sabato 14 maggio 2022

La mia Recensione Gaudi - Theremin tribute to The Smiths

 La mia Recensione 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


I brividi: l’universo che si compatta sulla pelle del cuore per trasferirsi nella storia di un percorso umano. Sono le briciole meravigliose di un infinito impossibile da conoscere, ma accontentandosi della loro forma e sostanza ci si ritrova a sentirsi persone migliori, che è un ottimo inizio.

Nella musica i brividi certificano l’incontro con l’emozione, nascono legami spesso indissolubili, sicuramente per qualche istante al centro del proprio mondo.

E, quando si dà loro spazio, nascono dei Grazie capaci di divenire montagne di bellezza, calamite sulle rocce per rendere stabile un amore.

Gaudi l’ha fatto, in modo perfetto, conducendo lo scriba dentro oceani di lacrime di gioia per il suo generoso lascito: cinque rose sul suo sentire sensibile, il suo mondo più intimo, il suo resocontare un amore infinito, trovano specificazione e validità per la modalità scelta, per il rispetto dimostrato, per l’accuratezza nel non cadere nella banalità di espressione di cover che avrebbero rovinato tutto.

L’amore vero calcola e deve essere attento: da questo è partito l’Artista e ha capito che il duo Mancuniano Morrissey/Marr non può essere riprodotto perché le unicità non si copiano né si incollano.

La sensibilità umana è una antenna capace di captare il mistero, il noto, una complessità spesso poco decifrabile e difficile da decodificare.

Ed è un’antenna particolare quella che ha deciso di usare Gaudi per ringraziare gli Smiths. Per far intendere che la bellezza, l’unicità, la ricchezza della band di Manchester ha caratteristiche talmente specifiche e intense che occorreva un rispettoso accorgimento. Il cantato stupendo  del poeta di Stretford, seppur a volte sbilenco, con delle imperfezioni, è intoccabile. Come lo sono le magie delle dita di Marr. Ha scelto l’unico strumento che potesse contenere tutto questo su un piano strutturale, grazie alla conoscenza pluriventennale e avendo capito che in questo modo avrebbe dato un senso specifico al tutto, non banalizzando ma rendendo ancora più chiara quella unicità di cui ho scritto prima.

Il Theremin è lo strumento dell’anima, lo schiaffo che educa al riconoscimento vero del suono, per la sua altezza e intensità.

La voce ed il violino, così distanti tra di loro, trovano nel timbro esecutivo del Theremin la possibilità di compattare e rendere praticabile un incanto infinito.

Presa la decisione di suonare questo diamante espressivo, dentro di sé Gaudi non ha selezionato le canzoni in modo superficiale: si è rivolto a opzioni che tenessero conto del suo Grazie e delle caratteristiche dello strumento perché tutto fosse impeccabile. Raggiunta la perfezione della scelta dei brani su cui lavorare, tutto poteva concentrarsi verso l’esecuzione che doveva essere eccellente.

Questo Grazie toglie la polvere all’invecchiamento che lo scorrere del tempo causa nostro malgrado: Gaudi ha spruzzato sulle note antichi sentimenti maggiorandoli di intensità. Sia dato spazio allora alla malinconia, al dolore, alla frustrazione, al dolore, con questo clamoroso dispositivo che fissa la bellezza con le spalle verso il muro, quello dell’eternità.

Le rose degli Smiths non sono canzoni, ma appunto le regine dei fiori: cinque regine che Gaudi ha reso altrettanto immortali con la sua capacità visionaria.

L’assenza della voce non viene sostituita dal Theremin, bensì  analizzata e portata su un piano sensoriale: le trame sono state rese figlie non solo della melodia ma anche delle parole, come un pennello che saggiamente non riempie i buchi ma dà senso a ciò che gli gravita intorno. Questo è il vero capolavoro di questo mazzo di rose: riuscire a rendere immortale il cantato del bardo di Stretford, con le spine che la proteggono affinché quelle antenna, suonata in questo modo, compia il miracolo di non offendere.

Ascoltare le rose, quando rappresentano l’amore profondo, diventa un regalo, essere degni del quale deve divenire l’aspetto primario. Imbarazza in modo indiscutibilmente positivo sentire l’anima di Gaudi tremare, sudare, farsi piccola mentre compie un gesto enorme.

Un’opera di questa levatura è da studiare perché ogni goccia che cade su questo ascolto ci aiuta a capire maggiormente la grandezza degli Smiths: questa è la rosa che si vede di più, occorre notarla perché Gaudi ha trovato un modo intimo di riportarci al cospetto della band Mancuniana con maggior rispetto.

Ora andiamo vicino a questo mazzo, con un religioso silenzio interiore, perché la bellezza è pronta a fare di noi un ennesimo piacere e privilegio…


Canzone per Canzone


Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me


Prima rosa.

Scende la nebbia, il volo dei gabbiani si riempie di liquidi amari negli occhi e il devastante piano accoglie il Theremin che, come annotiamo e notiamo sin da subito, partecipa anche nella parte musicale. Ed è innegabile che questa delicata antenna spezzi il fiato e ci porti in dono le stesse lacrime di quegli uccelli. Struggente, figlia di un abisso in caduta libera. Gaudi, supportato da eccelsi compagni di regali, dona alla canzone tutto il significato mentre Morrissey piange con noi…


Please, Please, Please, Let Me Get What I Want


Seconda rosa.

Dove tutto sembra alleggerirsi, per via dell’incredibile talento di Johnny Marr, ecco che Gaudi arricchisce la sinuosità di questa rosa con piccoli, quasi velati arrangiamenti. Il Theremin ci consegna la voce di Morrissey, senza corde vocali ma con le vene piene di un sangue, che cammina sulla rugiada di un desiderio che vuole compiersi. Le oscillazioni sono semplicemente stati emotivi in fervida esibizione.



I Know It’s Over 


Terza rosa.

La Regina della emarginazione, dell’incomprensione, della solitudine più feroce diventa con questo regalo un’onda che sale nel cielo, un turbinio devastante. Gaudi ne ha colto la profondità, non ha attenuato di un grammo la sua intensità e ci concede la bellezza di un abbraccio bagnato di dolore e petali in caduta libera. Il Theremin, che sostituisce il cantato di Morrissey, adopera qui il battito delle ali di quelle gocce in volo per fermarci il cuore…



Asleep


Quarta rosa.

Il groppo in gola sotterra ogni tentativo di felicità: Gaudi tra le sue dita mette quarant’anni di devozione e tutto ciò ci conduce nella polvere notturna di battiti di ciglia nervose ed egoiste. La canzone degli Smiths qui esalta la parte del testo e fa della musica una coperta di lana merinos attenta a non farci avvertire cambi di temperatura in un cuore impegnato a tremare.



