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domenica 19 febbraio 2023

La mia Recensione: Angustia Espiritual - Angustia Espiritual

 Angustia Espiritual - Angustia Espiritual


Costa Rica: una pietra lontana, con la pelle rugosa ma con un'anima liscia che permette alla vita di risiedere, completamente. E dove la morte è un mistero da osservare da vicino. Quale modo migliore se non quello di scrivere canzoni che la sondino, la portino nei territori di consapevoli connessioni e conseguenti tumulti?

Sono in quattro, pieni di Deathrock nel cuore e nelle attitudini, negli spasmi e nel desiderio di vivere e amministrare il nero, il caos, di produrne a loro volta, guerrieri senza tracce di paura nel loro solchi così tetri ma chiari al contempo: sei dardi e sei occasioni per capire che non c'è Paese al mondo che sia privo di queste cellule innevate di oscurità, la stagione dell'inverno da quelle parti sembra addirittura più difficile della nostra. Ed è chitarra lamento, basso portentoso, batteria come uno sciacallo e la voce come una fiala che evapora nella mente. 

Il vecchio scriba si accende un incubo e lo accarezza: Angustia Espiritual è il piacere di un lento delitto nella sua mente corrotta dalla bellezza dei ragazzi di San José ed è tempo che lo condividiate con lui...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19 Febbraio 2023


https://angustiaespiritual.bandcamp.com/album/s-t






My Review: Fearing - Shadows

Fearing - Shadows


Oakland has been the capital of Postpunk and Deathrock for years.

In the case of Fearing, we have a band that knows how to combine the lessons of Postpunk and Gothic Rock, a difficult and dangerous task.

Homogeneous mixtures show themselves with a wealth of ideas and powerful technique, giving their ten malignant compositions an irresistible charm: they create an addictive cinematic mode that leads one to see their steps offend the earth we don't even look at. They do, however, and manage to bring the dust they trample into these songs, mothers and daughters of a bleak predisposition to annihilate dreams. 

A resounding debut, which draws an absolute certainty into our lives: this union of musical genres is a form of abandonment that ravages the arteries, it may be because of guitars with salt on the strings, it may be because of a bass that offends life and tribal and blasphemous drumming, but in the end we will be buried by black beauty...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19th February 2023


https://fearing.bandcamp.com/album/shadow-2





La mia Recensione: Fearing - Shadows

 Fearing - Shadows


Oakland è la capitale del Postpunk e del Deathrock da anni.

Nel caso dei Fearing, abbiamo una band che sa coniugare la lezione del Postpunk e del Gothic Rock, operazione difficile e pericolosa.

Miscele omogenee si mostrano con una ricchezza di idee e tecnica poderosa, dando alle dieci maligne composizioni un fascino irresistibile: crea dipendenza una modalità cinematografica che conduce a vedere i loro passi offendere la terra a cui noi non volgiamo nemmeno lo sguardo. Loro lo fanno, invece, e riescono a portare la polvere che calpestano dentro queste canzoni, madri e figlie di una tetra predisposizione ad annientare i sogni. 

Un debutto clamoroso, che disegna nelle nostre vite una sicurezza assoluta: questa unione di generi musicali è una forma di abbandono che sconquassa le arterie, sarà per via di chitarre con il sale sulle corde, sarà per un basso che offende la vita e per un drumming tribale e blasfemo, ma alla fine saremo sepolti dalla bellezza nera…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19 Febbraio 2023


https://fearing.bandcamp.com/album/shadow-2





martedì 14 febbraio 2023

La mia Recensione: Götterdämmerung - Intensity Zone

  Götterdämmerung - Intensity Zone


Il vecchio scriba vorrebbe vivere a Berlino: va bene che non sia così, potrà sempre avere questo desiderio. Ed è vero in quanto la musica in quella città è stracolma di ogni sorta di precisione, in essa la dispersione viene raccolta e usata. Questo accade anche nella musica e nel caso di questa band e del lavoro in questione direi che sia un esempio perfetto per specificare il pensiero.

Un album sporco, pesante, multidirezionale, spavaldo e arroccato sul suono che raramente ai giorni nostri capita di notare. Perché il disco è godimento puro: vengono fatti a pezzi dei generi musicali (Deathrock su tutti) rivitalizzandoli, verniciandoli di un nero opacissimo. Dando spazio a emanazioni di gas lisergico negli episodi che paiono meno votati alla velocità estrema. Chitarre dal timbro evidentemente caldo, distorte ma il giusto, e una batteria che farebbe sorridere il diavolo per quanto maligna, sono le regine di queste canzoni infettate anche da una parvenza di Gothic Rock che calza bene con i testi e la dimensione di forza compatta che vuole essere un atto di convincimento del tutto riuscito. La perfezione passa da queste parti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 Febbraio 2023


https://gotterdammerung.bandcamp.com/album/intensity-zone




My Review: Götterdämmerung - Intensity Zone

Götterdämmerung - Intensity Zone


The old scribe would like to live in Berlin: it's OK if he doesn't, he can always have that desire. And it’s true that the music in that city is overflowing with all sorts of precision, as it’s dispersion is collected and used. This also happens in music and in the case of this band and the work in question I would say it is a perfect example to specify the thought.

A dirty, heavy, multi-directional, swaggering album with a sound that is rarely seen nowadays. Because the album is pure enjoyment: musical genres are ripped to shreds (Deathrock above all), revitalising them, painting them opaque black. Giving space to emanations of lysergic gas in the episodes that seem less devoted to extreme speed. Guitars with an evidently warm timbre, distorted but just the right amount, and drums that would make the devil smile as malignant as they are, are the queens of these songs also infected with a Gothic Rock veneer that fits well with the lyrics and the dimension of compact strength that is meant to be a completely successful act of conviction. Perfection passes this way....


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14th February 2023


https://gotterdammerung.bandcamp.com/album/intensity-zone





lunedì 23 gennaio 2023

La mia Recensione: False Figure - Castigations

  False Figure - Castigations


Oakland, la città ideale per il vecchio scriba, produce tonnellate di dolore, spruzza identità in decomposizione e apre il cimitero della vita per iniettare musica tremenda e veritiera. Con simili presupposti ascoltare questo album e vedere la band in un mortale stato di forma è un piacere prelibato e infinito. Colpi di Deathrock e Post-Punk avvelenato dalla penna del leader André Ruiz, un guerriero ferito e successivamente contagiato dall'ondata necrofila degli anni ’80, che sia il nord-ovest americano o la vecchia Europa, quella Inglese dei Killing Joke, dei The Chameleons e dei Cure, o quella dei tedeschi Belfegore. 

