Visualizzazione post con etichetta Italia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Italia. Mostra tutti i post

martedì 5 dicembre 2023

La mia Recensione: Melga - Figli


 

Melga - Figli


Non è ancora venuto il momento di veder scomparire le storie dei rapporti umani, per quanto intossicati, imprigionati e pesanti, perché esiste chi sa vederle, inventarle, raccontarle con classe, precisione e una intimità che corrisponde a un grande rispetto.

Viene da Taranto, da una Puglia meravigliosamente impegnata a lasciare i suoi figli liberi di dare alle creazioni artistiche un senso, un luogo, una innegabile capacità di affascinare e conquistare, dolcemente.

Gaia Costantini, in arte Melga, è una figlia sensibile che compone musiche come se una foglia oscurasse il male e restituisse raggi tiepidi, per scaldare il cuore. Il suo nuovo lavoro è un EP che profuma di sogni, di intenzioni responsabili, della maestria di utilizzare generi che, partendo da uno spirito World, entra nell’entroterra pugliese con abilità, convincendo per via di schemi che riescono a rendere credibili testi scritti davvero con notevole capacità, con il canto che sembra il respiro di una fata in attesa sui bordi di nuvole bianche. Gli archi arrangiati dall’instancabile Marco Schnabl (nonché il produttore, eccelso, dell’intero lavoro) si uniscono al piano e alla fisarmonica di Melga, consegnando agli altri strumenti la completezza di una impalcatura forte e resistente. I ritmi variano, le melodie vengono corteggiate da invenzioni che, nello specifico, fanno divenire cinematografico il tutto, provocando stupore e sorrisi liberi di camminare nella strada delle fantasie più pure. Sono storie che hanno modo di far scorgere il baricentro del bisogno primario, quello dell’amore che parte, raggiunge, disperde, il tutto con il timbro di incontri significativi, decisivi, incontrastabili. Gaia soffia le parole come incantesimi nel tempo in cui la maggior parte dei figli non crede più in essi: si oppone, dolcemente, con grande dilatazione, per consegnare verità e realtà che abbisognano di essere mostrate. E senti tutto questo nei rintocchi di un piano che suona moderno, aggraziato da una vicenda lontana che esprime timidi sussurri, in quanto l’artista Tarantina è ben conscia di quanta non sopportazione esista nei confronti della musica classica e di quella considerata ormai sorpassata e vecchia. Disegna un armistizio, poi un compromesso, per vincere come un'apoteosi ristoratrice che veicola sollievo e riflessione. L’opera commuove, tocca le corde ormai stonate di una esistenza che non riconosce la forza positiva delle relazioni, di quei legami ai quali ci si dovrebbe rapportare con rispetto. Canta come un sogno disposto a scendere nella quotidianità, perché proprio da quella lei fa volare le sue perlustrazioni, indagini concrete e poetiche, inclini alla saggezza. 

Invita, dona, spartisce i suoi averi, ascolta, dialoga con i segni del tempo: Melga abbraccia i lati opposti, dal paradiso all’inferno, seminando la bellezza che mette a disagio solo chi ha il cuore gelido. Ma è proprio la provenienza (quella regione che ospita il calore e la voglia di vivere malgrado grandi disagi) a divenire il primo fattore vincente di cinque gazzelle che corrono nella prateria dei rapporti lasciando, ognuna di loro, una rosa blu nel centro di ogni sogno…


Figli è uno specchio di luce, la porta di un respiro profondo, la libertà cosciente che deve stabilizzarsi negli orizzonti, per raggiungere una salvezza possibile. Musicalmente è una semi-ballad, ariosa, colma di oscillazioni dolci per arrivare a una tenue esplosione minima, incantevole e seduttiva…


Teresa è un dialogo, una carta d’identità mostrata alla vita, con grande semplicità e una modestia umana davvero ragguardevole, con un piano prima tetro e poi divertente, quasi swing, in un'atmosfera che è un velluto in volo in una giornata autunnale. Quasi cabarettistica, piena di incursioni da parte di note e accordi per generare una dolce ipnosi, la canzone conquista per la sua leggerezza all’interno di scrosci temporali resi ubbidienti dalla confidenza di una splendida figlia nata nel 1953…


Qui ed Ora: il ritmo parrebbe sempre pronto a scattare, invece si vive una suspense tiepida, capace di splendide pause, con gli archi a conquistare fazzoletti pieni di lacrime, in una Torino sorvolata da due farfalle che entrano nel pentagramma per disegnare una traiettoria poetica, dalla pelle accarezzata da una struttura solitamente vicina alla musica classica italiana di fine Ottocento. E la fisarmonica inventa frammenti francesi per un crescendo con il guinzaglio: semplicemente, clamorosamente meravigliosa…


Con Cara Margherita, ci avviciniamo ai territori preferiti da Tom Waits negli Stati Uniti e da Davide Van De Sfroos e Vinicio Capossela in Italia. La vita fuma tra le dita, oppure vive nei tasti di un pianoforte, ma in ogni caso porta con sé un ritmo quasi sudamericano, con i lampioni francesi a inquadrare la scena. Ed è la pazzia che vince, fuggendo, rintanandosi in questi versi seducenti e pieni di saggezza.


Il brano che chiude quest’opera è un clamoroso capolavoro, nessuna difficoltà da parte del Vecchio Scriba ad affermarlo: Francesca è un battito d’ali di una poesia crudele che muta la sua pelle e la fa divenire un lenzuolo di lino per accerchiare il dolore. Una lunga proiezione nel salone in penombra di ogni paura permette alla musica di essere cinematografica, maestosa, attraversando modalità diverse, una lunga apnea che, tramite trame fitte di tristezza imbevute di speranza, si tuffa nel testo che rivela forze multiple, per assestare alla sofferenza un duro colpo. Si ritorna nella prateria, si incontrano caratteri possenti come quelli dei lupi, per poi valutare le perdite e le conquiste che vengono tradotte da una musica saggiamente straziante ma con le finestre aperte…


Un lavoro che dovrebbe conoscere l’espansione massiccia nel cielo dei vostri ascolti: complimenti davvero Gaia!