Well I Wonder


Quinta rosa.

Portate ossigeno e coraggio di vivere: Well I Wonder, in mano al Theremin, è un infarto portatile che attraversa il corpo per paralizzarlo. Non è più un’antenna, non sono più i palmi e le dita di Gaudi a tradurre ma a rendere reale l’annaspare con l’aria che ci abbandona, ci frantuma, ci indica la via di uscita da questa esistenza. 

Il talento qui diventa incontrollabile e queste onde sonore vanno oltre la comprensione umana: dilatano i passi ed è impossibile non ricordarsi di questa rosa che, mentre camminiamo, sotterra la nostra forza perché le gambe cedono.

E l’atto finale di ciò che siamo è l’ascolto di un fiore che il 20 maggio 1982 nacque e che quarant’anni dopo ancora vive, in quanto quella sua luce non se ne andrà mai…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Maggio 2022

https://gaudimusic.bandcamp.com/album/theremin-tribute-to-the-smiths?fbclid=IwAR2qrsX5HUb9TidjAtiVGLUm2U3Le-hUrhPB99s7aS9JMXi-pqNQZGdqwnk



My Review: Gaudi - Theremin tribute to The Smiths

My Review 


Gaudi - Theremin tribute to The Smiths


Shivers: the universe that becomes compact on the skin of the heart to transfer itself into the history of a human journey. They are the marvellous crumbs of an infinity that is impossible to know, but by being content with their form and substance one finds oneself feeling like a better person, which is a really good start.

In music, shivers certify the encounter with emotion, often indissoluble bonds are born, certainly for a few moments at the centre of one's world.

And, when you give them space, some Thanks are born, capable of becoming mountains of beauty, magnets on the rocks to make a love stable.

Gaudi has done this, in a perfect way, leading the scribe into oceans of joyful tears for his generous bequest: five roses on his sensitive feelings, his most intimate world, his account of an infinite love, find specification and validity for the method chosen, for the respect shown, for the accuracy in not falling into the banality of expression of covers that would have ruined everything.

True love evaluates and must be careful: the Artist started here and he understood that the Mancunian duo Morrissey/Marr cannot be reproduced because uniqueness is impossible to be copied or pasted.

Human sensitivity is an antenna capable of picking up the mystery, what is  known, a complexity that is often difficult to decipher.

And Gaudi decided to use a special antenna to thank the Smiths. To make it clear that the beauty, the uniqueness, the richness of the Manchester band has such specific and intense characteristics that a respectful device was needed. The wonderful singing of the poet from Stretford, although sometimes crooked, with imperfections, is untouchable. As are Marr's magical fingers. He chose the only instrument that could contain all this on a structural level, thanks to his knowledge of more than twenty years and having understood that in this way he would have given a specific sense to the whole, not trivialising but making even clearer that uniqueness I wrote about before.

Theremin is the instrument of the soul, the slap that educates to the true recognition of sound, for its pitch and intensity.

The voice and the violin, so distant from each other, find in the executive timbre of Theremin the possibility to compact and make feasible an infinite enchantment.

Once he took the decision to play this expressive diamond, Gaudi did not select the songs in a superficial way: he turned to options that took into account his Thanks and the characteristics of the instrument so that everything would be flawless. Having achieved perfection in the choice of songs to work on, everything could focus on the performance, which had to be excellent.

This Thanks sweeps away the dust from the ageing that the passing of time causes against our will: Gaudi has sprayed old feelings onto the notes, increasing them in intensity. Let there be room, then, for melancholy, pain, frustration, with this resounding device that fixes beauty with its back to the wall, that of eternity.

The Smiths' roses are not songs, but precisely the queens of flowers: five queens that Gaudi has made equally immortal with his visionary skill.

The absence of the voice is not replaced by the Theremin, but rather it is analysed and brought to a sensorial level: the structures have been made daughters not only of the melody but also of the words, like a brush that wisely does not fill in the holes but gives meaning to what gravitates around it. This is the true masterpiece of this bouquet of roses: managing to render immortal the singing of the bard of Stretford, with the thorns that protect it so that the antenna, played in this way, performs the miracle of not offending.

Listening to roses, when they represent deep love, turns into a gift, being worthy of which must become the main aspect. It is unquestionably positive to feel Gaudi's soul trembling, sweating, making itself small while performing an enormous gesture.

A work of this calibre should be studied because every drop that falls on this listening helps us to understand the greatness of The Smiths: this is the rose that is most visible, it should be noted because Gaudi has found an intimate way to bring us back before the Mancunian band with greater respect.

Now let's go near this bouquet, with a deferential inner silence, because beauty is ready to make us yet another pleasure and privilege…



Song by Song


Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me


First rose.

The fog descends, the flight of the seagulls is filled with bitter liquids in the eyes and the devastating piano welcomes the Theremin that, as we note and notice from the beginning, also participates in the musical part. And it is undeniable that this delicate antenna breaks our breath and brings us the same tears as those birds. It is heartbreaking, the child of a free-falling abyss. Gaudi, supported by sublime gift companions, gives the song all the meaning while Morrissey cries with us...


Please, Please, Let Me Get What I Want


Second rose.

Where everything seems to lighten up because of Johnny Marr's incredible talent, Gaudi enriches the sinuosity of this rose with small, almost veiled arrangements. The Theremin gives us Morrissey's voice, without vocal cords but with veins full of blood, walking on the dew of a desire that wants to be fulfilled. The oscillations are simply emotional states in fervid exhibition.



I Know It's Over 


Third Rose.

With this gift, the queen of marginalisation, of incomprehension, of the fiercest solitude, becomes a wave that rises into the sky, a devastating whirlwind. Gaudi has grasped its depth, has by no means diminished its intensity and grants us the beauty of an embrace wet with pain and petals in free fall. The Theremin, which replaces Morrissey's vocals, uses the beating of the wings of those drops in flight to stop our hearts...



Asleep


Fourth Rose.

The lump in the throat buries any attempt to achieve happiness: Gaudi puts forty years of devotion between his fingers and all this leads us into the night dust of nervous and selfish blinks. The Smiths' song here enhances the lyrics and makes the music a merino wool blanket, careful not to let us feel temperature changes in a heart busy trembling.



Well I Wonder


Fifth rose.

Please bring oxygen and the courage to live: Well I Wonder, in the hands of Theremin, is a portable heart attack which crosses the body to paralyse it. It is no longer an antenna, no longer Gaudi's palms and fingers that translate but make real our struggle with the air that abandons us, shatters us, shows us the way out of this existence. 

The talent here becomes uncontrollable and these sound waves go beyond human comprehension: they dilate the steps and it is impossible not to remember this rose that, as we walk, buries our strength since the knees buckle.