Il basso e la chitarra sono atroci delitti in essere, ciechi e irrispettosi, sparano ovunque e comunque, per sterminare la felicità. Nei versi aleggia il bisogno malinconico di dubbi in fase di resa, con la musica che dà loro una mano, anzi, si direbbe una spinta finale per il precipizio. Se questo è un disco di debutto, difficile è immaginarne altri visto il caos che regna e, se invece ne scriveranno ancora, allora si dovrà credere alla resurrezione: lo scriba tifa affinché nessuno muoia, ma sperando che non vi sia scheggia di fuoco a mancare nel loro futuro, perché questo lavoro avvicina alla fede ridotta in frammenti di ogni sconfitta, piacere sublime...

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Gennaio 2023

https://transylvaniantapes.bandcamp.com/album/false-figure-castigations




sabato 21 gennaio 2023

My Review: Deep Cavity - Cathedral of Tears

Deep Cavity - Cathedral of Tears


California chewing and spewing deathrock is what moves the old scribe: it's the kind of music that makes him feel at home. Here we are in Riverside, eighty kilometres from Los Angeles. Not enough distance not to feel the fascination of that black spot that saw the birth in the late 70s of many bands willing to visit the dark atrium of the soul. The quartet produce a trio of rough songs that, starting from a Post-Punk structure, arrives very quickly in the damp cave of Deathrock to devise a way to turn tears into a solid, scratchy blanket: a way to irritate the skin with a strong guerrilla warfare, to exercise, “happily”, all the characteristics of that musical genre that has eternal life guaranteed in those parts. Danny Aranda, Alejandro Aranda, Jose Argueta and Daniel Avila are the bearers of a dying verb with the voice of the former reminding us of the Supreme Priest and only recognised God of this desecrating planet. The core of the band is the acid stings of Daniel's guitar and the contortions of Jose's bass. Alejandro Aranda drumming is pagan poetry, sensual and devastating, as his drums are the embrace on which listening bodies can throw themselves into the basement of the inner cave. Esotericism becomes cruel love and this Ep will be the refuge where deluding oneself to see the light will be a bitter smile, but the only joy granted…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st January 2023

https://deepcavity.bandcamp.com/album/cathedral-of-tears





La mia Recensione: Deep Cavity - Cathedral of Tears

 Deep Cavity - Cathedral of Tears 


La California che mastica e vomita Deathrock è quella che commuove il vecchio scriba: è il genere musicale che lo fa sentire a casa. Qui siamo a Riverside, a ottanta chilometri da Los Angeles. Distanza non sufficiente per non sentire il fascino di quella macchia nera che ha visto nascere alla fine degli anni 70 molte band propense a visitare l’atrio oscuro dell’anima. Il quartetto produce un trio di canzoni ruvide che, partendo da una struttura Post-Punk, arriva molto in fretta nella grotta umida del Deathrock per escogitare il modo per trasformare le lacrime in una coperta solida e graffiante: un irritare la pelle con una guerriglia ferrea, un esercitare, “felicemente”, tutte le caratteristiche di quel genere musicale che da quelle parti ha la vita eterna garantita. Danny Aranda, Alejandro Aranda, Jose Argueta e Daniel Avila sono i portatori di un verbo morente con la voce del primo a ricordare il Sacerdote Supremo e unico Dio riconosciuto di questo pianeta dissacrante. Il nucleo centrale della band è dato dalle punture acide della chitarra di Daniel e dalle contorsioni del basso di Jose. Il drumming di Alejandro Aranda è poesia pagana, sensuale e devastante, perché i suoi tamburi sono l’abbraccio su cui i corpi in ascolto possono buttarsi nel basamento della grotta interiore. L’esoterismo diventa amore crudele e questo Ep sarà il rifugio dove illudersi di vedere la luce sarà un sorriso amaro ma l’unica gioia concessa…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Gennaio 2023

https://deepcavity.bandcamp.com/album/cathedral-of-tears



giovedì 24 novembre 2022

La mia Recensione: carillon del dolore - fiori malsani

La mia Recensione:


carillon del dolore - fiori malsani 


“Fa parte delle imperfezioni e delle rinunce della vita umana il fatto che la nostra infanzia debba diventarci estranea e cadere nell’oblio, come un tesoro sfuggito a mani che giocavano, e precipitato in un pozzo profondo.”


Herman Hesse


Qualcosa di eterno vive nel dolore, nella corsia cattiva di ogni oblio, nella supremazia del male che rappresenta l’uccisione dell’esistenza.

A una città in particolare tocca il triste primato di simboleggiare perfettamente tutto questo ed è quella nativa dello scriba: la maliziosa e velenosa Roma, la Regina di nefandezze, turpiloqui, devastazioni, colei che ha rubato il sole solamente per mostrare gli incanti illusori della bellezza, mentre nei sotterranei della sua mente scorrevano getti di morte senza chiusura.

Non sorprende che la band più significativa della capitale sia un riflesso fenomenale di antichi riti e quindi rilevante e sublime per questa contemporaneità ignorante che rifiuta la conoscenza e la coscienza del vero.

Questo serpente dal veleno incestuoso optò per un nome stratosferico, un’ottima potenza conquistatrice: già, è insito nel dna che al destino non si possa porre opposizione. Perfetto, per spalancare il cuore verso capricci di bisogni impestati, i ragazzi iniziarono proprio da quell’aspetto fondamentale, una attrazione fatale, obliqua, spigolosa, morbosa, cadaverica. 

Provenienti da due formazioni diverse, iniziarono subito a mettere le mani sulle frattaglie di pozioni lancinanti di scarnificazioni dal puzzo angelico nero, senza dubbi, per distinguere ogni atomo di melmosa illusione. Dovevano trafficare con ciò che suona perverso, ricoperto dalla pesantezza che schiaffeggia, ferisce, uccide.

Misero in atto una processione del suono, una facilità di note grasse e sgraziate, perfettamente allineate al selvaggio senso di soffocamento, nel vuoto cosmico di esistenze lamentose, come un vascello dai buchi pieni di sangue, naturalmente annerito e puzzolente. Sicuramente davano fastidio senza curarsi di verificare: come sacerdoti menefreghisti dovevano continuare a professare il verbo del dolore, dipingendo le note di una malattia incurabile. Fu proprio questo esordio il momento della più grande esibizione di classe marmorea del loro breve ma intenso percorso: sebbene la stragrande maggioranza abbia preferito l’Ep “Trasfigurazione”, lo scriba definisce invece “fiori malsani” il loro tempio perfetto, per la purezza vomitata senza eccessi di bravura tecnica e di produzione, ma con l’indiscutibile capacità di mostrare un talento puro, con la giusta dose di contaminazioni. Ancora capaci di non dover necessitare di termini di paragoni ingombranti, offensivi, limitativi e dannosi, tutto ciò che sta al suo interno è una fragorosa bomba sensoriale che trafigge la pelle e la mortifica.