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Dicembre 2023


https://open.spotify.com/album/1CkWdOGM0QaHiukbRDIc0Z?si=oeBNEKsrTMaQfXZwaxaeyg

martedì 28 novembre 2023

La mia Recensione: Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo


Umberto Maria Giardini - Mondo e antimondo

Non ci restano che i miracoli per poter ambire alla salvezza e alla soddisfazione, alla realizzazione di se stessi, a trovare un senso che trasformi il superfluo in un motore che generi petali profumati. Esiste ancora la fortuna da cui attingere energia e spunto, il salvagente che permette di nuotare nello spasmo allucinante della vita. Se volgiamo lo sguardo all’ambito musicale, troviamo un’anima complice del suo tempo, perfettamente integrata in un rapporto con la Natura, come modalità che rifiuta il completo incrocio con il fare umano, godendo di ogni frammento che la sollevi e la lanci in un mantra spirituale. Il suo nome è Umberto Maria Giardini, tornato a deliziare senza avere in sé gioie e sorrisi da dispensare, aperto nel chiuso dei suoi pensieri, dei suoi atti che hanno la pelle rivestita di note e di racconti, ma non permettendo mai di riuscire a definire il mappamondo su cui lui poggia i piedi. Un album che tatua il suo disincanto per le vicende terrene, spaziando nei secoli con personaggi che raccontano le incapacità, gli squilibri, donando la sua sfiducia (ma solo in parte) per un sistema espressivo (quello artistico) che probabilmente lo lascia perlomeno perplesso. Nelle canzoni però esiste un cuore pulsante, una mente lucida che si adopera ancora per non arrendersi. Che sia vero o meno poco importa: come sempre l’artista di Sant’Elpidio al mare non si è risparmiato con la sua operosa generosità, descrivendo, considerando, spargendo semi di incantevole poesia, per offrire una finestra, una palestra, un moto che per alcuni minuti sa essere folgore nel fragore di ogni nostra fragilità. I suoni sono elettrici, svegli, densi, ma sempre affiancati da un manto acustico che buca il cuore, spiazza e inibisce, dolcemente. Perché davvero si ha la sensazione che UMG abbia scritto una serie di addii, che si sia congedato dalla fiducia, abbia rilevato storture e incapacità, ma sempre con una scrittura piena di immagini che non mancano di mostrare la presenza del compositore, o di offrire un’alternativa consolatoria. Ed è ancora l’amore che innaffia il suo orto vitale, come un guscio che fugge dal suo interno per cercare spazio nel cielo. Non un correre via, bensì un camminare tra una serie di sponde che rimbalzano per non far assentare l’armonia di una mente brillante che scrive la vita concentrandosi sul presente, senza distrazioni temporali. Con il supporto di una vera band il disco amplia il raggio di azione della sua scrittura, non legata al nostalgico passato o totalmente devota alle sue preferenze musicali, ma avvertendo la necessità di esplorare orizzonti nuovi, senza però far mancare quell’indole intimista che lo ha sempre contraddistinto. Lui cammina nell’immaginazione e i suoi spartiti sono veicoli di armonici respiri che spesso si posizionano in paesi lontani da quello italiano. Quando la psichedelia si accoppia al folk, Umberto diventa un mago con il cappello di lana all’interno della foresta nera in Germania, intento a fare degli accordi e degli arrangiamenti una serie di pozioni magiche che servono a restaurare la percezione del tempo e dei luoghi. Questo nomade dell’amore scrive un arcobaleno e lo soffia via lontano (come gesto convinto e necessario), partendo dai circuiti della sua profonda intenzione di non dare troppa fiducia alla musica, ma regalando l’ennesimo suo palazzo mentale dentro il fruscio della straziante abilità di dare alla dolcezza ancora una chance. Ed è così che si manifestano incontri dove i suoi confini si fanno molteplici per definire il mondo e il suo opposto, in una forza fisica in cui il bilanciamento propende decisamente da una parte. Si interroga, in un dialogo fitto con la sua coscienza, e lo fa tra le vie di versi che, apparentemente dorati e lucenti, nascondono una vibrazione amara che permea quasi interamente l’album. Fa oscillare il ritmo, il rock è nell’aria senza dover necessariamente scuoterla, dal momento che le favole hanno sempre bisogno di musiche quasi mute. I suoi occhi impastano elementi facendoli scivolare tra le dita per poi giungere alla sua chitarra. Combinare testi e musica facendo sì che non si disperda nulla è una dote rara: Umberto ci riesce in quanto pilota ogni cosa con idee chiare, scrivendo dieci ali che si alzano al cielo per portare il contenuto al sole, per sciogliere ogni velleità e far morire il tutto tra le sue braccia. Perché davvero sono canzoni con il timer: le devi imparare in fretta, in quanto puoi temere che si dissolvano da qualche parte e in qualsiasi momento.
Sono carezze e sberle.
Come un magnete in un giorno di tempesta ti ritrovi a notare i suoi momenti critici con riferimenti elevati, la tendenza a fare della sua voce il termometro di un sentire sempre più in difficoltà. Ma la classe, il talento lo sostengono per non essere un cattivo esempio. Ecco allora uscire dalla sua penna ventagli di luce a irrorare il cervello.
Mostra i muscoli che non sono inclini a generare terremoti, bensì fiumi di percezioni per poterci far vedere come la storia umana non abbia mai cessato di essere mediocre e approssimativa: dagli imperatori ai giorni nostri, dai barbari alle vette fisiche e mentali, tutto è scomposto e non predisposto alla serenità. Sono le chitarre ad anticipare soprattutto il basso e la batteria, ma capaci di un matrimonio sonoro che dia l’impressione che vi sia un involucro dentro il battito di ciglia di parole che guardano in faccia il pudore, rendendolo timido e insicuro. Giardini investe nell’espressione dell’errore, educa per primo se stesso ad andare oltre la tolleranza, scrivendo il destino dei suoi pensieri perché abbiano sempre gli occhi aperti e concede al sonno di non mutare questa sua abilità.
Mondo e antimondo è un acrobatico volo nelle sterpaglie, nei sentieri della storia, uno smistare, continuamente, parole e musica verso il baricentro impolverato di questo affanno quotidiano. I rapporti umani che lui racconta sono complicità multiple con la forza di una bomba atomica ingentilita ma sempre interessata a scuotere, con garbo e delicata educazione.
L’amarezza, il pessimismo, la preoccupazione per le sorti del nostro pianeta non sono svelati o sbandierati, ma sembrano insinuarsi tra le canzoni, con il risultato di un cerchio carismatico ma complesso. La cura è verso il senso, coinvolgendo i dettagli in un percorso che ingloba come una prolungata apnea: la sua voce è il respiro forte di ogni debolezza mostrata, riuscendo a scrivere un album che abbraccia la fede senza invocarla, una smisurata preghiera nel tintinnio degli affanni.
Ora è tempo di nuotare nelle pozzanghere ben vestite di queste estasianti manifestazioni di forza, per poter addolcire il cuore e l’anima…