And the final act of what we are is listening to a flower which was born on 20 May 1982 and that forty years later is still alive, because its light will never go out…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15th May 2022



La mia Recensione: Jeff Buckley - Grace

 La mia Recensione:


Jeff Buckley - Grace


“Nulla è più pericoloso e mortale per l’anima che occuparsi continuamente di sé e della propria condizione, della propria solitaria insoddisfazione e debolezza.”

Hermann Hesse


“Non ho paura di andare, ma va così lento”

Jeff Buckley


C’è una fuga dal respiro che la mente individua e che vorrebbe accelerare, tenendo conto che l’unico Dio è il Tempo, il sovrano che decide il tutto. 

Ci sono anime che sono perennemente in attesa e l’unico destino vero è quello della morte che consente un percorso nella vita, nulla più.

In tutto questo la bellezza, il senso, la gioia, la grazia vivono alternate, raramente nello stesso posto, affiancate.

Un vagare continuo, con la mente soffocata dalla pesantezza, che da sola non può dialogare perennemente con il talento che la natura concede a tutti. Occorre individuarlo. E da quel momento le cose potrebbero complicarsi.

Arriva in questo contesto un fanciullo eterno, dal volto illuminato di sabbia, con una serie di silenzi con l’ancora attaccata loro: non possono vivere la loro identità perché debbono trasformarsi in parole, suoni, composizioni, atti intensi come un fiume del deserto lungo pochi metri, in quanto questo è ciò che è successo a un tormento dalla voce d’aquila, la febbre dell’arte senza cornice, senza copertina, senza prigioni.


Affamate di incanti che creano dipendenza, alcune anime guardano ciò che scatena emozioni come il luogo massimo della presenza di quella giustizia in grado di soddisfare.

Creando la prima ruga senza possibilità di sciogliersi sul volto di chi è investito di un ruolo davvero molto scomodo.

E da lì non si può scappare.

Jeff Buckley è il segno tangibile di cosa ruota dentro i grovigli dei tormenti, della soluzione sempre da sollecitare per andare ad abitare quegli egoismi in una fila che si allunga e allarga: ecco cosa fa, tra le tante cose, il tempo, senza cambiare idea. La musica non più come ristoro, risorsa, espressione di serenità o nuvole, bensì come metodo per fare di quella fiumana umana la residenza del beneficio.

Il talento diventa la soddisfazione altrui, creando pressioni a cui non si presta attenzione: dove esistono egoismi non può vivere il dialogo.

Il ragazzo vive perennemente nel liquido che sposta la pelle e la tornisce, mentre l’anima è sempre qualche metro avanti, sbuffa e protesta, aspetta la fine, ignorando qualsiasi lamento perché ha un appuntamento che la renderà felice, aspetta di sorridere tra le onde che affondano il respiro.

Le dita di questo terremoto emotivo scrivono gioielli dalla faccia triste, con la voce sognante che permette di non affollare la convinzione che possa essere spenta dalla fatica e dalla morte: nel senso di appartenenza a volte si creano voragini.

Cosa sono le sue canzoni se non una manciata di cristalli che, pur brillando, contengono all’interno un grido silente che non viene colto, considerato, reso sterile?

Si parlava del talento, ma non del suo terrifico ondeggiare tra soddisfazione e sgomento.

Il suo primo progetto musicale si chiamava Shinehead: quando nel nome il destino traccia il percorso della sua corsa infame. Partendo dalla polverosa congrega del Greenwich Village, ha camminato verso la Gloria scoprendo nella sua Grazia la perfetta compagna della sua dipartita e nessuna splendida canzone ha avuto il potere di concedergli il beneficio di milioni di altri respiri: sono sopravvissuti solo i nostri.

La sua storia appartiene alle biografie, agli ascolti, all’amore sparso nei crateri del mondo senza nessuna possibilità di continuare a scriverla, come sarebbe stato giusto. E non a causa della sua giovane età bensì per quel riscatto che doveva ricercare e vivere.

Quanto amo l’idea della sua chitarra appoggiata, la sua voce muta, mentre vive giorni belli come il suo sorriso, come la sua pelle profumata di sogni dalle gambe corte.

Grace mi guarda arrabbiato: non vuole suonare, scrivo di lui ma vuole tacere. L’unicità entra nella storia e ha una responsabilità capace di togliere  il fiato solo a se stesso.

Ciò che ha scritto dopo aveva già segni di conformità, perché mancava di quella luce senza fine che era rappresentata da dieci canzoni che definivano la perfezione. Non solo artistica.

Dopo l’uscita dell’album ha trovato rifugio nell’amore, nella droga, in una forma contorta di depressione che sono cose che spesso feriscono più di un fulmine caduto nel centro del corpo.

Tutto questo a favore di una eternità che lui vive dal cielo, dove non possiamo ascoltare più la sua voce, dobbiamo ritenerci fortunati per il fatto di poterlo fare qui, sul pianeta egoista. 

Un lavoro che è arrivato dopo un Extended Play, la premessa fatata di un delirio che avrebbe trovato una prolunga nel disco dal destino segnato.

Parlare di Grace significa sentirsi orfani, non anime che godono bensì l’opposto. Ma non per ciò che è accaduto in seguito. 

La difficoltà della relazione con l’attrice Americana Rebecca Moore, le zone d’ombra di un carattere sempre pronto a saltare in aria e la tendenza a fare delle passioni la partenza perfetta di ogni suo canto, fanno intendere come fosse arduo per lui gestire la lunga registrazione del suo vero debutto discografico.

Semplicemente: un insieme di brani che già restringono il fiato, dove solo l’ascolto ripetuto sembra consentire gioia, un ascolto nel quale ogni millimetro è composto da una lama che ferisce la pelle, e non solo. Trovatosi in dote un talento enorme, viverlo ed esprimerlo gli ha complicato la vita.

La sua musica ha preso le distanze, doverosamente, da chi non lo aveva cresciuto, pur avendo l’identica capacità del padre di fare delle canzoni il motivo della propria affermazione nel mondo.

Jeff salta come un canguro spaesato in una California spettinata, piena di sole e veloce a trascurare le fatiche umane: tutto ciò che ha composto è un agglomerato continuo di stili e distanze, un puzzle sofferto in cerca di gioia, forse.

Dedicare la propria attenzione a questo lavoro è una piacevole tortura, dai sensi sconnessi, perché ciò che è stato consegnato deve fare i conti con l’assimilazione, la comprensione e infine la gestione di un agglomerato che potrebbe intorpidirsi con lo scorrere del tempo.

E invece.

Tutto rimane intatto, come un mistero che gli dèi conservano, forse come punizione nei confronti della nostra ignoranza e inadeguatezza.