Con un prologo e sei vere e proprie successive lame metalliche a completare quella che allora fu una uscita su cassetta, l’album permise alla band di trovare martelli come puntine da disegno con le quali graffiare la scena gotica italiana avvezza al copia e incolla. Lo fecero pure loro nel secondo lavoro, poco male: qui si trova il Sacro Graal della band capitolina, il suolo consacrato all’eternità che, come sappiamo bene, è l’unica perfezione che qualifica qualsiasi cosa e qualsiasi presenza umana. I suoni sono gli avamposti di inclinazioni atti ad attivare reazioni immediate, con le future architetture melodiche a definire la loro validità, tra devastazione e diabolico piacere. Quote di raffinatezza raggiungono i sepolcri del cielo, attraverso un filo diretto con i corpi mefistofelici del centro del pianeta Terra, in una congiunzione funzionale e sequestratrice. Sono scintillii, lucidi, metallici, che schiacciano le adenoidi e i respiri, un funerale con i nostri corpi ancora in vita ma pronti a scendere nell’abisso. 

Questo lavoro mette distanze, si separa dal flagello imitativo e proprio per questo motivo riesce a sostenere, come calamita impavida e crudele, un esercito che arriva come il prodotto dei due fratelli fondatori di quel delirio senza catene che è Roma.

Si scavalcano i generi, si oltrepassa il confine di ogni limite interpretativo e ci si libera di ogni zavorra: tutto si fa sudore, lacrima, confusione, annettendo il libero arbitrio che sfugge alla dipendenza, all’interno della nostra sconfitta, perché si finisce per adorare il tutto, dando loro, in modo manifesto, il più gonfio dei trionfi.

Ascolti queste canzoni come se avessi la consapevolezza della velocità di trasformazione della nicotina in un mare di petrolio che velocemente arriva ai tuoi gangli della base: rischi una malattia degenerativa, per diventare succube di uno strazio in grado di rendere il tuo apparato uditivo uno schiavo nero, gotico, preso a calci.

Il drumming è l’ingresso del precipizio, con memoria post-punk di manifeste influenze, in grado di un punto di contatto, come il soffio divino rappresentato nell’affresco di Michelangelo Buonarroti all’interno della Cappella Sistina, e le chitarre sono oscene rappresentanti della ferita mentale della storia dell’uomo. Un delirio di perfezione che rallegra seppur in mancanza di ossigeno. Ed è il festival del rumore che danza tra accordi e pulsioni estorte, nella via crucis obbligatoria di uno stordimento continuo. Carillon del Dolore è un bambino che sconfigge la vita sin da subito, non spreca il tempo e comincia ad assassinare i sogni, usando la fantasia per creare campi magnetici, e non immaginifici, per sconfiggere il pietoso mondo adulto.

In questo album più che canzoni troviamo compartimenti stagni di suoni continuativi, dove ciò che emerge è il senso e non il vestito semplicistico e fuorviante di schemi volti a differenziare le creazioni. I Romani giocano sporco, vogliono spaccare il sistema dell’omogeneità, del catalogabile, del già sentito, e salgono sul palcoscenico di un teatro temporale per massacrare la canzone: un omicidio dove gli strumenti sono alleati fedeli di un nichilismo che forma intelligenze innegabili, solitarie, chiuse in loro stesse mentre ci aprono le carni. 

In seguito arrivò l’attrazione per la già nota forma Deathrock, eleggendo i Christian Death come i loro Vangeli apocrifi, da cui attingere e apprendere. 

Qui no.

Qui, nel volume macabro che non abbisogna di maestri, sono loro stessi gli insegnanti che hanno sviluppato studi, teorie, esercitando il potere di uno stupore continuo, abrasivo, pelvico, senza possibilità di smorzare la loro forza.

L’Italia musicale, agli inizi degli anni ’80, importatrice schiava dell’assenza di uno spirito di avanguardia necessario (ormai da molto tempo), non poteva meritare questa effervescente dimostrazione di genialità e originalità, e li ha condannati al culto di una minoranza che però non si è lamentata: ancora oggi questa band genera cupe propensioni adoranti, rendendo ridicolo il potere dell’industria musicale e di gran parte di quella editoriale del settore, che ha sempre mostrato un colpevole disinteresse. 

Poche eccezioni: espressioni di un tutto vergognoso.

Nello scenario vacuo italiano, i Carillon del Dolore diventano angeli che, dall’alto di tenebre temute, allacciano un discorso per le anime vogliose di perlustrare i confini laceranti di ascolti massacranti che pochi volevano sperimentare: tutto trova esaltazione proprio all’interno di “fiori malsani”, un sisma di cui l’informazione ha voluto tacitare l’esistenza, perché la democrazia si prefigge solo e sempre di portare il finto bene e, quando si parla di cronaca nera, solo un ammasso di uccisioni ahimè convenzionali. Ma questo plasma nerastro abita altre forme sinistre, evoca l’intollerabile, e già per questo motivo entra nei territori pieni di ringraziamento dello scriba. 

La voce e il cantato in questo primo episodio è l’autoscontro immediato tra la comodità e la fascinazione del ventre verso poltiglie che stimolano reazioni adoranti e piene di piacevole disagio. 

Prendete le vostre contorte curiosità e prestate attenzione: si va nel petrolio emozionale dipinto di nero, per meglio conoscere queste sette spade insanguinate.


Song by Song 


1 Prologo 


Quarantanove secondi usciti da frammenti di luce di un film di Mario Bava per creare la tensione sinistra di una ninnananna di malate vicissitudini a noi segrete. Il crooning è ipnosi e le note che appaiono giocano con l’ombra.



2 A Kind Of Love/A Kind Of Hate


Tra Death in June e Super Heroines, inizia il colloquio sonoro di chitarre come frecce bagnate nei pressi di pendii di allucinanti pendenze e tamburi medievali ricoperti di molecole infette di peste bubbonica. Grida come code di lamenti e non resta che farsi trasportare dal vorticoso ritmo che accelera ogni paura.



3 On A Poetic Morning 


La pioggia invita il binomio basso e chitarra a fare della batteria una tempesta di lampi accaldati con la voce lamentosa che sembra un malevolo sottofondo. I Virgin Prunes mediterranei suonerebbero in questo modo, con la frustrante sensazione che la canzone sia il luogo della nostra totale devozione. Giungono chitarre come strali perpetui a rinsaldare il legame come una sezione ritmica avvelenata.



4 R.H.S.


L’episodio più “convenzionale” dell’album si apre con una chitarra semiacustica sorprendente per poi condurre il brano nello schema Darkwave, ma con il marchio di fabbrica di piccole schegge deathrock che preparano la base futura della band. È caos ragionato perché melodico quanta basta per consentire spazi di un classicismo che, in mano a questi suoni, incanta.