Song by Song

1 - Re

La preghiera delle zolle, dove tutto viene diviso, selezionato, è quella che consente di iniziare il nuovo album di UMG. Una sonda che esalta e riporta al centro delle pupille la natura e il percorso umano fatto di dominio e cancellazione di una distanza che è stata cambiata. Robusta e malinconica, prende energia dalla corrente della Manica per portarci le illuminazioni dalla terra di Albione, nel pieno degli anni Novanta. Le campane iniziali ci fanno immaginare la vita delle campagne, il sudore, lo sforzo, la chiamata alla spiritualità che passa attraverso i gesti di chi si china verso la terra. Così fa la musica: muove la mente per farla oscillare in una semi-danza, dove la variante è data dall’emozione delle parole che si incrociano con un arpeggio davvero magnetico…

2 - Miracoli Ad Alta Quota

Continua il viaggio della ricerca delle piccole cose davanti alla grandezza dei confini del mondo, salendo verso l’alto con il rischio di cadere. Per farlo, la musica si fa gentile, con un inizio che strizza l’occhio al folk degli anni Sessanta, per coniugarsi poi con un mantello elettrico che sussurra, mai grida, attraverso piccoli tocchi della sei corde. Il cantato assomiglia all’invocazione degli occhi che reclamano spazi solidi e concreti. Quello che aveva creato come Moltheni qui echeggia, sollevando lembi di pelle, facendo illuminare gli occhi, nell’abbandono necessario, con il tempo che mette le sue mani sulle nostre spalle…

3 - Andromeda

Petali di hard-rock e grunge avanzano sulla superficie sonora, rivelando l’amore dell’artista per i giochi d’atmosfera, il dondolare tra una parte più spinta e una più intima, come se i Soundgarden e Mina si incontrassero per fare colazione insieme. Abile nell’usare bene le disgrazie di Andromeda per compararle a quelle dei giorni nostri, Umberto crea la sua macchina del tempo e mette a bordo una storia d’amore che commuove…

4 - La Notte

Immagina Imagine di John Lennon lasciata davanti alla porta di una storia argentata da una scia del vento: Umberto rende rarefatti i suoni per poi aggiungere del catrame, tra i colpi della chitarra elettrica e un drumming semplice dai suoni perfetti, e la sensazione che durante l’ascolto si stia levitando. La partecipazione della crescita di anime in cammino conduce alla consapevolezza: così fanno le note, per un arcobaleno che pare giungere dalla scena cantautorale genovese degli anni Sessanta, come se tutto fosse su una nuvola e l’autore con dolcezza le avvicinasse alle sue pupille. Il solo di chitarra, grigio e malinconico, è la ciliegina sulla torta di una ballad senza tempo…

5 - Le Tue Mani (feat. Cristiano Godano)

L’amore, nella sua fisicità più profonda e ermetica, viene portato all’interno della storia che vede la voce calda e sognante di Cristiano Godano: una bella sorpresa, per un connubio artistico perfetto, data la vicinanza della sensibilità dei due artisti italiani. Presenze e assenze si palesano nel ventre di un testo notevole, con il pentagramma che assorbe una linea melodica che bacia in modo sublime sia la carriera del leader dei Marlene Kuntz che quella di Umberto. Con la stessa sensibilità dei Low e dei Grant Lee Buffalo, il brano circumnaviga la complessità del sentimento più sussurrato del mondo, e stabilisce, all’interno dell’album, che la chiarezza degli intenti passa anche attraverso questa notevole, e mai creduta possibile, novità.

6 - Versus Minorenne

L’alternative apre le braccia di tutti i musicisti coinvolti, per poi divenire una candela dalla luce bassa, che scalda le volontà delle richieste. La voce di Umberto è una frusta, dolce e gentile, che arriva al falsetto sognante, per poi immergersi tra le parole che ancora una volta avvicinano la natura di un bosco al cuore. Con tracce psichedeliche appena sussurrate, il brano rivela ancora una volta come la potenza del cantato non si separi mai da una coscienza lucida, che annette la ragione alla passione…

7 - Nei Giardini Tuoi

Le prime note della chitarra acustica ci riportano all’album di esordio dei Counting Crows: sono scenari che sembrano far vedere una lingua d’asfalto all’interno di un deserto. Poi i Radiohead soffiano note sui palmi delle mani di Umberto, in un'espressione artistica colma di dolcezza e amarezza, nel dondolio della chitarra elettrica che rende l’atmosfera un sogno sulla schiena delle emozioni più vibranti. Tutto qui è uno sguardo, un addio, che rasenta la perfezione con il finale molto vicino agli Smiths…

8 - Muro Contro Muro

Le lacrime si appoggiano sul fazzoletto, un groppo in gola diventa un sordo tuffo al cuore, e ci si ritrova tra le note del pianoforte e quella della chitarra, che si spalleggiano, per consentire alle parole di planare senza esitazione all’interno di una canzone che rivela tutta la sensibilità di Giardini, che qui dipinge verità puntando i fari negli occhi, creando fatica nell’interpretazione, riuscendo a sbigottire, a lasciare una suspense perfida ma magnifica. Il tempo è un crocevia che consegna la volontà di non rinunciare al dolore, se questo significa poter partecipare a un peccato. Il brano più struggente di quest’opera, che abbisogna di una estrema capacità di separare la storia raccontata da quella nostra. Semplicemente la summa di tutta la sua carriera…