Il lato drammatico, misterioso, unito all’affanno esistenziale conferisce all’ascolto la testimonianza di un mattone rosso che, con il proseguo, trova minuscole parti in disintegrazione, in un precipitare lento, facendo arrossire il fiato, oscurando il respiro.

Canzoni struggenti, ballate come abbracci stretti sino a una compulsione dinamitarda, percezioni che escono da parole che, anche se piene di garbo, non possono nascondere ciò che un’anima pura vorrebbe rifiutare.

Una band capace di rendere liturgico il viaggio, con le pennellate di Lucas, con la sua chitarra lieve, il basso di Mick Grondahl, tenebroso e potente, e la batteria di Matt Johnson, che è la mano dal cielo che accarezza. Una terza chitarra viene suonata da Michael Tighe ad aggiungere romanticismo per non lasciare il tutto troppo greve. Jeff mette le sue fragili, talentuose dita anche sull’harmonium, sul dulcimer e sull’organo, come completamento di un progetto che somiglia a un quadro impressionista di Roy Lichtenstein.

Le trame timide, esili, sconvolgenti, che passano tra il folk e il soul e un pop raffinato, si uniscono perfettamente a una ispirazione che guarda alla liturgia come punto di partenza nel quale la parte metafisica sta in attesa. La sua voce è un coro nero che si affaccia al cielo, donando brividi e smarrimento, incontrando spesso ispirazioni blues e la sacralità dello spirito gospel, senza averne i tratti. Tutto questo perché la sua voce viaggia sospesa, tra i canali emotivi innaffiati di scintille come api con le ali enormi. L’aria del cielo ne viene invasa per intensità e capacità.

Le sue corde vocali, salde, rendono l’ascoltatore tremante.

I testi sono fondamentalmente il percorso di cellule lucide ma pregne di buio al loro interno, dove il viaggio conosce già l’esigenza della sua fine.

Il suo background fatto di ascolti acuti, profondi, brillanti, ha un range vasto, spesso proveniente dall’Europa, in uno spazio temporale che parte dall’inizio del secolo scorso. È coraggioso nell’essere affamato di ciò che pare distante dal suo presente, conferendo al suo stile una somma incandescente di cellule con il dna così estremo da apparire inevitabilmente come un collage perfetto, fatto di intuizioni, esplicitazioni, scelte azzardate ma funzionali.

Riluttante, determinato a porre qualsiasi distanza dal padre Tim, non può negare la sua connessione con alcune modalità espressive dello stesso, vedi quel tuono angelico del falsetto straziante, in grado di creare rossori sui nostri sensi imbambolati. E che dire di alcuni momenti nei quali il jazz di Jeff sembra il perfetto prolungamento della pesante figura paterna?

Compositore e raffinato interprete, annette anche il bisogno di fare entrare impulsi noise nelle diamantate chitarre, come un cerchio musicale desideroso di non escludere, come un padre di famiglia che non vuole scegliere uno solo dei suoi figli.

Una generosità sensata e riuscita. Le sue cavalcate verbali possono far credere che nulla o tutto potesse desiderare di essere aggiunto. Ha provato a farlo con le registrazioni di canzoni nuove che non è stato in grado di    completare e solo la madre è riuscita nell’intento, annullando il fato e il destino con un’operazione scorretta e trucida: dovevano rimanere nel cassetto e prendere polvere.

E invece…

La sua versatilità l’ha distanziato dalla contemporaneità ed è stato questo che ha dato a tutti la possibilità di conoscerlo: si è distinto, decidendo così che la conformità sarebbe stata una difficoltà inutile e dannosa. Lui è salito in cattedra per risultare come un maestro consapevole che la sua arte sarebbe stata riconosciuta come lavoro, dedizione, interessi multipli distanti dal vuoto che invece riempiva le orecchie, senza poesia.

L’aspetto visionario è sintomatico della parte fanciullesca di un essere refrattario alla crescita, desideroso attraverso il connubio musica/parole, di avere il giocattolo sempre tra le mani. 

Nella fragilità della adolescenza la preghiera sembrerebbe essere il supporto migliore al fine di permettere ai sogni il miracolo dell’eternità ed è esattamente quello che il rock fa…

Il ragazzo dai modi gentili utilizza anche le urla, atti che potrebbero rovinare l’immagine di una modalità sempre così rispettosa. Nell’album però tutto questo rivela non solo il desiderio di completamento, ma soprattutto l’impossibilità di negare l’autenticità che spinge verso la sua affermazione. L’essenza della sua esistenza musicale trova senso nel fare di Grace la prima pagina della propria carta d’identità, un work in progress determinato ad essere un capitolo senza luce nelle pagine future.

La scomparsa è stato un graffio e uno strappo su quelle pagine.

Tutto doveva rimanere incompleto in questo percorso umano: la completezza l’ha riservata a questi dieci scrigni e alla nostra eredità fatta di ascolti vedovi e orfani.

Jeff Buckley non è un artista maledetto, tantomeno un angelo, bensì uno di quei lutti imprevedibili da parte di chi nella continuità di un beneficio afferma se stesso. Alcune morti certificano la sconfitta di chi rimane in vita ed ora l’ascolto di questi dieci respiri fatati rende questo vinile davvero troppo pesante. È questo il destino della bellezza e dell’importanza: di renderci sempre più curvi davanti alla loro assenza…



Canzone per Canzone 



Mojo Pin


I desideri e le allucinazioni, la solitudine e i sogni inquieti scendono sui fogli intonsi di Jeff che si trova soddisfatto con i vecchi accordi di Gary Lucas in un brano che si chiamava And You Will. Buckley lo trasforma in un sottomarino con la voce scivolosa di un’alba su riflessi notturni creati dalla chitarra cullante. Poi il sole sott’acqua lentamente apre i polmoni e la voce regala soddisfazioni sensoriali dentro evoluzioni crescenti. 



Grace


Un rock dalla pelle vellutata e dalle parole che pesano sempre di più goccia dopo goccia.

Una chitarra ritmica dall’attitudine Dreampop accoglie il cantato con la sensazione che certe urla siano il castigo e il dazio che il dolore deve pagare. Il falsetto e il seguente vocalizzo provengono da Janis Joplin, isterica e sconvolta, tra convulsioni che vanno a baciare lo Shoegaze più elegante.



Last Goodbye


Le chitarre gonfiano il petto scivolando con attitudine limpida nel blues nero nordamericano per poi continuare con una sezione ritmica che entra in un feedback controllato. Caratterizzato da una struttura pop senza essere legato alla forma canzone, questo imbuto brilla per rivelare la sua manifesta necessità di non essere legato a un cliché e l’orchestrazione, con violini frizzanti, lancia il tutto con un alto profilo qualitativo. 