5 Elegy For A Friend


La malata esibizione di una classe hors catégorie è composta di metalli fuori dagli amplificatori, sbigottiti dai vortici di greche rimembranze, che sfidano Roma la spavalda. Il cantato è un processo di depurazione che consente alla sezione ritmica uno spazio che si alterna per rendere il brano omogeneo. Ed è San Francisco nel tempio gotico che aspetta la cugina Los Angeles, per un banchetto sonoro che lascia bava ai lati della bocca.



6 Crawling Over The Window (Just Like A Fly)


Non mancano i Joy Division portati al manicomio, bloccati da catene pesanti, la voce si esibisce da molto lontano, con timidezza, ma le tonsille sono graffianti ed efficaci. Una cantilena uscita dalla porta dell’inferno, una trascinata zoppia gotica che isola la voglia di vivere, schiacciata dal drumming post-punk imbevuto di sale e dal basso che pare una percussione a sua volta.



7 Pain


I capolavori sono vestiti spesso di piccoli cenni, contemplano la lentezza e la precisione, tutelano ogni spreco con l’abbondanza di drammi rappresentata da una parata di codici. Si può essere adulti solo quando il dolore separa il sogno dai bisogni e questo accade nella presente voluminosa dimostrazione di crateri che si sciolgono davanti alla classe di questi ragazzi dai respiri imbrattati di morte. È acidità gotica che esce dalle catacombe romane per immobilizzare il benessere e scatenare le corsie della sofferenza, sempre in una modalità lenta, al fine di assicurare la riuscita, per poi lanciare la sfida con accelerazioni che portano la mente e i corpi nel precipizio che aspetta travolto dal godimento. Qui regna la Roma del dolore e qui inizia la nostra gioia.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Novembre 2022 




martedì 9 agosto 2022

La mia Recensione: Moonlight Meadow - Moonlight Meadow

La mia Recensione: 


Moonlight Meadow - Moonlight Meadow


La valigia della mente dovrebbe essere una risorsa: dove esiste anche solo possibilità di un viaggio i nostri pensieri dovrebbero già costruire sentieri infiniti.

Il viaggio della musica è multiforme, senza limiti, sospeso sino a quando non entri dentro i suoi confini. La maggior parte della musica non è conosciuta: questa è una tristissima verità e realtà, sfortunatamente connesse.

Prendiamo questa band Polacca, tre anime, cortocircuiti di nuvole fredde ma non pesanti, in movimento costante dentro la rassegnazione dei sogni, guerrieri senza tempo, mentre combattono il calore di un mondo incapace di una giusta comunicazione. Nel 2019, dopo quattro anni fatti di amalgama e la individuazione di baricentri essenziali, proposero il loro album di debutto che finì nel silenzio della maggioranza di persone disattente e incapaci di prestare attenzione a questo combo che invece aveva prodotto un insieme di perle di elegante tristezza, dai testi impegnativi, evocativi, disarmanti, alla fine davvero utili. E la musica scritta si muove su rotte già percorse in precedenza da lavori noti e famosi, ma i tre meritavano una chance: la qualità che si trova in queste undici tracce è spesse volte superiore a quelle band che invece hanno avuto successo.

La disperazione in questi solchi non soffoca, non deprime, non fa cambiare umore, piuttosto è una serie di raggi X che tolgono la voglia di parlare perché il loro referto è impietoso, veritiero, devastante.

Sono sogni che danzano dimessi, dentro recipienti di acqua che si sporcano di malinconia e assuefazione, divenendo getti di amore nero dirompente, gravità spesso in orbite di pensieri che si assentano. La voce, impostata e grattugiata da secoli di devastanti umori decadenti, infierisce, attacca e abbatte, mentre la musica che le sta attorno dimostra come i generi musicali con i Moonlight Meadow siano scuse prestigiose, atti di morte rigogliosi, che si spostano tra scintille di gothic Rock di stampo Fields of the Nephilim, nella marea della Coldwave di matrice belga, il Postpunk tedesco e alcune lievi presenze di Deathrock abilmente nascoste per non infierire.

Ma la Russia è sempre lì a dettare le linee guida della freddezza mentale, la lucidità che deve sempre troneggiare.

Se si cercano influenze precise (esercizio facile ma sterile, perché i tre dimostrano una grande varietà di qualità proprie), si decide preventivamente di non prestare un ascolto preciso che rivelerebbe le molteplici braccia, arti che accolgono i respiri e le capacità che vanno riconosciute. L’album ci porta in luoghi che conosciamo, offrendo però sorprese e la difficoltà di gestione: innumerevoli sono i momenti nei quali una sensazione violenta rapisce tutta la convinzione che abbiamo per ucciderla, perché la bellezza fa anche questo.

Il sentore che questo sia un gioiello sepolto dall’indifferenza si precisa di canzone in canzone, lasciando i pensieri sotto un maremoto di grande rabbia e frustrazione: album come questi dovrebbero suonare all’infinito nei circuiti dei nostri cuori pesanti per trovare nelle canzoni amici e compagni di frustrazioni, sempre più pericolosamente in aumento.

Ascoltandolo si percepisce come la musica elevi le nostre sensazioni specificandole, unificandole, portandole a spasso nel teatro della nostra follia non come consolazione, bensì come atto di vita ineludibile.

Le chitarre sono sirene con il burqa: fanno intuire una presenza bellissima ma non la svelano mai completamente, regole di disciplina che conducono alla struggente convinzione che vi siano impianti di luce confinati nel magazzino del vuoto, dove tutto muore. Infatti: la sezione ritmica si fa possente come atto consolatorio e la voce da una parte distrae e dall’altra santifica la bellezza di quei giri armonici che fanno di quello strumento la regina dell’album.

La fascinazione avvolge il tempo corrompendo i luoghi: si diventa tutti alunni delle ombre, corpi in fervente attesa di un dramma peggiore che arrivi per togliere definitivamente il dolore, ma i tre amano l’onestà ed esagerano nel loro campionario di frecce velenose dal ritmo scostante, nel movimento infallibile del campionario di sgomenti dei quali loro mostrano tutte le sfaccettature, rendendo l’album semplicemente perfetto.

È arrivato dunque il momento di spegnere le candele e di divenire il buio perfetto per illuminare queste undici folli dame dal sorriso obliquo…



Song by Song



Temptation


Misticismo e dolore aprono l’album, con sofferenti chitarre iniziali per poi divenire un lampo dal basso grasso, la batteria che disegna con semplicità e possanza il ritmo che travolge la pianura Polacca, in un paravento che lascia passare sguardi di tenebra. Drammatica, ossuta nel suo scheletro balbuziente, l’apertura di questo esordio è salvifica, perché conosciamo già la direzione e la specificità del terzetto.