9 - Figlia Del Corteo

L’inizio è una confessione amara, un raggio sbiadito dalla consapevolezza di un’autoanalisi severa, mentre la musica è invece una culla che sembra voler far addormentare le ragioni espresse. La parte strumentale, accompagnata da una chitarra che si accinge a separare la realtà dal sogno, è uno schiaffo lento, con gli archi che gonfiano la pelle di acqua salata. Poi il tintinnio della sei corde elettrica ci porta all’interno di un Dream-pop rarefatto, che chiude questo dolore che ha conosciuto la vergogna, per divenire il pezzo con il quale fare di Umberto un rifugio personale…

10 - Mondo e Antimondo

La coscienza interroga chiunque, in quest’ultimo, strepitoso brano, per donare un ventaglio di risposte che siano colme di idee concrete. Una suite divisa in due parti, dove la prima è una favola lenta, raccontata con un vestito che miscela elettronica e psichedelia, per poi sbocciare nella seconda in una ballad piena di sussurri e spasmi, contenuti in un giro di accordi minimalisti e sostenuti da un arpeggio essenziale, rivelando poi la voce come una lama che assomiglia alla vanga del brano di apertura: sono brividi incolonnati, senza sosta. Il titolo fa presupporre opposti che si guardano in faccia, ma la canzone che dà il nome all’album è un congedo dal sogno, un lungo assolo di fasci amari lasciati marcire, con classe, dentro una nuvola musicale che assorbe lacrime e disincanto. Un mantra, una preghiera pagana, un sussurro senza fine, chiude un’opera devastante: non c’è bellezza senza dolore e nessuno meglio di Umberto sa come renderlo concreto…

Miglior Album Italiano del 2023.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, Inghilterra
29 Novembre 2023

L'album uscirà il primo giorno di dicembre del 2023

Potete ascoltarlo qui:


Potete ordinarlo qui:









martedì 14 novembre 2023

La mia Recensione: Sun's Spectrum - The Silence After The Fall


Sun’s Spectrum - The Silence After All

Immaginate il cielo, pieno di dolori, tensioni, acredini, spasmi, malumori, entrare all’interno di una discoteca, visitare la folle inclinazione alla danza di anime spettinate, perfettamente raccolte da dieci canzoni, e assistere a un delizioso delirio, nel quale tutto si mostra compatto, ossigenato, propenso a sospendere il tempo. Gli artefici di questo spasmo musicale sono due creature notturne di Udine, Italia, supportate magnificamente dalla instancabile Cold Transmission Music, che elevano l’aspetto culturale della danza, non solo quello fisico. Sono temporali ben strutturati, lapilli di luce che educano il pensiero ancora prima del confine corporale, insegnando ai sensi la dilatazione. Si assiste a uno spettacolo di fili, governati dall’incedere elettrico, all’interno di generi musicali che acclamano l’ascolto in quanto consapevoli di poter generare stupore e inesauribile energia. Una valanga di crossover plurimi nei pressi di effervescenti pendii appiccicati a tastiere e computer scatenano il desiderio di fluttuare sulla pista liscia di una notte che intende abbracciare questa formazione, un duo devoto allo studio della storia di quella che erroneamente viene definita musica sintetica: loro sconvolgono il piano della convinzione e, come nuova liturgia, assestano il colpo per dimostrare quanta umanità risieda in queste dieci tracce. Coraggiosi, estremi, oscuri in superficie ma limpidi nella testa, scrivono un album che deve trovare residenza nell’appartamento mentale di esseri umani vogliosi di conoscenza, pronti a misurare il limite della danza e del pensiero, miscelati con capacità ed estrema precisione. Giacenze electroclash si strutturano veementi in colate ebm, che a loro volta prendono la mano della virtù più colta per depositare immersioni pseudo violente nel synth pop intelligente. Una marea di sguardi compenetranti immobilizzano le paure ben rappresentate nei solchi di questo lavoro per giungere all’estasi. Non sfugge il respiro industrial: viene sedotto e inserito nei beats potenti e altamenti onirici, vicini di casa di incubi ammaestrati. Facile avvertire come il divertimento per Livio Caenazzo e Daniele Iannacone sia poter sperimentare formule ardite, adoperando anche la comodità di trame altamente semplici e quindi approcciabili dalla difficoltà di inserimento di proficue incursioni che sfiorano il metafisico. Alienante, nevrotico, ansimante, questo album è uno spettro allo specchio, sotto quel cielo di cui prima. Si viaggia partendo da una base tedesca, con la fantasia belga e jugoslava, per planare infine nel nord dell’Italia: un piccolo mappamondo in grado però di essere generoso e stupefacente, per condurre la volta celeste a sognare la permanenza nella dance hall. Il cantato segue gli indirizzi dei vari generi musicali su cui naviga con elasticità, forza e convinzione. Le chitarre hanno un vestito darkwave, sono quasi perfettamente nascoste, ma quando si avvertono maggiormente sembrano delirare in modo spettacolare, avendo dall’altra parte un programming e una base di synth che rende l’amalgama fluente.
In questo corposo manto scatenato la lenta Epic regala un'emozione diversa e commovente, spettacolare perché la sua lentezza è un palcoscenico sul quale poter riprendere fiato con il bacio di lacrime comprensive.
L’aspetto che incanta in modo celestiale riguarda il fatto che la band sia perfettamente integrata nel mondo tenebroso ma pieno di vita della loro nuova casa discografica, dando alla Cold Transmission Music la possibilità di assestare un’ulteriore scossa al movimento danzereccio tutto, con il sudore, la bava alla bocca e la tensione che disegnano una mefistofelica espressione in chi ascolta. I tre singoli che hanno preceduto l’uscita (God Is a Machine, Paint is Just a Noise e All I Want) hanno doviziosamente creato curiosità e desiderio che, con grandi capacità, sono stati confermati dalle altre sette, per un risultato che fa di questo album quello preferito da ballare per il Vecchio Scriba di questo 2023!


