Uno dei loro membri, che sostituì l’originale chitarrista David Hicks, è il soggetto di questa recensione. Dopo quella esperienza con Peter Hook i due misero in piedi il progetto Monaco che tanto ebbe successo con il brano What do you want from me, antipasto dell’insieme di attitudini dance che scrissero.

E dopo diversi anni eccoci a parlare dell’esordio come solista di David Potts con gli album The Blue Tree e The Red Tree

The Blue Tree appare come la descrizione di una giornata primaverile attorno a questo albero, con canzoni che volano come uccelli felici di tornare ad abitare in quei luoghi, libere di muoversi con gioia e capaci di contaminare l’entusiasmo con la loro esuberanza giovanile.

The Red Tree pare, invece, un insieme di brani scritti da quegli stessi uccelli con qualche anno in più, dove la maturità si mostra anche con approcci più spigolosi, in cui il ritmo rimane alto ma con maggior decisione nel tracciare il percorso di quei voli. Si ha come l’impressione che si sia nei paraggi dell’autunno, ma con la volontà di avere ancora quei sorrisi che solo la primavera sa distribuire.

In entrambi i lavori la scrittura è sorprendente, scavando nei territori celesti degli anni Settanta e proseguendo nella decade successiva per quanto riguarda l’aspetto di brani eclettici, che fanno danzare. La chitarra, quando si presta ad esibire assoli brevi ma efficaci, dimostra l’intenzione di catturare il senso delle composizioni, perfezionandole ulteriormente, facendoci vibrare e volare con la mente attorno a quei due alberi, che, alla fine dell’ascolto dei due dischi, paiono essere amici di lunga data.

Si riesce a sorridere, ridere, pensare, ballare in un cielo che sembra così lontano da quello di Manchester, per trovare immagini, luoghi e sensazioni che ci mostrano il mondo in lungo e in largo, con il merito di farci salire sulla sospirata macchina del tempo. 

Decisamente un debutto meraviglioso che non deve sfuggire alla vostra fame  musicale, se volete che sia ricoperta di qualità.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Aprile 2024


My Review: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)






David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


How funny life is, when it fills the planet with existences that seem to have little visibility and then immediately throws them back into the streets, giving them a new chance. Such is the case with the protagonist of this piece of writing, an unquestionable talent, capable of creating, with his imaginative and skilful versatility, two albums released at the same time, almost as if to plug the hole of an absence that in the Old Scribe's opinion seemed like blasphemy, given the value of these twenty-one compositions in total. Two trees, two father figures, owners of this artist's path, with only partly similar connotations, see the musician (guitarist and bassist) and singer move between alternative, indie pop, sunnier folk, elegant and light dance.

In 1989 in Manchester, the bass player of Joy Division formed a band called Revenge. One of their members, who replaced the original guitarist David Hicks, is the subject of this review. After that experience with Peter Hook, the two of them set up the Monaco project, which was so successful with the track What do you want from me, a starter for the set of dance attitudes they wrote.

And after several years, here we are talking about David Potts' solo debut with the albums The Blue Tree and The Red Tree

The Blue Tree appears as a description of a spring day around this tree, with songs that fly like birds happy to be back in those places, free to move with joy and able to contaminate the enthusiasm with their youthful exuberance.

The Red Tree seems, on the other hand, to be a collection of songs written by those same birds with a few more years, where maturity also shows itself in more angular approaches, where the rhythm remains high but with more decision in tracing the path of those flights. One gets the impression that one is on the verge of autumn, but with the desire to still have those smiles that only spring can distribute.

In both works the writing is astonishing, delving into the heavenly territories of the 1970s and continuing into the next decade in the aspect of eclectic, danceable songs. The guitar, when it lends itself to exhibiting short but effective solos, demonstrates its intention to capture the meaning of the compositions, further refining them, making us vibrate and fly with our minds around those two trees, which, at the end of listening to the two discs, seem to be long-standing friends.

One is able to smile, laugh, think, dance in a sky that seems so far away from Manchester, to find images, places and feelings that show us the world far and wide, with the merit of getting us into the long-awaited time machine. 