An Old Dream and Love


Chitarra come una cesoia che ha l’appuntamento con la morte, la voce trova il suo respiro dentro un sogno che nasconde le sue storture, per conferire al brano blocchi di acciaio dal colore grigio, senza vento. Il basso è un animale preistorico, con le sue note rotolanti che mettono le mani su quelle della chitarra, per mostrare al cielo che il Goth è ancora una risorsa incommensurabile. 



Empty Waters


Le tenebre mostrano veli e denti, accarezzano e mordono con questo brano che sembra uscito dall’officina del mistero dei primi anni 80, dalla parte di Leeds. Un movimento sonoro breve circoscrive la drammaticità di presenze sconvolgenti nel testo che è un testamento, una cronaca dolorosa, la chitarra abbaia ai Cure di Faith con più drammaticità, mentre il silenzio vuole trovare rifugio ma queste note lo scavano e lo inchiodano con la sua nenia teatrale.



City of Nights


Il Post-punk cerca un anello di congiunzione con la Darkwave e lo trova: il matrimonio sarà lungo, perfetto, lancinante, pieno di polvere da sparo tenuta pericolosamente sveglia. Il ritornello è un groviglio di aperture con il registro della voce che si alza verso il cielo, aprendo le sue mani al Dio dello sconforto. Anche il nero ha una faccia Pop e qui indossa la maschera che connette il mistero alla visibilità.



…Lost Dream 


Si torna ad un ritmo più lento, Carl McCoy e i suoi vampiri suggeriscono la trama di questa chitarra che scava nella carriera dei Fields of The Nephilim per onorare la parte onirica dell’esistenza. Ed è perfezione che acceca, l’emozione è tutta nella chitarra che circonda la voce, che si astiene dal voler imitare quella di Carl, ma la suggestione musicale conduce proprio nella terra della band di Stevenage. La sorpresa arriva con il basso che pare una farfalla piena di acqua: pronto a precipitare riesce a stare aggrappato perfettamente alla chitarra.



Dance


L’unica canzone dei Moonlight Meadow che potrebbe vivere, stazionare, trovare spazio nelle radio gotiche: ha tutto per essere una cometa dal vestito elegante e capace di strutturare, nella nostra mente, la certezza di una danza piena di coltelli imbevuti di veleno perché questo brano ferisce per il suo testo, per le sue chitarre in odore di Banshees, il suo respiro vicino ai Red Lorry Yellow Lorry, ma con l’accortezza di non disperdere il suo primogenito impeto che è quello di essere prima di tutto un atto di devastazione.



Distant Memories


Psichedelia gotica, delirio che nei primi secondi ci porta all’horror rock e al vittimismo meraviglioso dei Cramps, per poi deflagrare nella corsia Darkwave senza temere di essere uccisa, in una bolla di mercurio che rileva temperature basse, si trema con i cambi ritmo, con il basso che spara missili di terra umida e la voce che dialoga con il tempo attorcigliandosi per non lasciarsi sconfiggere. Brano costruito in pieno controllo, dove le soluzioni minimaliste devastano per intensità.



Stranger


Los Angeles chiama, Lublin (Polonia), risponde: è tempo di Deathrock, che ha necessità di corrompere magnificamente le trame ipnotiche di note musicali che sono imbevute di morte e di disperazione. Mantra portato vicino ad una chiesa sconsacrata, dove non esistono preghiere o cori ma solo il canto di un ragazzo che ha deciso di esibire le sue litanie: operazione riuscita, con la musica che benedice questo viaggio nella città americana.



Moonlight Meadow


Il basso e la chitarra invocano il misticismo: c’è bisogno di un delirio, di una presenza che sia capace di dare da mangiare alla paura. E allora ecco il crossover di post-punk e Darkwave che trovano residenza in questi minuti per portare la nostra tensione ad albeggiare. È estasi che si scioglie nei sentieri di una melodia color cedimento strutturale definitivo. Quando la gioia ha le piume piene di petrolio.



Distorted Mirror


Quando l’anima, ferita e acciaccata, si guarda allo specchio, trova questa magnifica presenza ipnotica che ha il nome di Distorted Mirror, la ballata della consapevolezza dentro chitarre che odorano di pioggia, e si riesce ad intendere quanto ciò che è nato in Inghilterra negli anni 70, il Post-punk e la Darkwave, siano ancora i regnanti, capaci di intossicare ogni zona del mondo, compresa la Polonia. I tre bevono la lentezza in un calice pieno di olio, per poi gettarlo via e accelerare per ricongiungersi ai Fields of The Nephilim in un finale stratosferico.



Farewell to Childhood


L’album ci saluta con un neon che fa oscillare la luce in una chitarra poetica, quasi saggia, quasi unita alla dolcezza, illudendoci con magnifica qualità. É un faro, il brano, che riesce a far sembrare le canzoni precedentemente ascoltate un pericolo scampato, solo un brutto incubo. Abbiamo modo di danzare ad occhi chiusi senza temere di sentire qualcosa di disagevole: la chitarra ci pilota verso un raggio di luce che forse non è poi così male poter ascoltare…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

9 Agosto 2022


https://open.spotify.com/album/0LIXIv3OkGyb6pOVKa1AtL?si=oS4szKBIS_uQVhvEsC1LMQ






sabato 9 luglio 2022

My Review: Diavol Sträin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 My Review:


Diavol Sträin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


The Chilean city overlooking the harbour has enchanted the Italians so much that they have named it Valley of Paradise: where there is a conquest there is always a foolish kindness. It cannot be denied that those places are fascinating, but let the citizens decide on the name. It is from here that I start: from the name, the beginning of a life with so much of its destiny already determined right from the outset. 


Here we are talking about the dark beauty, the one that does not deny the high expressive capacities of a combo devoted to splendour inside a cave where mysteries and intertwined affairs live on.


The two gothic corsairs create a more complex work than the previous Todi El Caos Abita Aquí, producing a magnetic box full of innovations and contaminations: they surprise themselves and make all this an achievement on our part.

Energy comes out of garages full of symbols and sacred dust, blessed by the God of pain, to give the dark sound a remarkable strength. Energy and melody become a necessity that explains events capable of producing shivers and bitter but wise observations. The bass sound is muffled, fraught with molecular fates capable of producing power and suggestions.  The guitar is an intense den of hard-working mosquitoes, with the propensity to be enveloping, looking to the sky and the world's piles of rubble. 