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15th November 2023

Album in uscita il 17 di Novembre 2023







giovedì 9 novembre 2023

La mia Recensione: Neraneve - Neraneve

Neraneve - Neraneve

Ci sono respiri ad alta quota, tra i fasci sonori di cui sono composte le canzoni, capaci di rendere la gravità una molecola piena di vento. Accade in questo EP di esordio di una band che arriva dalla Ciociaria, da quella Frosinone sempre desiderosa di ritagliarsi uno spicchio di considerazione. Cinque delicate intenzioni volte a sondare la malinconia e la tristezza, togliendo loro il piombo che solitamente viene generosamente offerto da precisi generi musicali. I tre musicisti/artisti propendono, invece, a rischiarare il tutto optando per lo shoegaze, inframezzato da battiti dreampop, per un risultato che è davvero sorprendente. 
Il ventaglio di odori che esce dalle composizioni sembra provenire da diversi luoghi, da un range temporale che include gli ultimi tre decenni: grande è la vibrazione che sanno collocare in ogni singolo episodio, per un tessuto forbito e potente, degno di essere messo di fronte a nomi più altisonanti. Audaci, meticolosi, con una gran cura del suono, tutto scorre, come un piacevole sequestro dell’anima, con gli occhi a guardare il vuoto per riempirlo della scia di questi brani, gemelli dei raggi lunari e cugini di quelli solari. Si passa tra la luce e l’ombra con leggerezza, pilotando l’umore verso la comprensione di uno stato sensoriale colmo di sensibilità. È musica che rende evidente l’assenza di un atteggiamento neghittoso per via della fantasia e dell'attitudine ritmica che conduce a una danza sognante, intenzionata a sostare su una nuvola che oscilla tra macchie grigie e gialle.
Tutto comincia da Vento, sonda emotiva che, attraverso una elettronica accennata, apre il polmone in un abbraccio che ricorda gli Slowdive di Souvlaki, per consegnare ai ricordi un appiglio nel mantra che governa l’intero pezzo. Si soverchia il dolore e si giunge alla consapevolezza delle scelte da fare. Sognante e vibrante, è un colpo di fulmine assicurato, in cui la tristezza sorride tra questi sublimi secondi…
Con Quasi niente il ritmo si alza, le chitarre risultano estremamente capaci di prendere la melodia e di portare la parte soffice dell’esistenza dalle parti di un gioco cupo, ma generoso al contempo nel donare l’impressione che si ascolti il tutto sulla schiena delle nuvole. La voce di Magliocchetti è una carezza loquace, genuina, con lacrime che adottano la gioia, quasi nascosta (come consuetudine dello shoegaze), ma estremamente dotata nel saper incuriosire l’apparato uditivo.
Atmosfera è un tuffo lento, un far libare dolci lacrime frizzanti, nel campo dove il riverbero cresce di tono, si veste e scende a valle. Come raggomitolato, in una giornata piena di nevischio, riesce in un miracolo dolcissimo: portare un atteggiamento americano nel centro della città ciociara, con lo shoegaze che trionfa senza aver bisogno di generare muri di caos e di distorsioni.
Dalla ieratica Grandine riceviamo un abbraccio solenne: si sale verso il giardino degli Dei in meno di quattro minuti, ma non vi è dubbio che, partendo dalla breve e oceanica introduzione, si arrivi bene in equilibrio nella zona dove il drumming, le voci e le chitarre stabiliscono il contatto con la grandezza di una composizione davvero notevole. Reading e Londra, così come Boston e Chicago, guardano invidiose…
A concludere questo campionario di bellezza ci pensa Ologramma che, dopo i primissimi secondi che sembrano portare alla memoria i Visage, mischiano certe attitudini pesanti dei Cure di Disintegration con quelle più sottili dei Churchhill Garden, per bussare alle porte di un andamento onirico che rende sottile il nostro respiro. Intrecci di chitarre vagabonde e sensuali, su un ritmo sincopato, appiccicano il bisogno di un rapido riascolto, e un altro ancora…

Le chitarre di Giacomo Tiberia e di Marcello Iannotta sono un regalo del cielo: trame e suoni incantevoli, da visitare e mantenere nel cuore. Un lavoro davvero ben strutturato, con la bellezza della sensazione che abbiamo scoperto dei fuoriclasse: si dia all’intelligenza il compito di abbracciare questo trio…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Novembre 2023


https://neraneve.bandcamp.com/album/neraneve-ep?search_item_id=1146832973&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2954368309&search_page_no=0&search_rank=1&logged_in_mobile_menubar=true





lunedì 30 ottobre 2023

La mia Recensione: Lorenzo Del Pero - Nato il giorno dei morti

 

Lorenzo del Pero - Nato nel giorno dei morti

“La morte e la vita non cambiano mai”

Francesco Guccini


La permanenza degli uomini sul pianeta Terra è una successione di disastri ripetuti, di coscienze private della libertà perché altre, esseri incoscienti,  cancellano l’equilibrio e la giustizia. Ci sono voci che sono corpi pieni di proiettili, fermi, non uccidono, ma mostrano la fatica, la rabbia, l’indignazione, lo studio della fallibilità umana e difendono il corpo di una vita sconfitta con la poesia magica di un lamento dentro note musicali e trame argute, come un termometro lanciato sulle proprie ferite. Il talentuoso Lorenzo del Pero è una di queste sillabe, un uomo in ostaggio dell’infelicità che viene regalata dai potenti, dagli ingiusti, e che ha formato una modalità nuova per non rimanere muto. Un insieme di canzoni straordinarie, non adatte alle persone superficiali, ai ciechi per convenienza, ai sordi distratti da suoni ipnotici che tolgono la capacità di comprendere ciò che accade. Un album che mostra la misura della morte che, spavalda, offre il suo ghigno a chi ama distruggere un dono così prezioso come la vita. Non è un rosario di lamentele bensì una lettura, poetica e potente, che ingloba la scrittura di una ribellione che nasce solo da antenne pulite che possono ricevere e mandare messaggi di riscatto, per nutrire una pianta senza corteccia che aspetta il declino.