Definitely a wonderful debut that should not escape your musical hunger, if you want it to be covered in quality.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th April 2024


https://davidpottsmusic.bandcamp.com/album/the-blue-tree


https://davidpottsmusic.bandcamp.com/album/the-red-tree-2

 

La mia Recensione: Adrian Borland - Beautiful Ammunition


 

Adrian Borland - Beautiful Ammunition


“Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per piacere agli altri “ - Paolo Coelho


Ci sono anni che assomigliano a delle tempeste, precipitose, vogliose di resettare il sistema Terra, in tutte le sue funzioni.

Nel 1994 uscirono Superunknown dei Soundgarden, No Need to Argue dei Cranberries, Grace di Jeff Buckley e venne registrato l’Unplugged dei Nirvana.

E poi Adrian Borland.

I cantanti di tutte queste formazioni sono anime che ora si esibiscono nel cielo, tra disagi, agi e perlustrazioni per noi inaccessibili.

Se il Vecchio Scriba deve scegliere quali, tra questi  album, hanno saputo miscelare meglio il sogno, la positività, l’ombra, il gelo e il disgelo, il flusso di impeti in cerca di luce, è indubbio che quello dell’ex leader dei Sound sia quello a cui guardare con più profondità, dato l’enorme flusso di elementi che ha reso il suo terzo ma primo vero disco solista quello più vicino al miracolo umano. 

Vi sono segnali di arcobaleno, schizzi di una mente che cerca di riparare i danni di un circuito leso e indebolito da abusi precisi, come sono anche presenti paracaduti, fionde, il sudore di una slavina che nella scrittura della musica cerca uno specchio sincero. Adrian crea un insieme di canzoni con l’intenzione di ripararsi ancora di più dalla disillusione, lui che aveva investito sogni e realtà per portare il suo talento sul palco del mondo. Non aveva fallito, così come i suoi compagni di viaggio che avevano fatto dei Sound dei cavalieri dalla bella divisa ma perdenti. Qui sembra di vedere (finalmente, aggiungerei) uno scrittore in grado di adoperare ponti e riflessi per attingere a generi musicali poco praticati o difficilmente associabili al suo percorso. Coraggioso, epidermico, intransigente, dolce, romantico, non manca di dare pennellate della sua psiche frustata e frustrata, ma con l’intenzione di mettere una candela nei versi e soprattutto nell’impianto sonoro, dove le chitarre semiacustiche prendono il sopravvento e prova a giocare con i cambi di atmosfera, di ritmo, per condurre la sua potente sensibilità nei bordi di una costruzione più pop e cantautorale, sfiorando i sentieri di Leonard Cohen, Tim Buckley e Neil Young. Niente paragoni, ma solo l’intenzione di mettere in evidenza la vera indole di un’anima che cerca di alleggerire le lame taglienti della sua chitarra elettrica e della sua voce, che, in questo lavoro, si attesta su un registro medio-basso e quando cerca il cielo lo fa senza gridare, piangere o intenta a far sentire la mancanza di ossigeno.

Il pronome personale Io viene utilizzato all’interno di una quasi totale assenza di interlocutori, e sembra di trovarsi nel vascello di uno Storytelling pieno di acqua da cullare, curare e spargere lontano da quelle dita che in questo disco preferiscono deviare la corrente elettrica per favorire luoghi in grado di offrire un minimo di serenità. Se si scava all’interno dei testi l’amarezza, la delusione, la rabbia vengono sostituite dall’impotenza, la rassegnazione e una incredibile positività che sbuffa, spinge, vuole emergere e nuotare in quei giorni che paiono costruiti per dare ai suoi piedi una strada più sicura su cui camminare.