Compact songs, with marks of mental viruses out of control, with Deathrock stigmata that refuse to let themselves be imprisoned and know how to visit the range of possibilities they need. Intelligent, with an innate propensity to expand their feeling, they are Priestesses of the human mystery that elevates to the utmost power the sacred temple of the fragility of places, of seemingly joyless stories: real, concrete, we can only bless their aptitude for discovering the intercourses of fragility. Ethereal dreams for our ears to convert into precious files for our reasoning: each song on this album defines a loss from which to learn about reality.

With these gems, we experience a sonic menace which is made graceful by music that allows bows and prayers, like long days on the books of world history. On the curtain embalmed lights of the most seductive blackness contemplate ideas of aggregation with grey flashes, like crystals corrupted by a necessary and splendid carousel of complicity. A continuous outburst into pugnacious moors, with decisive steps, where nothing is shaky but where the dream sometimes leads to atmospheres layered and corrupted by the beauty of their ever-expanding feeling.

One is impressed by tracks that can reveal a dynamic propensity for non-violent but politely rude wickedness, just enough, in swinging games of austere and multifaceted seeds. They are attractive grains of wheat, lost in their own beauty, masters of versatility and candour. With the capacity for a sound derivative of Post-Punk and the Californian Deathrock zone, the band writes songs to give their vocals a chance to be flames of lethal gas, with the gothic redundancies of the 80s, evident but sweetened.

A visceral and magmatic sea, sonic paths that make beauty precise, a poem on the skin made steep by human events full of multiple incandescences. There is the life of stray souls, but not meaningless: the lungs, listening to these mental robberies, wriggle dreamily, with black confetti smiles, for a cathartic process with a light cap on the surface. One is compelled to pleasurable suffering, one senses and then understands that the two are enchanters of rituals that perform a beautifully crafted analytical process, one feeds on crumbs of shuttered happiness.

Mortality is applauded, despair and anxiety are companions of obligatory breaths and they know how to coexist, giving the impression that the night extinguishes the fear that is invited to emerge. They are steel songs, fragile sheets that have ghosts protecting them, to become rituals of perfect neurotic dances.

One lives in a necropolis that is more confused than ever, in a collapse of happiness that is no longer necessary: all this does not, however, make the album exclusive for black souls because it grants access to all those eager to investigate the irregular flows of difficulty, of the world in constant abandonment of the capacity to create serenity. Listening should be enforced by law: black coats to be worn, univocal, to wisely decree the reality of existences now close to the fall of hope.

We come out of the tombs not as zombies but as living beings who try to live again differently, noting the inevitable repetition of errors by which we are subjugated. Diavol Strâin is a real flame, a skein of spastic nerves necessary for the conscience that tries deception but fails with them.

They are witches with poisonous hands, quick, slow, succulent, conjugated to their hieroglyphic writing, emotional storms that sweep through to separate the fog from the fake rays that invade the streets. Chile here finds precise apostles in wanting their expressive autonomy, where elegance marries anger with crooked, decadent, sublime smiles.

They are black-clad gangsters, ancient, groping, but not devoid of consciences that stir the limbs of the mind, like violently suspended peristalsis: to listen to this beam of darkness is to become aware of the traffic of pain that spreads in the strings of their hearts.

They are vampires facing the moon, scorching souls who penetrate with an album that grates the wind and sweeps away confusions: methodical, precise, alienating, abundant in their sonic mantras, queens of the realm of dissatisfaction, they make their songs like loaves of bread without crumb. The taste is bitter, like certain dreams, opening the funereal skies of the night zone in search of peace, finding damnation instead.


There are darkwave dregs between the fingers of the two musicians: Ignacia and Lau do not seem afraid to surround their emotional burden with foams clinging to that musical genre that has managed to arrive even in that land generous in hospitality. And so here they are plunging towards boundaries that can enhance and better specify an undeniable ductility, that openness granted only to those who make knowledge a point of departure and not of arrival. 

Warriors of enigmas, in a world filled with news but not with information, these coupled turbulence know how to generate questions, offer doubts, with melancholic propensity, even to the point of making us cry bubbles of despair, understandably. A wild band that starts with Edgar Alan Poe, because of a writing that faces the terror of existence with kilometres of nightmares lined up, of a horror that becomes literary lymph, until it meets the religious belonging of one's own identity, annexing insecurities that convey a preparatory enthusiasm. One can surrender to difficulties, but with this band one learns to love them, rejecting whining in order to shake ourselves and begin the journey into darkness.

They seem to throw acid, heavy stones and then retreat into their intimacy, without delay. Magical, almost naive, very powerful tracks that live on the outskirts of our dreams with the tide, when the water seems to leave our lungs. They can be trusted. Because they are necessary, companions of solitudes that improve our breaths. They put eye-liner on our energy-deprived flows to encourage us, like an apparent deception. Digging into these forty-seven minutes, however, we have the certainty of their authenticity. Which becomes the altar where we lay down our mediocrity and hand them a papyrus of ancient velleities, burning them before their eyes with devotion.

Often the guitars are shrieks that move with bass lines (daughters of the spirits of Araucania), to dance full of impeccable solicitations towards the place of perdition. Like a hill of sins in search of forgiveness, the songs are often splinters that flee from hope, as rivals of nonsense, to breathe in all reality as proof of abilities that are applauded by the sacred fire of the sun.

The distorted arpeggios create metaphors, lamps of oblique wind, the bass instead serious and obscure melodies, pulsing with sick oxygen: necessary incandescences to understand what we are in the days of deception.

Music like quality whiskey, to stun, inebriate, corrupt every temptation. Music that clears the past of all misunderstandings: there is also something new that lives in the breaths of timeless songs, valid for eternity. It is hypnotic fluid that knows how to fill the flasks of our gothic need, like an effervescent cascade of healthy desire.

I guess it’s time, in order to better understand this album full of seaweed and sharp flights of consciousness, for a complete incursion through its tracks, arming ourselves with an open mind and a black lipstick in our hands…



Song by Song 


Caida Libre


Tenebrous, fast, an attack on our heart with its limpid connection between Darkwave and Post-punk kissing in the rush of a flash.


Destiny Destrucción


With a stylistic approach reminiscent of many bands from the Oakland scene, the track lives on the explosive connection between the distorted bass and the guitar full of gothic fog.


Lilith


It shows all the duo's ability to make their music magnetic: the rhythm decreases and the suggestions increase, a slow ascent to the sky with a melancholic flight.


El Reflejo de Mi Muerte


The syncopated drum machine, the bass pressing on our belly and then off: the guitars bring all the sadness and vitality of awareness, with the voice magnificently capable of being hysterical and malignant.


Herz Der Niemand 


Deathrock shows itself with light footprints, on vocals that explode with magnets stuck in the fog. An almost hidden electronic inlay presents itself in this track, which ultimately turns out to be the most elaborate and mysterious song on the album.


Ruinas


Hell is dressed for a moment of sweetness, almost shoegaze, with the guitar cradling the dream of being a black caress for a few minutes.