Lorenzo ha dato spazio al rock sapiente, quello che usa il rumore solo quando occorre, concedendo spazio ai silenzi e ad atmosfere rarefatte con vocaboli, storie, ragionamenti colmi di vibrazioni nucleari. L’artista pistoiese urla ancora, si dimena e percuote ma, rispetto al passato, trova un equilibrio fenomenale, fatto che gli permette di tenere alta la tensione per tutte e dieci le tracce. Inevitabile pensare che spesso ci vengono alla mente Jimmy Gnecco degli Ours e  Jeff Buckley sotto acido,  mostrando un piglio americano, con chitarre che sono ferite nella carne, per poi adoperare il suo stile cantautorale, come una dovuta anestesia, come il gesto che pone questo insieme sulla bilancia per lasciare tutto integro. Il lavoro con Flavio Ferri e Marco Olivotto ha donato al suo stile e alla sua inclinazione possibilità diverse, direi proprio una crescita notevole, per un perimetro musicale dai confini più ampi, con una fantasia e libertà di esposizione che regalano alla fine dell’ascolto l’impressione di una freschezza e vitalità che meglio si adattano al suo talento, chiaro come la luce di una grotta insanguinata, alla ricerca di un respiro. Si tocca il cielo dove vive la religione, riusciamo a scorgere le carte truccate di una politica schifosa, comprendiamo l’ansia di una soffocante disperazione, constatiamo la lunga fila di sentimenti che vengono schiacciati da comportamenti sempre più indifferenti al rispetto e alla condivisione più pura. Una trascinante processione di personaggi dalle mani pesanti, di storie nelle quali le parole di Lorenzo compiono il gesto sfrontato di una sincerità totale, assumendosi responsabilità e una croce continua, pesante ma necessaria. Principe di approcci nei confronti di chi, come lui, considera il mondo un grande cimitero di rifiuti tossici, si addentra nei vicoli di pensieri che vibrano, con la musica che ispira i suoi percorsi diretti, senza concessione alla falsità. Dato il taglio degli argomenti, ciò che si trova è uno specchio che svela le malefatte, gli sbagli ripetuti, e lui, tramite la sua voce al vetriolo, ci convince della sua autenticità, regalando un imbarazzo che ci fa compiere lo sforzo di crescere. Ruota una molecola di rock intimista, a volte quasi slow core, sicuramente un piccolo ventaglio ad aggiustare la rotta rispetto al suo passato: una modalità espressiva più snella, commovente e ancora straziante, per l’apoteosi che si inoltra nell’alternative prossimo a quello degli anni Novanta. 

I volti, i respiri, le battute d’arresto, i precipizi nervosi sono largamente espressi da una scrittura precisa come un bisturi che, con calore e passione, interviene sulla pelle per renderla ubbidiente al suo senso di giustizia. 

La sacralità è un brusio fastidioso che l’artista usa, schiaffeggiando l’ipocrisia attraverso un apparato fatto di note con l’anima blues, una invocazione che offre il cadavere di un pessimismo naturale, evidenziato ed espresso senza timore. Con la formula di un sistema rock capace di evidenziare la potenza del suono, di ritmiche quasi sempre lente e deliziosamente pesanti, ci si ritrova con il riflesso di un tempo lontano nel quale produzione e arrangiamenti indirizzano la nascita dell’armonia verso un robusto palco che sostiene le torture morali di queste liriche che non concedono pause e tentennamenti. Nato il giorno dei morti è un kamikaze indomito, sorretto da una tempra resistente, un gioiello che scuote e che non scherza affatto: il dolore vissuto, espresso e rappresentato come un rosario ateo, è un boomerang che partendo da Lorenzo arriva a far tremare troni, cieli, ipocrisie, mettendo le divinità di fronte alle proprie colpe. Un disco dove l’amore non è una apparenza di comodo, bensì l'appuntamento con la responsabilità, un impegno che si mette nei panni di una madre mentre perde un figlio, di atti osceni in un teatro ribelle, nel palcoscenico delle movenze come fiumi di barbarie senza via di fuga. Il dito medio, la pulsione punk non serve al poeta del dolore: il suo vocabolario morale è un oceano di consapevolezze che devono diventare uno tsunami innaturale, senza paure, in grado di intossicare i pensieri. Bandisce i tradimenti e con il suo vibrato, il registro alto ma mai tedioso, riesce anche a divenire una carezza, piena di ansia e di progetti, per dare al cielo una possibilità di vedere il nostro pianeta migliorato. 

Impressionante è la miscela di un fare quasi anacronistico utilizzando le nuove possibilità che la tecnologia moderna offre: si ottiene una credibilità che davvero fa dire al Vecchio Scriba che Lorenzo del Pero è cresciuto in modo esponenziale, senza dover rimpiangere le antiche abitudini, non cercando la comfort zone ma con la decisione di gettarsi con ostinazione in una correttezza che l’attuale musica italiana manca di mostrare. 

Di certo il suo osare supera di gran lunga la propensione di colleghi più famosi e amati: questo aspetto depone a favore di questo coraggioso artista che nel suo specificare non teme paragoni, non perde tempo, oscilla sempre tra la verità e il voler modificare la storia. Non subisce ma patisce l’immobilità di un mondo che gli fa venire le rughe nei pensieri. Lotta e conquista una posizione che gli si deve riconoscere su larga scala: un album così potente non lo ascoltavamo da tanti anni. Tocca a noi non sprecare questo invito alla coscienza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Ottobre 2023


L'album uscirà il 3 di Novembre per l'etichetta Vrec





giovedì 26 ottobre 2023

La mia Recensione: Indro Fiume - Io non sono qui

 

Indro Fiume - Io non sono qui


Granelli di gocce decidono di fare un party nella splendida Venezia: assumono personale qualificato per trasformarsi in musiche che sappiano espandere il desiderio di introspezione e mostrare luci rare. La fila concede una chance, un artista all’album di esordio, animato da cellule in discesa libera nel mare che sa definire e collocare molto bene. Il suo nome è Giovanni Conigliaro, in arte Indro Fiume, e sin dal titolo di questa opera marca la sua presenza, il suo magazzino delle qualità pronte a fuoriuscire, nel tentativo di seminare e fortificare la propria città interiore. Suoni agili sia nella potenza che nella rarefazione del suono, uniti per scuotere il nucleo di testi particolarmente abili nel creare crepacci, sia nel fuoco che nei ghiacciai di ognuno di noi. Una chiara venatura poetica si adagia nei versi, ma sempre con trame che si avvicinano alla filosofia e alla sociologia, con il risultato che scuotimenti, riflessioni e slanci partono proprio da lì per raggiungere il palco delle attenzioni celesti: gli Dèi sapranno abbracciare il controllo del suo sapere.