Lilac Wine


James Shelton avrà fatto un salto sulla sua sedia celeste quando tra le tante versioni del suo splendido brano ha potuto sentire quella di Jeff. Abbassato il registro della voce, il ragazzo californiano decide di diventare una piuma, sognante, a due passi dalle nuvole. Con la dimostrazione che il tempo con lui trattiene il fiato, tutto si tinge di infinito e vibra di magia a grappoli, con la chitarra che si accorda con la sua parte vocale per siglare il patto con la bellezza che non può essere usurata. 



So Real


Traccia dall’attitudine Dreampop, con i Cocteau Twins muti e adoranti, trova la forza e l’abilità di una esplosione “contenuta” per poi deflagrare come rocce impazzite con la data di scadenza, per tornare a graffiare con dolcezza. Scura, con la pelle avvolta dalla nebbia, la canzone conferma Jeff come un ottimo scrittore capace di dare ai suoi versi il potere di sedurre gli occhi, con la voce a baciare la perfezione.



Hallelujah 


L’amore per Johnny Marr degli Smiths, la sua devozione e la forma infinita di studio per la band Mancuniana trova posto nella perfezione della chitarra di questa cover di Leonard Cohen.

Poi è miracolo, fuochi naturali che esplodono nel cielo. Nessuna cover può essere meglio dell’originale. Sia ben chiaro. Jeff ha materializzato l’infinita bellezza del cantautore Canadese e ha reso accessibile, con un suono moderno, ciò che pareva destinato ad un tempo lontano. Con un lavoro estremamente attento nei confronti della chitarra (la bambina che sconvolge gli adulti), la voce cavalca l’onda di una spiritualità in volo per separarsi da ciò che è umano e divenire divina.



Lover, You Should’ve Come Over


Come scoprire la modalità di scorrimento del sangue nei nostri battiti: tutto parte lento, malinconico ma pulsante, per poi, con la voce che accelera sino a divenire nevrotica con il suo falsetto adorabile (su una base dove l’organo mostra i confini dello splendore fatto di semplicità), rendere evidente come la musica che lui amava ascoltare potesse avere spruzzate di energia con il suono degli anni 90.



Corpus Christi Carol


Questa volta Jeff prende un brano tradizionale inglese del 1500 e impartisce lezioni di leggerezza e dolcezza mostrando a tutti che alcuni talenti venuti dopo, come Antony e Rover, ma la lista è lunghissima, sono passati da qui, da ascolti infiniti e attenti.

Se il cielo ha una voce è quella che mostra Jeff in questa incantevole esibizione di talento e capacità di estremizzare la distanza tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. La perfetta ninnananna per cuori bisognosi di coccole.



Eternal Life


Il chaos, figlio di una miscela allettante tra gli Alice in Chains granitici e gli Aerosmith dalla faccia pulita, rivela come Jeff possa esibire il suo lato robusto brillando con arrangiamenti inaspettati, che sanno alternare tutte le micce di un rock con il papillon.

È noise con la maschera da Carnevale che seduce e spiazza, per poter celebrare la canzone con passi di danza come una scarica elettrica gentile.



Dream Brother


Dando spazio ad una stesura del brano che comprende tutta la band, ascoltandolo notiamo come si possa circumnavigare il tempo, lo spazio, i generi musicali, per fare di una canzone un vento misterioso che si tuffa in cieli rumorosi, con scintille Post-Punk, divagazioni prog, un Post-Rock con il miele sulle ali e un canto così espressivo che sintetizza questo Camaleonte artistico. Ed è l’ennesimo shock gravitazionale, la tempesta del cuore che si inchina e bacia un album che gli dèi ci hanno generosamente concesso di sentire. Noi potremmo anche smettere di ascoltarlo, ma sono convinto che nelle praterie celesti risuoni come il perfetto loop per fare dell’eternità un luogo incantevole, avendo in dote la colonna sonora migliore…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 Maggio 2022








 


 







venerdì 13 maggio 2022

La mia Recensione: Area - International POPular Group / Crac!

 La mia Recensione:

Area - Crac!


I veri monumenti dovrebbero avere pianta stabile nella nostra mente, quotidianamente, come presenza tangibile di un’importanza riconosciuta.

Da dove partiamo?

Direi da Gianni Sassi, un monte, un’anima densa di impegni e qualità che ha continuato a smuovere le coscienze impegnandosi a tutto tondo, comprendendo anche la creazione della rivista d’arte ED912 e la casa discografica CRAMPS, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone. 

Dopo aver ideato fantastiche copertine per album divenuti importanti e rilevanti, Gianni con la sua etichetta ha dato modo a diverse band di portare avanti un discorso di qualità a 360 gradi.

Gli Area ne sono l’esempio più fulgido.

La loro è stata una militanza politica che ha difeso pensieri, attitudini, ha modificato il significato di libertà in modo nobilissimo e attraverso la musica ha fatto del rock un insieme di luoghi, immagini e sostanza che ha stimolato un collettivo di notevole spessore. 

Sono qui per parlarvi del loro terzo album, Crac!, un Levitico moderno, potente e velenoso per chi fa del disimpegno un’attitudine di vita.

Ascoltare questo disco è sconsigliato per questo tipo di persone: davanti a pagine di storia che rappresentano la coscienza, per loro credo sia conveniente starne lontano.

L’abilità tecnica, ineccepibile, è funzionale a visitare l’ignoto con progressioni, stacchi, rallentamenti e accelerazioni sempre con la necessità di messaggi da approfondire. 

Il Jazz qui è un pulsare continuo che sa attendere il suo momento in quanto l’avanguardia e il progressive sono tuoni che vogliono illuminare il cielo. Le progressioni strumentali sono le voci di anime a testa bassa che vogliono alzarla, in un percorso evolutivo perfettamente raggiunto: non più generi mischiati, bensì l’evoluzione ascensionale di coinvolgimenti che sono stati educati.

 Il motivo?

Vi era la necessità che tutto fosse evidente, specificato, perché non diventasse solo catarsi, ma soprattutto indagine sonora e lirica per un tutto che non manifestasse solamente un puzzle concluso, quanto piuttosto un unico insieme di bellezza e coscienza dalla lampadina accesa.

Crudo, impegnativo, necessario, rappresentativo, questo insieme di suoni rarefatti e potenti va ascoltato avendo presente cosa accadeva in quei tempi, la progressione di eventi che determinavano posizioni. Non è musica: è vita che cerca la manifestazione di una legittima volontà, avendo al suo interno il desiderio di toccare i diritti di farlo e non sentirsi in colpa. Si muove molto bene questo insieme di brani, rapidamente, con tonnellate di piombo per via dei testi di Gianni Sassi: Demetrio Stratos ha compiuto una impresa colossale, unica, devastante, con un cantato assolutamente inimitabile. 