Nacidas del Fuego


Pins of moss-filled caves, the gothic belly pulses bloody liquids for a track that creates a tense, soft, hypnotic atmosphere.


Cotard 


Surprising and astounding, all the duo's imaginative talent sows its seeds in a breath that touches the corals of poetry.


El Ansia


Between Xmal Deutschland and Esses, Diavol Strâin launches into an anxious dance, grating all the Darkwave scenery that looks towards Deathrock with religious devotion. The bass and guitar seem at times to take turns to seduce the satanically laughing ghost.


Ylak 


Queen of clouds filled with pathos, the song declares all the creative possibilities of the Chilean band. A gentle howl, the guitar scratching respectfully and the vocals seducing like honey does with a bear's nails.


Inferno


After a beginning that leaves seeds of The Banshees, here is the jerk and the rush in the Los Angeles that welcomes anyone with the need for deathrock urges in their veins. 


Uroboros


Everything comes to a close in the best way: still something new, amazing, with echoes of Hannett's work with Joy Division. Something shatters while keyboards take the stage for a magnetic track, full of continuous loops. A stratified song, with cleverly connected zones that convey pleasant connections to Anja Huwe's band and the dark Germany of the 80s. Vocals disappear and an enveloping and sensual atmosphere sings.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10th July 2022


https://open.spotify.com/album/2izATdFOO5hG5deyCyUt4a?si=ossBb4YlSSuxHIKl9fDyug










La mia Recensione: Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 La mia Recensione:


Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


La città cilena affacciata sul porto ha incantato gli italiani così tanto che l’hanno denominata Valle del Paradiso: dove c’è una conquista esiste sempre una gentilezza stupida. Che poi quei luoghi siano incantevoli non lo si può negare, ma lasciamo che siano i cittadini a deciderne il nome. È da qui che parto: dal nome, l’inizio di una vita con tanto del suo destino già determinato sin da subito. 


Qui stiamo parlando della bellezza cupa, quella che non nega le altissime capacità espressive di un combo votato allo splendore dentro una grotta dove vivono misteri e faccende legate tra di loro.


Le due corsare gotiche creano un lavoro più complesso rispetto al precedente Todi El Caos Abita Aquí, confezionando una scatola magnetica colma di innovazioni e contaminazioni: si sorprendono e fanno diventare tutto questo una nostra conquista.

L’energia esce da garage pieni di simboli e polvere sacra, benedetta dal Dio del dolore, per conferire al suono cupo una forza notevole. Energia e melodia diventano una necessità che spiega vicende capaci di produrre brividi e constatazioni amare ma sagge. Il suono del basso è ovattato, gravido di destini molecolari capaci di produrre potenza e suggestioni.  La chitarra è un covo di zanzare laboriose, intenso, con la propensione ad essere avvolgente, guardando al cielo e ai cumuli di macerie del mondo. 

Canzoni compatte, con impronte di virus mentali fuori controllo, con le stigmate Deathrock che non si fanno imprigionare e sanno visitare la gamma di possibilità di cui abbisognano. Intelligenti, dalla propensione innata a espandere il loro sentire, sono Sacerdotesse del mistero umano che eleva alla massima potenza il sacro tempio della fragilità dei luoghi, di storie apparentemente senza gioia: reali, concrete, possiamo solo benedire la loro attitudine a scovare gli amplessi della fragilità. Sogni eterei per le nostre orecchie da convertire in file preziosi per i nostri ragionamenti: ogni canzone di questo album definisce una perdita da cui apprendere la realtà.

Con queste gemme si vive l’esperienza di una minaccia sonora aggraziata da musiche che consentono inchini e preghiere, come lunghe giornate sui libri della storia del mondo. Sul sipario luci imbalsamate dal nero più seducente contemplano idee di aggregazione con lampi grigi, come cristalli corrotti da una necessaria e splendida giostra di complicità. Uno sfociare continuo in lande combattive, con passi decisi, dove nulla è malfermo ma dove il sogno a volte conduce ad atmosfere stratificate e corrotte dalla bellezza del loro sentire in espansione continua.

Si rimane impressionati da tracce che sanno rivelare una dinamica propensione alla malvagità non violenta ma educatamente rude, giusto  il necessario, in giochi altalenanti di semi austeri e poliedrici. Sono chicchi di grano attraenti, smarriti per la loro stessa bellezza, maestri di versatilità e candore. Con la capacità di un suono derivativo dal Post-Punk e dalla zona californiana del Deathrock, la band scrive canzoni per dare alle voci la possibilità di essere fiamme di gas letali, dalle ridondanze gotiche degli anni 80, evidenti, ma edulcorate.

Un mare viscerale e magmatico, percorsi sonori che rendono precisa la bellezza, una poesia sulla pelle divenuta ripida da vicende umane pregne di incandescenze multiple. C’è la vita delle anime sbandate ma non per questo prive di senso: i polmoni, all’ascolto di queste rapine mentali, si contorcono sognanti, con sorrisi dai coriandoli neri, per un processo catartico con il tappo leggero in superficie. Si è costretti a una sofferenza piacevole, si intuisce e poi si capisce che le due sono incantatrici di riti che espletano un percorso analitico di grande fattura, ci si ciba di briciole di felicità otturate.

Alla mortalità si applaude, la disperazione e l’ansia sono compagne di respiri obbligatorie e loro sanno convivere, dando l’impressione che la notte spenga la paura che viene invitata ad emergere. Sono canzoni siderurgiche, lamiere fragili che hanno fantasmi che le proteggono, per divenire riti di  danze nevrotiche perfette.

Si vive in una necropoli più che mai confusa, in un collasso della felicità non più necessaria: tutto questo non rende però l’album una esclusiva delle anime nere perché concede accesso a tutte quelle desiderose di indagare sui flussi irregolari della difficoltà, del mondo in costante abbandono della capacità di creare serenità. L’ascolto dovrebbe essere imposto per legge: camici neri da indossare, univoci, per decretare sapientemente la realtà di esistenze ormai prossime alla caduta delle speranze.

Si esce dalle tombe non come zombie ma come essere viventi che riprovano a vivere diversamente constatando l’inevitabile ripetersi di errori da cui siamo soggiogati. Diavol Strâin è fiamma reale, una matassa di nervi spastici necessari per la coscienza che prova l’inganno ma che con loro fallisce.

Sono streghe con le mani velenose, rapide, lente, succulente, coniugate alla loro scrittura geroglifica, tempeste emotive che travolgono per separare la nebbia dai finti raggi che invadono le strade. Il Cile qui trova apostole precise nel volere la loro autonomia espressiva, dove l’eleganza si sposa alla rabbia dai sorrisi storti, decadenti, sublimi.

Sono gangsters dagli abiti neri, antichi, brancolanti, ma non scevri di coscienze che smuovono gli arti della mente, come peristalsi violentemente sospesa: ascoltare questo fascio di tenebra significa divenire consapevoli del traffico di dolore che si sparge nelle corde del loro cuore.

Sono vampire affacciate sulla luna, anime roventi che penetrano con un album che grattugia il vento e spazza via le confusioni: metodiche, precise, alienanti, abbondanti nei loro mantra sonori, regine del regno della insoddisfazione, fanno in modo che le loro canzoni siano pagnotte di pane senza mollica. Il gusto è amaro, come certi sogni, che aprono il cielo funesto della zona notturna in cerca di pace, trovando invece dannazione.


Ci sono scorie Darkwave che stanno nelle dita delle due musiciste: Ignacia e Lau non sembrano impaurite nel circondare il loro carico emotivo con schiume aggrappate a quel genere musicale che ha saputo arrivare anche in quella terra generosa nell’accoglienza. E allora eccole immergersi verso confini che sanno esaltare e meglio specificare una innegabile duttilità, quell’apertura concessa solo a chi fa della conoscenza un punto di partenza e non di arrivo. 

Guerriere degli enigmi, in un mondo colmo di notizie ma non di informazione, queste turbolenze accoppiate sanno generare domande, offrire dubbi, con malinconica propensione, sino a farci piangere bolle di disperazione, comprensibile. Una band selvaggia che parte da Edgar Alan Poe, per via di una scrittura che affronta il terrore dell’esistenza con chilometri di incubi messi in fila, di un orrore che diventa linfa letteraria, sino a incontrare la religiosa appartenenza della propria identità, annettendo insicurezze che veicolano impeti propedeutici. Ci si può arrendere alle difficoltà, ma con questa band si impara ad amarle, rifiutando i piagnistei per darsi una scrollata e iniziare il percorso dentro le tenebre.

Sembrano lanciare pietre acide, pesanti, per poi ritirarsi dentro la loro intimità, senza indugi. Brani magici, quasi ingenui, molto potenti, che vivono nella periferia dei nostri sogni con la marea, quando l’acqua sembra congedare i polmoni. Di loro ci si può fidare. Perché sono necessarie, compagne di solitudini che migliorano i nostri respiri. Mettono l’eye-liner ai nostri flussi privi di energie per rincuorarci, come un apparente inganno. Scavando in questi quarantasette minuti abbiamo però la certezza della loro autenticità. Che diventa l’altare dove posare la nostra mediocrità e consegnare loro un papiro di antiche velleità, bruciandole innanzi ai loro occhi, con devozione.

Spesso le chitarre sono degli strilli che si muovono con giri di note di basso (figlie degli spiriti dell’Araucania), per danzare piene di sollecitazioni irreprensibili verso il luogo della perdizione. Come una collina dei peccati in cerca di perdono, i brani sono spesso schegge che fuggono dalla speranza, come rivali delle sciocchezze, per respirare ogni realtà come prova di capacità che trovano l’applauso del sacro fuoco del sole.

Gli arpeggi distorti creano metafore, lampade di vento obliquo, il basso invece melodie gravi e oscure, pulsanti di ossigeno malato: incandescenze necessarie per capire cosa siamo nei giorni dell’inganno.

Musica come whiskey di qualità, a stordire, inebriare, corrompere ogni tentazione. Musica che sgombra il passato da ogni equivoco: c’è anche del nuovo che vive nei respiri di canzoni senza tempo, valide per l’eternità. È fluido ipnotico che sa riempire le borracce del nostro bisogno gotico, come una cascata effervescente di salutare bramosia.

Direi che è venuto il momento, per  meglio intendere questo album pieno di alghe e acuti voli di coscienza, di una completa scorribanda tra le sue tracce, armandoci di apertura mentale e di un rossetto nero tra le mani…


Song by Song 


Caida Libre


Tenebrosa, veloce, un attacco al cuore con la sua limpida connessione tra Darkwave e Post-punk che si baciano nella corsa di un lampo.


Destino Destrucción


Con un approccio stilistico che ricorda molte band della scena di Oakland, il brano vive dell’esplosiva connessione tra il basso distorto e la chitarra piena di nebbia gotica.


Lilith


Mostra tutta l’abilità del duo di rendere magnetica la loro musica: il ritmo diminuisce e aumentano le suggestioni, lenta ascesa al cielo con un volo malinconico.


El Reflejo de Mi Muerte


La drum machine sincopata, il basso che preme sulla pancia e poi via: le chitarre portano tutta la tristezza e la vitalità della consapevolezza, con la voce magnificamente capace di essere isterica e maligna.


Herz Der Niemand 


Il Deathrock si mostra con impronte leggere, sulla voce che esplode di magneti conficcati nella nebbia. Un intarsio elettronico quasi nascosto si presenta, in questa che alla fine risulta essere la canzone più elaborata e misteriosa dell’album.


Ruinas


L’inferno si veste per un attimo di dolcezza, quasi Shoegaze, con la chitarra che culla il sogno di essere per pochi minuti una carezza nera.


Nacidas del Fuego


Spilli di grotte piene di muschio, il ventre gotico pulsa liquidi sanguinolenti per un brano che crea un’atmosfera tesa, morbida, ipnotica.


Cotard 


Sorprendente e stupefacente, tutto il talento fantasioso del duo getta i propri semi in un fiato che sfiora i coralli della poesia.


El Ansia


Tra Xmal Deutschland ed Esses, Diavol Strâin si lancia in una danza ansiosa, grattugiando tutto lo scenario Darkwave che si affaccia sul Deathrock con religiosa devozione. Il basso e la chitarra sembrano a volte alternarsi per sedurre il fantasma che ride mefistofelicamente.


Ylak 


Regina delle nuvole dense di pathos, la canzone dichiara tutte le possibilità creative della band cilena. Un ululato gentile, la chitarra che graffia rispettosamente e le voci che seducono come il miele fa con le unghie dell’orso.


Inferno


Dopo un inizio che lascia semi di Banshees, ecco lo scatto e la corsa nella Los Angeles che accoglie chiunque abbia nelle proprie vene la necessità di pulsioni Deathrock. 


Uroboros


Tutto approda verso il congedo nel modo migliore: ancora qualcosa di nuovo, stupefacente, con echi del lavoro di Hannett con i Joy Division. Qualcosa si frantuma mentre la tastiera prende il palcoscenico per un brano magnetico, pieno di loop continui. Canzone stratificata, con zone sapientemente collegate che regalano piacevoli connessioni con la band di Anja Huwe e la Germania scura degli anni 80. Le voci spariscono e a cantare è un’atmosfera avvolgente e sensuale.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Luglio 2022












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