Un rock che mette in superficie chili di post-punk addomesticato, reso obbediente per via della volontà di spaziare, senza bavagli o capricci. La voce è una miscela di petrolio che è ancora bruciante pur provenendo dagli anni Ottanta, potente, assassina, ma con lo zucchero sulla coda delle parole, capace di frustare e accarezzare, di frustrare i pensieri, di rendere docili le onde di un evidente decadentismo ammaestrato. Un lavoro perfetto, davvero impressionante. Giovanni raccoglie i cocci di un mondo a brandelli, lo fotografa, poi lo ipnotizza, infine lo compatta con splendide cicatrici che mostrano il suo notevole impegno. Colora la vita con circospezione, quasi timoroso, ma poi deflagra maestosamente, equilibrando la tavolozza dei colori che riescono a emergere, solo superficialmente, dalla preferenza verso il grigio. Le chitarre provengono da una precisa intenzione di essere compagne di viaggio di amici sonori che si affiancano con fluidità e armonia, con vertici preferenziali che spesso si mostrano ai cancelli espressivi dei Cure, dei Killing Joke, dei Joy Division e dei Diaframma (soprattutto nella modalità del canto in alcuni brani). Si palesa anche una spinta cantautorale italiana che favorisce emozioni continue, come vascelli che sanno muoversi in agilità anche nei deserti. Ed ecco che un mood progressive si affaccia spesso, insieme a un'onda alternative per un bilanciere perfettamente saldo. Quando arrivano sprazzi di post-rock si capisce come l’universo musicale dell’autore veneziano sia impressionante, vasto, e come la regia perfetta riesca a saldare in modo encomiabile il tutto, elevando e seminando stupori in modalità continua. Non si tratta di imitazione, bensì di un insieme di lezioni perfettamente apprese per poi andare oltre, verso una identità che si mostra originale e sicura. Io non sono qui è un’insieme di particelle piene di creatività, sapienti nel mostrare i danni e poi una riflessione che prima le accudisce, poi le libera rinvigorite. Undici vibrazioni acquee, scie percettive in cerca di un approdo che sappia divenire sabbia fosforescente e nutriente. La capacità di amalgamare visioni, immagini, suoni fa di questa corporazione sonora un incontro doveroso, decisivo, se le braccia della nostra intelligenza si rivelano davvero tali consegnando a Giovanni affetto, stima e riconoscenza. Riuscire a far sentire la tristezza e la preoccupazione come un beneficio che lui stesso trasforma per primo è davvero strabiliante: un’opera a portata di quelle anime che fanno dell’ascolto il primo valore, la prima pedina per arrivare a giocare con la vita raccogliendo il vento pieno di palpiti mai in dispersione. Una esibizione di talento indiscutibile che va posizionata dentro la massa, come urgenza, perché il beneficio del navigare insieme a queste onde è indiscutibile: fuori dalle palle i cliché, le tendenze, che si fotta il sonno culturale italiano (e non solo) e si dia modo a questo artista di avere un palco affollato di soddisfazioni. Un album meraviglioso che arriva sulla coda di questo 2023. Conservatelo nella memoria e usatelo in quanto le sue piume potrebbero conoscere lo spazio nella vostra eternità: la malinconia veneziana ora è una sirena in viaggio all’interno di un caldo applauso…

L'album è in uscita domani, 27 Ottobre 2023

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Ottobre 2023




mercoledì 18 ottobre 2023

La mia Recensione: Gintsugi - The Elephant in the Room

 Gintsugi - The Elephant in the Room


“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo.”

Sigmund Freud


Questo battito, pellegrino, stanco, voglioso, bianco, scende dal suo trono e si schianta sui piani scoscesi della mente, la centrale nucleare di ogni dolore. Storie, vicende, contorsionismi vari, ben assortiti e mal assortiti, si stringono nell’esistenza che cerca appigli. In questo contesto arriva una donna dalla lingua tagliente, dal polso di ferro, dalla disciplina che si posiziona in ogni gesto, pensiero, con la ferocia gentile, per permetterle un ampio raggio di azione. Si chiama Gintsugi, la voce che scioglie le crepe di metallo per appiccicarsi alla dolcezza, con un piano vivace volto a stregare le stelle, il creato, il tempo per unirli a un esercizio che abbaglia: portare l’oscenità del dolore a scuola, insegnarle la vita e gettarla in mezzo a note vergini ma già ferite… Le corsie immaginifiche, le espressioni mai troppo didascaliche lanciano la giovane artista italo-francese con continuità in un confine mai squadrato, dalle lunghe sponde incontrollabili. Si finisce per tremare, piangere, riflettere, con impianti di luce a visitare l’imprevisto del vivere, i suoi arti spesso poco graziosi, per entrare in una lavanda gastrica all’altezza del cuore. Ci si ritrova, sbagliando, con la presunzione che l’intera opera abbia propensioni oniriche: è la realtà, le verità e le menzogne del vivere che Gintsugi ci mostra, in un pentagramma accordato all’autenticità. Si incontrano modalità espressive che variano, ma che senza dubbio fanno dell’art rock il principale punto di riferimento. Non si possono negare altre matrici, impronte classiche e pop oliate, come garanzia di un progetto molto largo nelle intenzioni, sino a creare un clamoroso concept album, pur magari non avendone avuta intenzione. 