Assistiamo a un processo concepito ed eseguito quasi totalmente da Borland, mostrando eclettismo, determinazione e la volontà di quella intimità che in qualche modo si era sempre negato. Rispetto ai primi due lavori senza i Sound questo pare essere un colloquio riservato con una mente che si sgancia dai propri cliché per strutturare nuove ipotesi. Certo, la produzione è vicina alla perfezione, le canzoni, pur non mostrando l’idea di essere inclini alla zona della conquista della massa di ascolti (non ha mai corso il rischio, per dire la verità, e sicuramente è stato meglio così), sembrano affermare una indipendenza, come se il momento dovesse essere storico soprattutto per loro. Ma si ha una strana sensazione: si avverte come le sedici edere siano piene di un veleno dalla faccia ingannevole, come una truffa che il rock non può più permettersi. Adrian cerca di scrivere ballate atipiche, spesso forza il colore del suono, alcune volte impasta la zona acustica e quella elettrica come un clown che gioca, maldestramente (ma solo apparentemente) con il dolore, per poi pentirsene e tirare giù la saracinesca e farle immergere nel solito buio…

Si piange, con una levatura spirituale indenne dallo scorrere del tempo, per sorridere e abbracciare il futuro e poi quella canzone nella quale sembra dipingere un raggio di sole mai visto prima: la porta è aperta…

Ma Beautiful Ammunition è un coriandolo che conosce il modo di perdere i colori, di cadere velocemente, di finire incastrato sotto il tappeto, di appiccicarsi alla pelle, come un piacevole fastidio da cui è impossibile separarsi. Il suo cantato fa flettere i famosi nervi, calcola spazi nuovi, perlustra traiettorie visive inimmaginabili e pare correre lentamente, in un ossimoro doveroso e alla fine straziante.

Niente da fare: la sofferenza non l’ha abbandonato ma gli ha permesso, perlomeno, di alzare lo sguardo e di fargli credere che il presente e il futuro non sono più nemici che si guardano in cagnesco.

Quando i toni si fanno drammatici, la paura ci stringe il cuore, si diventa complici della sua fragilità e le lacrime si mischiano.

Il lavoro più delicato nei testi è accompagnato da graffiti sonori che sembrano lontani dalla drammaticità, ma spesso si nota come nessuno possa rinunciare all’altro: la guerra delle parole, le quasi farneticazioni, i punti più bassi, vengono come redarguiti dal pentagramma che vorrebbe una scrittura svincolata dalla tristezza. Missione impossibile, ma tutto ha rischiato di raggiungere i colori della maschera di Arlecchino. Quanta bellezza, inconfutabile, offre questo esercizio, questa lotta con il tatuaggio di un armistizio, che si palesa nella totalità di un album che non fotografa ma scrive il destino, come una identità postdatata che troverà la sua precisazione e la sua eterna forma dolorosa il 26 Aprile del 1999…

Ora non ci rimane che uscire da quella porta aperta, prendere Adrian per mano e andare a fare una bella passeggiata con questo fiume dalla faccia pulita che, se però ti soffermi a guardarlo bene, nella sua oscena profondità, saprà farti tremare le gambe…


    Song by Song


1 - Re-united States of Love

“Redraw the map, push the frontier back”

Un inizio che sembra un congedo: non c’è nulla di chiaro se non nelle note di una chitarra e di una batteria che cercano di stoppare le parole, ma niente impedisce alla voce, al coro con Vikki Stilwell (presente in diversi episodi nell’album), di tracciare un sorriso…


2 - Open Door

“I’ve felt the darkness of the world, but now I need some light”

Lou Reed si affaccia, come paiono fare i Church e gli Alarm, in una adunata che odora di anni Ottanta, con il canto che cerca appigli nel proprio passato. Incandescente in una giornata di pioggia.


3 - Rocket

“We could blast right of here if you put some thrust in me”

Gli applausi del cielo cercano i polpastrelli di Adrian e la sua ugola: come un racconto di Joyce, tutto pare anelare alla primavera. La chitarra elettrica sembra in odore di e-bow, ma poi scivola in un semi approccio blues…


4 - Stranger in the Soul

“But I don’t feel the pain that loneliness brings”

Uno degli episodi più toccanti di questa anima pungente: scava, annaspa, con una chitarra circolare che cerca di estraniare la solitudine dai suoi fianchi, in un groviglio di emozioni nel quale nulla cambia ma si vuole fingere il contrario. Lo stop and go ci mostra la delicatezza, note quasi spagnoleggianti, e un sole incline a cadere…


5 - Break My Fall

“You’ll break my fall and my heart will never know”

Echi iniziali dei Cocteau Twins vengono immediatamente stoppati dalla voce di Adrian che in modo cadenzato avanza nella trappola della realtà, sgomitando con leggiadria nel cunicolo della depressione…


6 - Station of the Cross

“I can’t relive each moment when I got too close to truth”

Il programming trova l’apoteosi, nuove soluzioni cavalcano la scena, in una veste musicale eccellente e piena di novità. Gli accordi del piano sono baratri, mentre la voce angelica vola nel labirinto sentimentale colorando la fiducia e fermando il dolore…




7 - Simple Little Love

“They took apart your simple heart with their calculating minds”

Il ritmo torna a farsi vicino al Country, con la spinta americana del sogno più famoso del mondo che entra nei versi, per poi catapultare l’attitudine australiana dei già citati Church in una girandola ritmica altalenante…


8 - White Room

“Can’t you see how this splits me then you’ll see how I crack”

I Radiohead hanno saputo trarre spunto, come molte altre band, da questo brano irresistibile e straziante: anche il dolore ha una poesia nel suo baricentro e Adrian l’ha trovata, registrata, esibita, con la musica che sembra uno scivolo che, partendo dall’infanzia, conclude il suo girovagare nella morte…



9 - Past Full of Shadow

“Between the lines you misread the signs”

Quando l’autore di Winning decide di toglierci il respiro non abbiamo scampo: la produzione perfetta conferisce al brano la giusta dose di drammaticità, in un circuito soffocante che brama la pelle bianca di un’anima ormai spenta. Segnali di arrangiamenti e di arcobaleni pieni di pioggia conferiscono al pezzo il premio Nobel per il maggior numero di lacrime versate…


10 - Ordinary Angel

“I tasted grace and got drunk on bliss”

Si corre, i suoni adiacenti al pube, si cade e si rotola nel prato alcolico di un sogno mai così apparentemente libero, con la chitarra elettrica che spinge Adrian verso il registro alto della voce per accarezzare le nubi dove gli angeli lo attendono…


11 - Lonel Late-nighter

“A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry”

Come collegare le ballads degli anni Ottanta a quelle ancora da rodare degli anni Novanta: Borland cerca il ritornello, il cantato che oscilla, per trovare le lacrime libere di sciogliersi. Uno dei momenti più verosimilmente pop dell’intero album: splendido, innocente e crudele allo stesso tempo…


12 - Someone Will Love You Today

“Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile”

Gli U2 saranno gelosi (quelli di Gloria, per intenderci), in quanto Adrian Borland dimostra un talento che gli irlandesi non hanno mai avuto: come passare dall’ironia, alla goccia pop che invoca l’alternative per poi dilagare, con estrema semplicità, in un ritornello gonfio di aria da baciare, sino alle gocce finali di una chitarra in odore di J.J. Cale.


13 - Forgiveness

“But we are full of pollutants”

Arriva l’inverno della mente, i passi si fanno lenti e le ombre cupe, archi camuffati gettano le loro tensioni nel testo che sgomenta ma precisa il percorso di un’esistenza in cerca di aiuto. Quando i due registri di voce si trovano all’unisono non c'è più possibilità di resistere al dolore…


14 - Rootless

“I’ve been sawing through these chains”

Il brano più atipico di questo album, con le sue soluzioni in cerca di approdo, l’inventiva del cantato, una impalcatura che cerca sostegno nel talento. Tutto fugge e probabilmente fa di questo episodio il meno convincente…


15 - In Passing

“These yellow lights are not enough to illuminate this night”

Un arpeggio, un cielo, un bisogno che non trova identità e permanenza: la sensazione è di un doveroso tentativo di mostrare le crepe di una mente che ricorda i giorni passati e si ritrova con i calici vuoti…



16 - Shoreline

“And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don’t you open up and breathe?”

Il momento più alto e toccante è riservato alla fine: chi non piange non ha cuore, non ha passioni…

Si entra nella psiche di un sogno, il contrasto con il rumore assordante della tragedia che imperversa nel calendario e la scommessa di non forzare la mano. Le parole vincono, rubano la scena, e la voce diventa il palcoscenico di un teschio che cade nella sabbia ancora ricoperto di pelle e di battiti del cuore. Quando si plana nel ritornello le lacrime si sono già ossidate…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Aprile 2024


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