Fatto di estremi, come una perversità che non prevede cambiamenti di rotta, questo fascio artistico è un atto unico che va oltre la bellezza: vi saranno sempre individui che diranno che non è il loro capolavoro, che è meno suggestivo eccetera, ma sono chiacchiere da Bar, non in grado sicuramente di coglierne la magnificenza. Innovativo, consequenziale al loro percorso ma con la qualità di aver appreso anche da altre culture e album, Crac! è in grado di ipnotizzare e condurre l’ascoltatore ad assentarsi davanti al gusto e a scelte determinate negli anni.

Qui esiste la rivoluzione della rivoluzione, voluta e programmata, dove il consenso diviene un elemento sterile.

Ciò che è espresso desidera uno studio e non una valutazione: è il principio di nuove identità nascenti. Non esiste un caos che produca crescita se prima non è assistito dalla curiosità e in questo manicomio di bellezza ne troviamo quintali. La follia sta nell’intento, nella programmazione e nella sua esecuzione, che insieme devastano e certificano una elevatissima distinzione tra la bravura e il compimento di qualcosa di inafferrabile e sconvolgente. Si può ancora godere di qualcosa che appartiene (per stupidità, che conviene sempre esibire…) al tempo passato, ad una decade ormai lontana dalla nostra osservazione? Se fossimo abituati alla ragionevolezza non ci porremo questa domanda. Crac! è una bilancia che soppesa l’utile fastidioso con l’inutile che tiene l’impegno in una cassaforte blindata.

Sentirsi inadeguati all’ascolto di questo album è chiaramente come essere una rosa pronta a schiudersi: è solo una questione di tempo perché poi l’incanto diverrà sequestro, puro e sublime. Chi passava ore a sentire questo disco in quel periodo sapeva che farlo facilmente era l’ultima delle preoccupazioni: vi era un grembo mentale pronto ad essere fecondato, senza paura.

L’attualità di quel tempo era crudele e andava esaminata: per i testi ci ha pensato Sassi con gli scandali disgustosi della Democrazia Cristiana, il franare del buon senso, la tensione che l’aria voleva polverizzare, il terrorismo che divideva l’ideologia con azioni determinate e cruente, in una Via Crucis dalle tappe infinite.

Per quanto concerne la musica: libera di essere vincolata da temi così densi, ha spiccato il volo verso l’abbondanza, nutrendosi di una capacità innegabile di fare il giro del mondo tra generi e intuizioni massicce, come il muschio che si affianca ad una spugna senza confini. 

Pregno di genialità, colpi di fulmine, propensioni senza catena, tutto diventa non digeribile se lo stomaco è abituato all’acqua, che non appesantisce troppo. Sono canzoni come pranzi lunghi e impegnativi, senza dieta, ma con tutti quegli ingredienti che sembrano eccessi, smisurati ma essenziali.

L’analisi del tempo, distinta e messa a fuoco, non può mai essere sinonimo di disimpegno e leggerezza: le orecchie della nostra coscienza in quei momenti si ingrossano, studiano, conoscendo anche la stanchezza facendo ciò. 

Erano tempi duri per alcuni Paesi (Portogallo su tutti) e il ritiro delle truppe Americane nel Vietnam dava al Comunismo mondiale una forza diversa, attesa e voluta. C’era anche bisogno del giusto linguaggio artistico per continuare un discorso che fosse mondiale e l’ascolto di questo gioiello ne dà una misura precisa. Testi diretti e metaforici si univano alla musica che sapeva fare altrettanto. Si doveva guardare avanti nel tremolio di pensieri ancora balbettanti che cercavano posizione e stabilità. Un disco che contesta, motiva, eccelle per un minor tono buio rispetto ai primi due, ma con in dote una maggior consapevolezza ed una metodica diretta, che frantuma e offre nuovi elementi per un confronto/scontro più che mai necessario. Si avverte la propensione al dialogo, che nasce da un’improvvisazione capace di stimolare il litigio sonoro che non si conforma ma induce a un allargamento verso lo scintillio magnetico di talenti. Essi esercitano continuamente la loro influenza: tutto ciò non aveva mai raggiunto questi livelli, perché nei due album che precedettero questo vi erano chiaramente altre necessità. Come corsari senza benda sugli occhi, gli Area ci tolgono il gusto di essere anime apatiche con esercizi culturali da capogiro, insostenibili ora più di allora, vista la nostra totale propensione alla comodità. Note, progressioni, diversificazioni, deliri di ogni tipo si danno appuntamento tra questi solchi che, come estasi crescente, ci restituiscono un piano intellettivo ragionevole e che arriva in zona Cesarini con le menti in stato soporifero. La crescita verticale ottenuta e dimostrata con queste sette composizioni stupisce per precisione e ampiezza, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza: in tempi in cui il nomadismo era tenuto lontano dal fare politico chiuso e ottuso, ascoltare Crac! significa, perlomeno, sentirsi profughi e sconnessi. 

Ora il fiato e i battiti si mettono di fronte. Le pistole della verità stanno per sparare sette proiettili e, se siete pronti, andiamo a guardarli da vicino, per morire in pace…



Canzone per Canzone 


L’album della militanza più evidente che mai incomincia con la corsa di un ragazzo che viene invitato a guardare avanti. Vertigini ritmiche, richiami sonori alle zone dove Demetrio Stratos è nato (Egitto) per poi andare oltre fanno de L’ELEFANTE BIANCO un esempio di connubi multipli. in modo da poter poter esercitare il potere dell’idea che trova radice solo se avanza. I musici sono Benedetti dallo stato di Grazia con un mantra che genera ampi respiri sulla strada del ritmo. E la voce stabilisce la certezza che il migliore cantante italiano di sempre sappia cantare le parole scritte da Gianni Sassi provocando ulteriori brividi.

La puntina avanza e ci fa sobbalzare: la natura di LA MELA DI ODESSA, resa strepitosa dal contrabbasso di Ares Tavolazzi, vive di momenti, tutti estasianti, sin dalla sua introduzione. Si avverte la sensazione di un viaggio alla ricerca di contaminazioni continue. Con ritmiche lontane dai 4/4 della batteria, Giulio Capiozzo dimostra di essere fantasioso e tecnicamente eccelso, trascinando Patrizio Fariselli in scorribande con la sua tastiera verso paradisi collinari per sconfiggere “il mondo che era ancora piatto”.

Non hai nemmeno il tempo di assimilare che i ragazzi sfoderano l’asso nella manica che riesce a mostrare il lato psichedelico californiano e un progressive alieno, per fattura tecnica e sperimentale: giunge MEGALOPOLI a complicare le cose e quindi a renderle perfette. Demetrio gioca con le ottave, la chitarra di Paolo Tofani duella tra la sabbia con Fariselli: sono rimandi, echi, riflessi eleganti per coinvolgere Tavolazzi a fare del Jazz il tifoso del rock con idee fresche e rigeneranti. Suite che incanta, determina cosa significhi essere dei fuoriclasse in un’Italia pigra nel conferire loro la patente della Bellezza.

Stiamo attenti ora, per il prossimo capitolo: gli Area prendono i Doors, li semplificano e poi dimostrano loro come connettere il pianoforte e il sintetizzatore per esplorare mantra ed evoluzioni anti-cliché, allontanandoli poi del tutto.

Questa è NERVI SCOPERTI, la giostra elettrica che sconvolge per la latitudine della sua radice, sirena che allinea i talenti in assoli e giochi sottili a migliorare le intenzioni di colleghi illustri, semplicemente devastante.

Il collettivo, la propensione e la volontà di connettere il testo alla musica genera un’apoteosi plurigemellare per un incantevole esercizio di contrazione pelvica: GIOIA E RIVOLUZIONE fa tanto male alla testa, spiazza ma rinvigorisce, una spinta ideologica che trova il modo di trasferirsi in una musica quasi giocosa. Tutte le dita combattono, c’è qualcosa da capire e da far capire e tutti si dannano. Sentiamo una coralità sonora che comprende pure una chitarra ritmica semiacustica per dare alla canzone la sensazione che bisogna coinvolgere tutti, in modi diversi, la band desidera sparare, nella strada dove l’amore attende. Stupefacente, quasi goliardica, tribale ma sorridente, lancia semi pop in modo da poter essere compresa meglio data l’urgenza del tema di cui è composto il testo.

Il genio di Tofani crea con il suo sintetizzatore una grandiosa introduzione per la successiva IMPLOSION, viaggio robotico, lunare, con oscillazioni del suono degne dell’avanguardia tedesca. Il delirio si fa concreto, come un pugno lisergico che accarezza gli Stati Uniti ma poi li lascia, come dispetto necessario. Il basso di Ares è uno stregone occidentale, bianco, dalle dita mosse da un impeto incontenibile e che consente al brano di essere l’esempio di una improvvisazione senza briglie e dove il drumming di Capiozzo è uno sciopero poderoso contro la tecnica maldestra di molti addetti alle pelli e ai piatti: lui dimostra cosa sia l’applicazione e il talento. Demetrio sciopera a sua volta con la voce, ma le sue dita sull’organo sembrano la continuazione delle sue corde vocali. Una sola parola per definire tutto ciò che accade in questa composizione: capolavoro!

Il vinile trema: sa già che ora ci spaventeremo, saremo inondati da una nuova scossa.

AREA 5 è la corsa di gatti e topi, di nemici che improvvisano strategie e tra la scorribanda di dita sul pianoforte e il magnetico lavoro di Demetrio alla voce, tutto diviene schizoide e inquieto, come un horror che tenta di essere portatore di allegria. Tutto proviene da Juan Hidalgo e Walter Marchetti (studiate e meditate gente, parafrasando Renzo Arbore e la sua birra) e la sensazione che rimane sulla pelle è quella di una paura incompresa, perché queste note in ogni caso seducono e trasportano dentro i labirinti di un gioco che sembra provenire da una captazione. Modo divino per concludere l’esperienza di un match culturale stravinto dalla band: e c’è ancora molto da imparare…


Musicisti intriganti, impazziti, generatori di corrente, cavalieri del suono, pittori dalle tele enormi, con un cantante che sa usare la voce con le sue diplofonie, trifonie e quadrifonie, e altro ancora, nel gioco infinito di tentacoli spiazzanti per forza e precisione. Gli strumenti usati come armi, con la faccia da fioretto, spesso sorridente, ma poi nel loro arsenale si trova una notevole serie di macchine da guerra. Non si sta sereni un attimo e tutto questo coinvolge così tanto che, parafrasando Franco Battiato, possiamo affermare “ed è bellissimo perdersi dentro questo incantesimo”. 

Mi fermo con la consapevolezza che è stato contemplato un solo granello di sabbia del loro Sahara, e nemmeno tanto bene, però posso avere la certezza che sia finita la lezione. Domani, ne sono certo, i Maestri Area torneranno dietro la cattedra e io sarò un pò più felice, perché maggiormente vicino a questo album che non ha una sola ruga che sia una…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

13 Maggio 2022


Area - International POPular Group / Crac!

15 giugno 1975



  • Electric Bass, Acoustic Bass, Trombone – Ares Tavolazzi
  • Electric Guitar, Synthesizer [E.M.S.], Flute – Giampaolo Tofani
  • Electric Piano, Piano, Bass Clarinet, Percussion, Synthesizer [A.R.P.] – Patrizio Fariselli
  • Percussion, Drums [Slingerland] – Giulio Capiozzo
  • Voice, Organ, Harpsichord, Steel Drums, Percussion – Demetrio Stratos






giovedì 12 maggio 2022

La mia Recensione: Garbo - Come il vetro

 La Mia Recensione:


Garbo - Come il vetro


“Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima”

George Bernard Shaw


Il percorso del tempo apre angoli, strade, percezioni, decisioni, baci, eventi e attese, come un fiume che attraversa le generazioni.

Si può racchiudere in uno scenario che comprenda e sviluppi tutto questo, maggiorando il tutto con un respiro sapiente sino a farlo divenire un concetto transitorio?

Se ti chiami Renato Garbo sì. E farlo maledettamente bene, aggiungerei.

Come completamento del percorso dei due album che l’hanno preceduto (Blu e Gialloelettrico), Renato sfodera la potenza pregna di saggezza che sente il bisogno di uscire, di attraversare la propria fisicità e trovare la dimensione nell’aria mettendola a disposizione di note che tra fragilità e armonie vestono i nostri ascolti di un uomo perfettamente bilanciato. 

In questo lavoro muoiono i colori per far entrare un colore unico, innaturale, sconosciuto, intenso, difficilmente visibile: la trasparenza.

Ritroviamo una colonna sonora della nostra giovinezza come un ragioniere che con gli anni non ha smesso di fare calcoli, di valutare, di farsi seguire se siamo attenti ai suoi guizzi che sospendono il percorso dei giorni. No, non è Dorian Grey: il suo volto non nega la vecchiaia che velenosa accende le sue rughe, ma riesce a fare dell’anima una vergine che spezza il tempo.

Eccoci, dunque, con testi descrittivi che lo mettono a disposizione dei nostri occhi, che devono impegnarsi per poterlo vedere. Storie come indagini, come abiti neutri a proteggere la trasparenza perché, apparentemente fragile, in realtà la sua forza potrebbe fare di noi persone completamente autentiche in quanto dove c’è lei può esistere solo la realtà.

Musicalmente COME IL VETRO è invece un arcobaleno elettronico, dal grigio dall’umore ballerino al giallo coraggio, al nero spaesato, al marrone pesante come un mattone in volo.

Si danza, con gli anni suoi fatti di estese ricerche e sperimentazioni. Si suda con i suoni che attraversano le ultime quattro decadi dove troverete i Japan che corrono, David Bowie che ferma il tempo, i Kraftwerk che giocano a nascondino alla faccia della trasparenza, i Jesus and Mary Chain con la parrucca e molti altri, tutti messi in fila dalla classe di Garbo che sa ancora incidere solchi propri nei nostri cuori con la sua strabordante propensione a fare del particolare una piccola roccia, dentro la schiena di una montagna.

Cerca l’amore e lo trova: gli serve per salvarlo dal tempo che spesso cancella il percorso perché si chiude in se stesso, facendo in modo che risulti irraggiungibile l’analisi e il conforto di chi è stato giovane. Colora le stagioni, cerca i rumori, i volti, esplicita i desideri che ancora non si piegano ed elimina i filtri della paura e della malinconia. 

Si fa visibile come non mai, nudo e attaccabile ma anche disposto a farsi accarezzare: sta a noi decidere come viverlo, se e come portarlo dentro noi; abbiamo la possibilità di vedere la sua anima sorriderci, i suoi impulsi che trasmettono creatività e che hanno saputo vincere quella sponda del successo di cui gli hanno tolto le chiavi quasi sin da subito, negli anni 80, tanto, tanto tempo fa.

Scrive un album che ha la forza misteriosa che la nuova generazione non conosce, esprime concetti che si possono contestare con la sua forza trasparente che forse noi non abbiamo più. È riuscito a non distanziarsi dal suo stile: è ancora riconoscibile ma in questo insieme di canzoni, in modo definitivo, riesce ad essere quello che immaginavamo sarebbe divenuto un giorno. Ebbene: l’ha fatto ma stupendo con i suoi pezzi colorati che si sono trovati la pelle lucida, privi del loro dna per avere il colore del vetro. 

Canta “non voglio più guardare indietro” e, nell’insieme di quest’opera, con le sue autocitazioni, demarca perfettamente tutto ciò che gli è rimasto, che ha tolto del suo passato, per rilasciare riflessa per sempre l’immagine della sua maturità, che dal fiume è arrivata alla radio con il clima di giornate di pioggia dentro i raggi di sole.



Canzone per Canzone


Come il vetro


Iniziamo a guardare dentro e oltre noi stessi, con la canzone che dà il titolo all’album: basso e chitarra si uniscono in un inizio teso e poi giunge a grancassa della batteria, per arrivare velocemente al ritornello dove l’elettronica comanda e si ha la percezione che la sua voce sia a disposizione di una lucida malinconia. 

È un gioco di ritmi incalzanti che si stoppano ma tutto sembra avere il proprio, con il cantato in inglese che regala l’internazionalità che musicalmente aveva già.


Chi sei 


Riconosciamo il Garbo di cui ci siamo innamorati avendo ben presente che tutta la sua domanda è frutto di un bisogno radicale. La tastiera disegna una prateria leggera, la voce scava ed un respiro femminile entra dentro la strofa sino ad arrivare ad accompagnare nel canto Renato. La sensazione è che musicalmente la situazione sia gravida di antiche passioni sonore con un abito moderno ma non alla moda, perché Garbo ha sempre cavalcato l’intelligenza che non si sposa con la massa.


Voglio morire giovane


La chitarra iniziale sembra un tributo ai Cure fine anni 80, ma poi il tutto si sposta e l’analisi di chi vuole scoprire le cose e mostrarle continua. Una miscela mista di dolcezza e calore visita le note di un brano che raccoglie l’eredità del suo primo album. E poi i Jesus and the Mary Chain si affacciano con il loro riff a far compagnia.


Lei


Tornano i Cure nei primi secondi: questa volta il brano sembra figlio di Cold. Poi il piano e la tastiera prendono il tutto e diventa mistero volatile, che ansima di elettronica seducente. La luce diviene il mezzo con il quale si può guardare in faccia ai desideri e tutto conduce verso un vertice elettronico, di una sensualità innegabile.


Più avanti


Prendi la lounge music e rendila capace di accogliere particelle di Donna Summer, intarsi Jazz nell’assolo, ma con la voce di Garbo scorgi gli incroci più strani mentre, straordinariamente, ti accorgi di essere di fronte a un treno pieno di raggi solari che lo fanno spostare sulle rotaie. 


Ciao


L’inizio conduce ai Depeche Mode di Home e la vicenda mi turba, ma poi la musica è capace di dimostrare ancora una volta che Renato è sempre stato in grado di essere più originale della band inglese. E il cantato è una spruzzata di luce con la classe che fa vincere senza dubbi.

L’autore milanese diventa il pittore di una modella assente, ma che dalle strade si materializzerà. E la canzone scalda l’identità che prende corpo.


Voglio tutto 


Ecco ciò che non ti aspetti e che invece sa sedurre lo stupore per farlo girare dentro l’accoglienza più piena.

Due voci come alleate tranquille sulla scia di suoni a rendere lo spazio un dolce sogno. Un crooning che interroga e che rivela come il rumore sia parte della nostra identità.


Anni


Sorella, nel climax, della canzone precedente, la voce sale in cattedra, il piano vola e fa volare tutti noi dentro i circuiti dei pensieri. La linea melodica si fa più cupa ma al contempo sognante. Viene voglia di piangere, le note proseguendo sembrano attirare i nostri occhi verso l’umidità di una nebbia che avanza. 


Baby I love you 


Tolti gli archi della versione originale dei Ramones all’inizio del brano (per inserirli in corsa), Garbo ci mette le chitarre che non c’erano, ma tutto si dimostra un miscela fresca e imprevedibile.

Forse un pezzo decontestualizzato nell’album, ma valido nella sua essenza.


No


Ritmo e enfasi, tracce di Human League e Ultravox che si specchiano: poteva essere altrimenti? Garbo sospende il tempo all’anno 1986 e 36 anni dopo ne sentiamo ancora tutto il profumo. Dal fiume le anguille escono e corrono veloci su onde magnetiche capaci di dare al basso pulsante la miglior compagnia possibile.


La mia finestra


Un brano breve, figlio del Battiato etereo e ondivago tra la ricerca e la spiritualità.

Portatore sano di silenzio e pioggia, Renato si tuffa dentro gli sguardi per portare a termine il suo nuovo passaporto mentale, riuscendoci benissimo. Ed è il “Noi” a chiudere il percorso insieme all’“Io”, dimostrando ancora una volta la sua grande maturità.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/2igZkVvcb41Gq8yFM9wqxz?si=ffnsHYQUQxuUosPMtdigtg








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