Già a partire dal titolo (una frase idiomatica inglese davvero esaustiva e potente) per continuare con la toccante immagine di copertina, tutto si posiziona, sin dall’inizio, sul piano dell’impresa totalizzante, paralizzante, per concludere nello stato di necessità di continui ascolti. Non è un insieme sonoro fuori dal tempo attuale, non si confonda l’assenza di frastuono come un appiglio verso espressioni  più antiche. La freschezza di questo incredibile talento sta nella maturità, per trasformare la clessidra in un doveroso esercizio di intese al fine di non sprecare nulla di ciò che sta accadendo. Quando, oltre al suo strumento principale (il pianoforte), si sentono gli archi, arrivano piccole vibrazioni nei parchi del suo sentire, posizionando perfettamente il concetto di fruibilità, continua e incessante. La sua dolcezza è una sonda che affonda, porta la schiuma alla bocca per essere sputata, con classe, sui tasti del suo pellegrinaggio emotivo, in un dinamico visitare gli animi, spostando accenti, sciogliendo torsioni e paure. Quattro singoli, due brani strumentali, una cover pazzesca, basterebbero per rendere inossidabile questo disco: difficile che possa subire graffi.

Si prenda Lilac Wine: la splendida cover di Elkie Brooks, del 1978, che parla della perdita di un amante con il conforto del vino ricavato da un albero di Lillà, rivela una portentosa attenzione ai colori della sua ugola e viene cantata come se quel dolore le appartenesse, orchestrando il tutto in una miscela di lacrime e speranze.  È proprio questo magnetico bisogno di affrontare quello che è disagevole e contrario a insegnarci molto sul piano umano. Le musiche sono il suo primo vocabolo, il suo nascente nervo, il crescere confrontandosi con suggestioni senza freni, con il fiato infinito, il suo affiancarsi a riflessioni che trovano voce nelle note, perché non si attribuisca solo alle parole il ruolo di comunicare pensieri…

L’elettronica, i timpani, i tamburi, quello  che sembra laterale alla struttura è invece un magnete quasi invisibile che compatta queste cascate espressive, emotive, razionali, che diventano spesso maree struggenti, incontrollabili. Ci si può schiantare davanti questo insieme, occorre essere preparati e molto forti.

Sono composizioni che rivelano impeti, capogiri, pianificazioni tenuti insieme da un arco equilibrato che sa scagliare frecce nel cielo di ogni imprevedibile bisogno. Gintsugi è una direttrice d’orchestra di un tutto che ci arriva addosso, adoperando momenti più accessibili ad altri nei quali ci si sente gettati violentemente a terra. Le sue peculiarità vengono, facilmente direi, riassunte da una voce e dalla modalità del canto che oscilla, come un’altalena mistica, nel tempo, per spostarsi, avendo grandi punti di riferimento, artisti che hanno fatto la storia dell’interpretazione. Doti naturali, innegabili, però si consideri anche che in questo album non possono sfuggire studi profondi, accurati e intensi: tutto doveva profumare di un odore prossimo alla perfezione. Quando i suoni dell’ugola si assentano (dopo aver procurato intensi traumi), la parte musicale fa altrettanto: non c’è competizione, bensì un acclimatarsi nell’unica direzione voluta che è quella di non essere solo performanti ma soprattutto efficaci. Si riscontrano momenti di grandi fragori (l’iniziale Mon Coeur e Hex), per poi sentire il fruscio delle nuvole accarezzare i nostri capelli, sino a penetrare il cranio e ad arrivare al cervello. In quel luogo, grazie a questi sfavillanti terremoti sonori, tutto si fa argilla, in uno stato febbrile. Si sfiorano attimi in cui la tensione pare prossima all’horror, dove le nuvole degli accadimenti umani sembrano schiantarsi e cadere sino a raggiungere il ventre del pianeta terra. Altri, invece, in cui le canzoni sembrano respiri invisibili, imprendibili, che veicolano colori pieni di vita. La sofferenza, in questo innegabile capolavoro, non è un impedimento: direi invece una occasione per imparare, trasformare il nero in un atto di vincita. Esiste lo spazio per i sogni, possono essere visti, coccolati, vissuti in queste tracce? Assolutamente no, ed è proprio in questo aspetto che si deve esaltare la grandezza di una donna che cammina a testa alta con il vento della contrarietà che l’affronta, uscendone a pezzi: Gintsugi ha una serie di armi dolci e potenti per vivere il presente come una volontà e attitudine. Il Vecchio Scriba scriverà presto una recensione sui testi: altri miracoli che rendono questo ascolto un beneficio doveroso e piacevole, soprattutto istruttivo. In un brano specifico vediamo emergere la sensazione che lei abbia imparato ad attingere da una fonte preziosa: il brano è To Grace, figlio splendido delle assurde capacità visionarie di Tori Amos. Molte sono le frequentazioni del suo potente background, ma nessuna poi così decisiva: il suo più grande merito è quello di possedere uno stile proprio, intrigante, strabordante, capace di una identità personale indiscutibile. Prodotto da lei stessa e dalla Beautiful Losers di Andrea Liuzza (anch’esso presente nell’album), questo vascello di piume risulta compatto, in uno slancio che pare portare dietro di sé scie di lacrime sorridenti in un giorno in cui tutto sembra essere sottoposto al duro giudizio di un cielo pieno di lampi. Nove esplosioni con le redini, dove tutto ciò possa andare all’interno di una pellicola per posizionare il proprio destino: un esordio così potente sarà una delle meraviglie che rimarranno nella sfera temporale per la durata dell’infinito.

Non scriverò la recensione canzone per canzone, perché non puoi entrare dentro il vento e perché per vedere una rosa sbocciare non puoi mettere le dita al suo interno…

Rimane la convinzione che questo sia il primo vero CAPOLAVORO dopo tanti anni, e per farlo rimanere tale bisogna essere discreti: lo si ami, lo si ascolti, lo si porti nel centro del nostro bisogno, ma si tenga sempre una distanza che si chiama rispetto, in quanto Gintsugi lo merita più di tanti altri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19 Ottobre 2023


In uscita il 20 Ottobre 2023


https://gintsugi.bandcamp.com/album/the-elephant-in-the-room-2




La mia Recensione: Man of Moon - Machinism

  Man Of Moon - Machinism Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze...