Visualizzazione post con etichetta Alternative Rock. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Alternative Rock. Mostra tutti i post

domenica 26 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Vauxhall and I

 La mia Recensione:


Morrissey - Vauxhall and I 


Un uomo è una pietra che accoglie il sole, il muschio, il vento, la pioggia, la neve, l’efferatezza umana, testimone della gioia e della tragedia, il custode del tutto, muto e capace di accogliere.

Poi c’è un uomo poeta, uno sguardo immenso, intenso, che cade nella sua penna come una piuma anche se ha sulla schiena tonnellate di nero, perché questo è il suo compito: arrivare con leggerezza anche se appesantito, questo è il ruolo suo, sino alla fine.

Il suo nome è Morrissey, la lacrima sinuosa che viaggia nei decenni con gli occhi sempre più cinici, nostalgici, obliqui e pesanti, ma ciò che ci dona alla fine ha un qualcosa di magico, prezioso, vero che non si può rifiutare.

Introspettivo, rassegnato, pessimista, riesce con un verso solo a darci forza malgrado questo magma soffocante: è il suo indiscutibile talento, ciò che lo eleva sul palco del vincitore, dove non esistono più gladioli bensì spine velenose.

Il più perso tra le anime perse, incredibilmente diventa l’unico appiglio per chi pensa di essere solo e perduto. Ascoltando lui si difende il diritto alla vita, si smette di morire quando ci si sente vivi nonostante la depressione, ancora prima di resuscitare, perché la sua voce e le sue parole ti incollano al desiderio di voler vivere, anche se con il suo stesso sguardo verso il basso.

Morrissey torna con un nuovo fascio di canzoni, ci fa entrare nelle sue sommosse, nelle sue disperazioni, con le sue rabbie a cui ha messo dei filtri e, abbracciandoci con la sua consueta gentilezza, ci mette tra le mani il suo calvario recente, i suoi respiri agitati, con parole che sanno attraversare ogni ostacolo, per arrivare a vedere pienamente che la sua carriera è il miglior metodo per arrivare a trovare noi stessi.

Un album assolutamente capace di mostrare questo poeta in grado di compattare il suo passato e offrirci nuove visuali, nuove prospettive per un’anima così vasta da risultare impossibile da comprendere e valutare, perché non ci rimane che l’adorazione per la sua abilità nel frullare i suoi eventi pubblici e privati per poi farci bere sorsi di un vino prelibato. Unico.

Canzoni che hanno un movimento riconoscibile ma nuove in certi momenti, che sorprendono per la sua propensione a donare brillantini su ferite aperte: sa pennellare armonia laddove esiterebbero presupposti per raccogliere solo lacrime. 

C’è un uomo che appartiene a se stesso, che cattura tutto come se fosse ossigeno, che manifesta solo il desiderio di scrivere e cantare l’universo corrotto da malinconie senza freni a mano, con l’intenzione di lasciare all’eternità il dono della sua testimonianza, come una risorsa alla quale lui per primo sa che pochi faranno affidamento. Forse nemmeno lui, e questo lo rende intenso e credibile.

Le sue canzoni, in questo straordinario Vauxhall and I, ci fanno toccare i respiri, suoi e dei suoi tormenti, e il loro ascolto diventa un nuotare dentro di lui, sino a scomparire.

Il bardo pone domande, sentenzia passando al setaccio sentimenti e comportamenti, produce rumori nello stomaco, gratta la polvere delle abitudini e, con spavalderia, si distanzia da ciò che lo opprime, costruendosi il suo eremo, fatto di delicata tensione emotiva, sino a sbattere la porta andandosene con le sue parole nella tasca.

Con i suoi problemi si riempie e ci riempie il cuore: ciò che il cielo gli ha regalato in queste canzoni è un disegno affinché siamo noi a beneficiarne, per coccolare la sua sofferenza e restituirgli quello che lo stesso cielo gli ha negato, ovvero la possibilità di essere come tutti noi.

Il suo vocabolario, sempre denso di cumuli di saggezza decadente, vira verso l’apoteosi donando immagini fluorescenti, domando i suoi terremoti per non cedere, lui che è sempre a un passo dal dirupo.

Insieme a Viva Hate, questo album rappresenta la capacità di unire le forze con le debolezze, dove la sua vita non è un gioco ma un crocevia esasperato, trafficato da elaborazioni continue, esperienze che spaccano le rocce, fanno piangere le tossine che vorrebbero rovinare i tessuti della sua bellezza, fallendo.

L’abilità, di Smithsiana discendenza, di dare alla voce il ruolo di sospendere il significato di piombo conficcato nelle parole con la sua propensione verso un canto che sappia far galleggiare le tensioni è ancora intatta, magnifica e decisiva, tenuta volutamente viva, ad altissimi livelli.

Alain Whyte e Boz Boorer sono i suoi due angeli, pittori di note e piloti di intrecci e scorribande rock, con quella faccia pop che ben si addice a Moz. Loro due escono vincitori malgrado lo scetticismo, i paragoni ingombranti, distorti e imbarazzanti con l’epopea degli Smiths. Hanno imparato in fretta ad amalgamare indubbie qualità per donare a Morrissey strade sonore nelle quali sentirsi a suo agio, perfettamente. Conclude la formazione il basso di Jonny Bridgwood e la batteria di Woodie Taylor, per un insieme capace di nuove soluzioni armoniche, con un arrangiamento minimo ma esemplare. La produzione di Steve Lillywhite è compatta e, che piaccia o meno, addirittura superiore a quella di Mick Ronson, del precedente Your Arsenal. Nessuna canzone conosce momenti di debolezza, di stanchezza, ma sono sempre tenute vive dalla sapiente abilità di rivestirla di luce per l’album più introspettivo di sempre del fuoriclasse Mancuniano.

La tristezza sembra figlia di una necessità, non la conseguenza di disastri (comunque capitatogli, vista la profondità delle tre dipartite che ha vissuto di persone per lui preziose e importanti), e per questo trova conferma la purezza di un sentimento che gli governa il polso: sono lacrime le sue che nascono da un avamposto a noi sconosciuto. Come le stelle che scomparendo lasciano le persone vedove prive della loro bellezza, ecco che Morrissey fa lo stesso con i suoi brani che, ogni volta che finiscono, lasciano lo smarrimento mentre si brinda a nuove puntate perché il suo genio va celebrato, senza paure.

Trovata la linea conduttrice dei testi, sparsa nei suoi filamenti dorati, la sua voce ubbidisce al progetto di spingerla verso la tenerezza, come se una coccola potesse nascere dal baratro che ci mostra in primissimo piano.

In un periodo in cui le chitarre del mondo erano accordate sul fracasso, sull’estremizzare un’emergenza votata alle urla sonore, la band di Morrissey trova modo di visitare melodie, arpeggi, tuffi di luce che rapiscono il buio senza ucciderlo, lasciando ai testi di Morrissey la capacità di decidere il suo destino. Canzoni che commuovono, ci fanno preoccupare, attraversano del tutto la paura di saperlo ad un passo dalla resa. Più maturo di quando era considerato tra gli autori migliori degli anni 90, in questo lavoro si eleva ad essere migliore di se stesso riuscendoci perché, se gli Smiths rimangono irraggiungibili, con questo album può guardare il suo passato dalla stessa altezza, quella degli occhi.

Un disco che esorcizza alcuni demoni e sembra invitarne altri: non vi è pace nella sua intelligenza che rovista tra i rifiuti, dove lui per primo fatica a tenersi fuori da quel gesto. Canzoni come spie, come lampi di vento per sondare la nostra capacità di accoglienza, nella solitudine di un uomo che ha nel microfono lo strumento per sciogliere la sua croce.

Ciò che risalta di questo quarto lavoro è l’impressione di una maturità raggiunta per iniziare una nuova fase: come se fosse in grado di scrivere il futuro cantando il presente, con chitarre a disegnare la forma di un uomo sempre più distaccato dalle movenze di un sistema a lui estraneo. La luce della sua sincerità è talmente evidente che esplode nella sua scrittura mirata a confondere la bugia e la cattiveria, non negando ma mischiando le carte del suo gioco pericoloso.

Morrissey ama ancora la propensione verso la maledizione di chi osservando e capendo non può che sanguinare, scegliendo pochi amici per trovare una strada solitaria dove mettere a fuoco le sue acute dimostrazioni di classe, un attore del cuore che semina sollievo perché sa riunire le paure di tutti noi, spettatori incantati dalla lacrima pronta. Un disco profondo, determinato, la culla che senza freno a mano prende velocità per sparire dal nostro sguardo. Mentre questo ascolto misura il polso alla sua classe, a noi rimane la pelle costantemente bagnata, in una febbre emotiva che anestetizza il passato e si torna a pensare che il bardo di Stretford sia più in forma che mai, perché senza filtri tutto il suo clamore si appoggia sul nostro cuore per stregarlo sino all’ultima nota.

Non ci resta che nuotare tra le undici corsie e imparare a bersagliare i nostri nemici con le sue canzoni…



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer scrive una musica che si affaccia sull’oceano, Morrissey ci mette le onde con parole toccanti che rivelano la sua acquisita maturità, con la strofa e il ritornello che fanno l’amore, con momenti anche difficili ma con la sua gioia, che emerge ma che non può di certo essere sorridente. Nata per divenire l’atto d’amore perfetto di chi adora quest’uomo, senza reticenze, la canzone è il vero abbraccio di Morrissey a tutti noi.



Spring-Heeled Jim


Testo straordinario, Moz ci fa immergere dentro due storie che sembrano distanti ma riesce ad amalgamarle in modo perfetto. In un racconto dove il sesso non garantisce l’amore, mentre appare più possibile invece che arrivino ostilità, ecco che, sulla musica ancora di Boorer, Morrissey prende la sua voce e ci riporta a Viva Hate come approccio. Il crooning costante tiene accesa la tensione mentre le parole viaggiano sensuali dentro una vicenda che graffia la pelle con questa onda sonora che, come nebbia sudata, ci conduce in un Alternative con chitarre rock accennate ma tenute sempre lontane.


Billy Budd


Alain Whyte scrive un tuono che sembra uscire dalle corsie di Your Arsenal, con un atteggiamento glam ma senza rinunciare a distorsioni malate di grigio sulle quali la voce del Maestro Moz può liberarsi con la sua metrica riconoscibilissima. Diventa l’unico brano che sembra fuori sincrono con tutti gli altri, ma forse proprio per questo degno di tutta la nostra attenzione. Il testo invece si trova perfettamente allineato con il progetto dell’album per renderlo alla fine irresistibile.


Hold On To Your Friends


Alain tratteggia il viale malinconico sul quale le parole di Moz sembrano passeggiare con lo sguardo di chi ha capito cosa ha valore nella vita. Qualcosa di funereo aleggia donando al brano tutta la potenza che serve a noi per abbandonarci dentro questo gioiello pop-rock capace di unire gli anni 70 agli anni 90 con un assolo che scolpisce l’aria.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in una canzone? Eccola, senza dubbi: l’ascolti e ti sembra di averlo accanto, mentre sprecando il tuo tempo non hai nemmeno più le lacrime a consolarti. Boz spazia con la sua scrittura raccogliendo le nuvole degli anni 50 per amalgamarle ai venti stanchi di questo decennio. Morrissey scrive, descrive e ci alza lo sguardo per riempirlo di verità incollate, che ci tolgono il fiato.


Why Don’t You Find out for Yourself


Come avere la sensazione che essere inchiodati ad una croce possa essere delizioso: Whyte e Moz creano una cella melodica, una piuma che viaggia sotto il mento della verità incline al pianto degli errori. La melodia cattura, la chitarra semiacustica e quella elettrica danzano insieme e a Moz non resta che scrivere un ballo vocale che brillerà sempre per la sua teatralità infinita, mentre le nostre riflessioni si faranno impegnative perché quest’uomo sa inquadrare la verità perfettamente.


I Am Hated For Loving


Whyte e Moz in splendida forma entrano quasi con gentilezza in una storia amara, aspra, con cenni di violenza tenuti saggiamente quasi nascosti, quasi… Come una ragnatela che sorride crudelmente, così fa l’atmosfera del brano che sembra gentile mentre invece diventa un pugno ben assestato al cuore. Il lungo finale musicale è reso perfetto da un vocalizzo semplice ma armonioso su cui stringersi.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


Il primo dei due capolavori dell’album arriva: con la melodia stupefacente scritta da Boorer, possiamo ascoltare il cantato di Moz come mai abbiamo sentito per percepire cosa è veramente la dolcezza, una ninnananna sensuale e al contempo violenta con la sua storia che la musica sa rendere perfetta. Depressa, ironica, sensuale, conduce ad un pianto inarrestabile, violento, descrivendo il dolore di un desiderio che trova la sua gabbia per morire.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey e Whyte mettono l’amore per gli anni 70 in una pastiglia, composta da dolcezza e solitudine, una nuvola che si perde nel cielo in una giornata di sole tiepido. Può essere ascoltata solo in una camera, con la finestra chiusa, avvolti da una melodia che sembra un carillon che semina sospensioni emotive, toglie il fiato, mentre la storia alla fine concede un bacio alla tristezza.


The Lazy Sunbathers 


Un arpeggio che strega, Whyte ci sa fare sul serio e lo dimostra dando a Moz il via libera con un cantato maestoso, su parole come raggi che si perdono nel parco giochi della vita, senza rumori, tra la pigrizia e l’arrendevolezza che fanno a gara. 


Speedway


Eccolo, il secondo capolavoro, scritto ancora da Boorer, concludere l’album con la canzone più bella di sempre di Morrissey.

La sensazione è quella di un testo che sa riunire la storia degli Smiths con l’attualità pubblica e privata di Moz, in un brano struggente, tiepido, un sorso di tè nel quale far scendere la delusione, la realtà, lo smarrimento, le sicurezze, in un turbinio emotivo drammatico. La musica è una dea fasciata da chitarre malate di tensioni rock, con i piedi su una nuvola shoegaze, che avvolge il testo per esaltarlo, per renderlo libero di gravitare nella nostra mente che si ritrova scioccata dalla bellezza, da microbi che mangiano i tessuti delle nostre resistenze. Le parole prendono residenza per divenire un tatuaggio, un fulmine che mostra la potenza di Morrissey che non adopera l’urlo per farci afferrare il suo dolore, bensì aspira le parole nel microfono per portarci dentro di lui in un viaggio dove la sua modalità espressiva diventa il luogo della sua meraviglia, colma di crude verità.


Ogni Grazie non è la fine bensì l’inizio di una profonda forma di contatto e da questo album, forse, il legame con Morrissey diventa eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA









My review: Morrissey - Vauxhall and I

 My Review:


Morrissey - Vauxhall and I 


A man is a stone that welcomes the sun, the moss, the wind, the rain, the snow, the human brutality, a witness to joy and tragedy, the guardian of everything, mute and capable of welcoming.

Then there is a man who is a poet, an immense, intense gaze, which falls into his pen like a feather even though he has tons of black on his back, since this is his task: to arrive lightly even if burdened, this is his role, to the end.

His name is Morrissey, the sinuous tear that travels through the decades with increasingly cynical, nostalgic, oblique and heavy eyes, but what he eventually gives us has something magical, precious, true that cannot be refused.

Introspective, resigned, pessimistic, he manages with a single verse to give us strength despite this suffocating magma: it is his unquestionable talent, what elevates him onto the winner's stage, where there are no longer gladioli but poisonous thorns.

The most lost of lost souls, incredibly he becomes the only foothold for those who think they are alone and lost. Listening to him you defend your right to life, you stop dying when you feel alive despite depression, even before resurrecting, because his voice and his words make you hold on to the desire for life, even if you look downwards like him.

Morrissey returns with a new bundle of songs, he make us enter into his inner riots, his despairs, his rages to which he has put filters, and, embracing us with his usual kindness, he puts his recent ordeal, his agitated breaths in our hands, with words that know how to cross every obstacle, to fully see that his career is the best way to find ourselves.

An album absolutely capable of showing this poet able to compact his past and to offer us new views, new perspectives for a soul so vast that it is impossible to comprehend and evaluate, because we are left with nothing but adoration for his ability to blend his public and private events and then make us drink sips of a delicious wine. Unique.

Songs that have a recognisable movement but are new at certain moments, surprising for his propensity to put glitter on open wounds: he knows how to paint harmony where there should only be tears. 

There is a man who belongs to himself, who captures everything as if it were oxygen, who manifests only the desire to write and sing about the universe corrupted by melancholies without handbrakes, with the intention of leaving the gift of his testimony to eternity, as a resource on which he first knows few will rely. Perhaps not even he himself, and this makes him intense and credible.

His songs, in this extraordinary Vauxhall and I, make us touch his breaths, his own and those of his torments, and listening to them becomes a swimming inside him, until disappearing.

The bard asks questions, passes sentences sifting through feelings and behaviour, makes noises in our stomach, scratches the dust of habits and, with bravado, distances himself from what oppresses him, building his own hermitage, made of delicate emotional tension, until he slams the door and leaves with his words in his pocket.

With his problems he fills himself and fills our hearts: what the heavens have given him in these songs is a drawing for us to benefit from, to pamper his suffering and give him back what the same heavens have denied him, namely the chance to be like the rest of us.

His vocabulary, always dense with heaps of decadent wisdom, veers towards apotheosis by giving fluorescent images, taming his earthquakes so as not to give in, he who is always just a step away from the precipice.

Together with Viva Hate, this album represents the ability to combine strengths with weaknesses, where his life is not a game but an exasperated crossroads, trafficked by continuous elaborations, experiences that break rocks, make the toxins that would like to ruin the tissues of his beauty cry, failing.

The ability, that comes from The Smiths, to give the voice the role of suspending the leaden meaning embedded in the words with his propensity for a singing that can make tensions float is still intact, magnificent and decisive, kept deliberately alive, at the highest level.

Alain Whyte and Boz Boorer are his two angels, painters of notes and pilots of weaves and rock raids, with that pop face that suits Moz so well. The two of them emerge victorious despite scepticism, cumbersome, distorted and embarrassing comparisons with the story of The Smiths. They have quickly learned to amalgamate undoubted qualities to give Morrissey sound paths in which he feels comfortable, perfectly. Jonny Bridgwood's bass and Woodie Taylor's drums complete the line-up, for an ensemble capable of new harmonic solutions, with a minimal but exemplary arrangement. Steve Lillywhite's production is compact and, like it or not, even superior to that of Mick Ronson in the previous Your Arsenal. No song knows a moment of weakness, of tiredness, but they are always kept alive by the great skill of coating it in light for the most introspective album ever by the Mancunian master.

Sadness seems to be the child of a necessity, not the consequence of disasters (in any case, they happened to him, given the depth of the three losses he experienced of people precious and important to him), and for this reason the purity of a feeling that governs his pulse is confirmed: his are tears that arise from an outpost unknown to us. Like the stars that disappear and leave people widows deprived of their beauty, Morrissey does the same with his songs, which, each time they end, leave one bewildered as one toasts to new episodes because his genius must be celebrated, without fear.

Having found the guiding line of the lyrics, scattered in its golden filaments, his voice obeys the project of pushing it towards tenderness, as if a cuddle could arise from the abyss he shows us in the foreground.

At a time when the guitars of the world were tuned to the din, to the extremes of an emergency devoted to sonic screams, Morrissey's band finds a way to visit melodies, arpeggios, plunges of light that abduct darkness without killing it, leaving Morrissey's lyrics to decide its fate. Songs that move us, make us worry, cross the fear of knowing he is so close to surrender. More mature than when he was considered among the best songwriters of the 90s, in this work he rises to be better than himself, succeeding because, if The Smiths remain unreachable, with this album he can look at his past from the same height, that of the eyes.

A work that exorcises some demons and seems to invite others: there is no peace in his intelligence rummaging through rubbish, where he first struggles to keep himself away from that gesture. Songs like spies, like flashes of wind to probe our capacity for acceptance, in the solitude of a man who has in the microphone the instrument to untie his cross.

What stands out about this fourth record is the impression of a maturity reached to begin a new phase: as if he were able to write the future by singing the present, with guitars drawing the shape of a man increasingly detached from the motions of a system alien to him. The light of his sincerity is so evident that it explodes in his writing aimed at blurring the lie and the badness, not denying but shuffling the cards of his dangerous game.

Morrissey still loves the propensity towards the curse of those who observing and understanding can only bleed, choosing a few friends to find a lonely road where he can focus his sharp displays of class, an actor of the heart who sows relief because he knows how to bring together the fears of all of us, the enchanted spectators with a ready tear. A deep, determined album, the cradle that without handbrake picks up speed to disappear from our gaze. While this listening measures the pulse to his class, we are left with our skin constantly wet, in an emotional fever that anaesthetises the past, and we return to the idea that the bard from Stretford is in better shape than ever, because without filters all his clamour rests on our heart to enchant it to the last note.

We just have to swim through these eleven lanes and learn how to bombard our enemies with his songs...



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer writes music that embraces the ocean, Morrissey puts in it the waves with poignant lyrics which reveal his acquired maturity, while verse and refrain that make love, with even difficult moments, but with his joy, that emerges but certainly cannot be smiling. Born to become the perfect act of love for those who adore this man, without reticence, the song is Morrissey's true hug to us all.


Spring-Heeled Jim


Extraordinary lyrics, Moz plunges us into two stories that seem far apart but manages to amalgamate them perfectly. In a tale where sex does not guarantee love, while it seems more possible that hostility will come instead, here, on the music always by Boorer, Morrissey takes his voice and brings us back to Viva Hate as an approach. The constant crooning keeps the tension burning while the words travel sensually within an event that scratches the skin with this sound wave that, like a sweaty mist, leads us into an Alternative with rock guitars hinted at but always kept at bay.


Billy Budd


Alain Whyte writes a thunder that seems to come out of the lanes of Your Arsenal, with a glam attitude but without renouncing the sick grey distortions on which Master Moz's voice can free itself with its highly recognisable metrics. It becomes the only track that seems out of sync with all the others, but perhaps for this very reason worthy of our full attention. The lyrics, on the other hand, are perfectly aligned with the album's design to make it ultimately irresistible.


Hold On To Your Friends


Alain sketches the melancholic avenue on which Moz's words seem to stroll with the gaze of someone who has understood what is valuable in life. Something funereal hovers giving the track all the power we need to abandon ourselves inside this pop-rock gem capable of uniting the 70s with the 90s with a solo that engraves the air.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in a song? Here it is, no doubt about it: you listen to it and you feel like you have him next to you, while wasting your time you don't even have tears to console you. Boz sweeps through his writing gathering the clouds of the 50s to amalgamate them with the weary winds of this decade. Morrissey writes, describes and lifts our gaze to fill it with glued truths that take our breath away.


Why Don't You Find out for Yourself


Here you get the feeling that being nailed to a cross can be wonderful: Whyte and Moz create a melodic cell, a feather that travels under the chin of truth prone to the weeping of errors. The melody captures, the semi-acoustic guitar and the electric one dance together and Moz has only to write a vocal ballet that will always shine with its infinite theatricality, while our reflections become challenging because this man knows how to understand the truth perfectly.


I Am Hated For Loving


Whyte and Moz in splendid form enter almost gently into a bitter, sour story, with hints of violence wisely kept almost hidden, almost... Like a spider's web that smiles cruelly, so does the atmosphere of the song that seems gentle while instead becoming a well-aimed punch to the heart. The long musical end is made perfect by a simple but harmonious vocalization to cling to.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


The first of the album's two masterpieces arrives: with the amazing melody written by Boorer, we can hear Moz's singing as we have never heard it to feel what sweetness really is, a sensual yet violent lullaby with its own story that the music knows how to make perfect. Depressed, ironic, sensual, it leads to unstoppable, violent weeping, describing the pain of a desire that finds its cage to die.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey and Whyte put their love for the 70s in a pill, composed of sweetness and loneliness, a cloud which is lost in the sky on a warm sunny day. It can only be listened to in a room, with the window closed, enveloped by a melody that sounds like a music box which sows emotional suspensions, it takes your breath away, while the story eventually grants a kiss to sadness.


The Lazy Sunbathers 


An enchanting arpeggio, Whyte is really good at it and proves it by giving Moz the go-ahead with majestic vocals, on words like rays that are lost in the playground of life, without noise, between laziness and surrender competing with each other. 


Speedway


Here it is, the second masterpiece, written again by Boorer, that concludes the album with Morrissey's most beautiful song ever.

The feeling is that of lyrics that know how to bring together the story of The Smiths with Moz's public and private current affairs, in a poignant, tepid song, a sip of tea into which disappointment, reality, bewilderment, certainties descend, in a dramatic emotional whirlwind. The music is a goddess wrapped in guitars sick of rock tension, with its feet on a shoegaze cloud, enveloping lyrics to enhance them, to make them free to gravitate in our minds, which find themselves shocked by beauty, by microbes eating the tissues of our resistance. The words take up residence to become a tattoo, a lightning bolt that shows the power of Morrissey, who does not use shouting to make us grasp his pain, but rather aspires the words into the microphone to take us inside him on a journey where his mode of expression becomes the place of his wonder, filled with hard truths.


Each Thank You is not the end but the beginning of a profound form of contact and with this album, perhaps, the bond with Morrissey becomes eternal...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 June 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA







mercoledì 18 maggio 2022

My Review: RosGos - Circles

 My review 


RosGos - Circles


Surprises are increasingly determined to be negative, boring, strenuous, heavy.

In this spasmodic traffic of facts, events, growing tragedies, the positive ones are rare, like the areas of the world that are free of various contaminations.

My gaze now becomes musical and enters the work of an Italian artist, a tireless worker with a tense soul, capable of giving surprise the face of relief.

An album that knows how to be acute in its tension, breaths that become polyhedral anxiety, contagious of dark clouds seeking the sun. Love is the key word of this sea vessel: taken to the bottom of the world to look at the universe, you observe it in its power and overbearingness, making it a bundle of bitter drops, but able to give labyrinths of cups of joy in which to lose yourself.

RosGos come like a set of bubbles in the pot of the heart, between Postpunk flames and a light Darkwave affiliated to a Synthwave of great class, with songs calibrated to focus on the events of human feeling. He purifies and enchants, shakes and makes us dance with our heads towards the sepia black.

The madness of the world descends on his voice, in the vain attempt of an impossible escape, and the Lombardian artist (Crema) makes it capable of shaking fear and turning it into a consoling breath.

Guitars with a stone mantle make a pact of faith with keyboards and bass: there is a chasm to be filled and everything goes in the direction of fulfilment.

There is courage, an acute, almost romantic lightness, a veil to protect the fragility of the air and the predisposition to transport time in an atmosphere of pleasant confusion mixed with tension.

We can note a great predisposition for balancing the volumes of ideas, keeping all the instruments perfectly in line. 

Sadness has the light of a candle suspended above the ice.

When it seems that everything is represented with a certain sense of detachment, here are the surprises I mentioned earlier: RosGos shakes us, makes our convictions meaningless and displaces them.

The musical directions of these nine compositions are different, like the need to find strength and comfort in a range that gives a sense of fullness.

There is nothing Italian about it and on this occasion I would say that this works in its favour: lyrics, the singing in perfect English, the music that swims between Germany and England in a dance complete with innumerable reasons for pride that gives Europe a wonderful adopted son.

His tendency is to offer harmonies and melodies, as if drops of water were still possibilist regarding a not entirely stained white. A long poem made up of images, encounters, with the talent of a project that makes us swimmers of dreams...




Song by Song


Limbo


A short and heavy breath leans on an expanding electronic velvet, while the voice seems to need to calm the looks: the first track shows a harmonic escalation that becomes sumptuous, powerful and plays with various ups and downs to be, in the refrain, a modern and vigorous Far West saloon. When The Alan Parson Project were able to displace: Maurizio's song would have been perfect to create a stellar union.


Lust


A change of scenery for a track that compacts Postpunk with a digital feeling: soft-skinned clods of glass act as a buffer for an aesthetic sense of masked pop, revealing an attention towards the balance of instruments that like an oil stain envelop the breath of our listening. A refrain reminds us of Radiohead's evolution, that decadent propensity which is able to seduce even the brightest smile. 


Gluttony


Sophia and Jeff Buckley, of the second album he failed to complete during  his lifetime, are the elements that light up the skin of a song that like a melancholic ball finds a rhythm and elements to create a pleasant tension. Then everything stops to start again like a spaceship in search of new planets. Great skill in not creating a probable explosion is what gives the track a powerful defence against the banal.


Greed


If The Top by The Cure had not existed, this would have been a perfect opening song for the album following Pornography, at least in the first few lines, as if Charlotte Sometimes had been lightened up. Then vocals, enthralling and melancholic, give Lombardo the opportunity to stay in a musical zone of the early 90s, almost seismic terrain which is perfect for melodies with a firm hand. 


Wrath


RosGos here narrows the field of action, holding the reins tight of this cosmic vessel with the scent of wet sand: the dramatic force becomes evident, suspensions and grey flights shake us for precision, with an arrangement that turns to be an attitude of richness, amongst the notes that seem to peer into the intimacy of a flight. 


Heresy


An unsettling track, on the one hand a guitar section that recalls Pictures of You by the Cure and vocals that Tom Verlaine would be proud of. The chorus maintains the feeling of many obvious musical references and this is perhaps what causes some difficulty, because it is the only one in the album that doesn't show Maurizio's great ability to distance himself from comparisons, since there are so many of them. But in the end it reveals his skill in keeping us suspended in a dream and it is still a great gift.


Violence


When beauty dazzles and makes us obedient and happy slaves, destroying all possible logic.

A sublime, corrosive, subliminal song, a pirate who jumps on board slowly but with great ability to rob our coffers. We range in the sonic crucifix that makes us bend our backs, walls of sound to silence us with stabs of class aimed at giving the composition a pathos that cleanses the soul of radioactive waste. An absolute climax of rare beauty.

A music box with a modern flavour, a synthetic approach on a guitar that comes from Seventeen Seconds, then acquiring rocks on the way and giving the song granite atoms of magnificent extension.


Fraud 


A new sinuous gem, in plain sight, with a shiny dress: we enter again the mystic zones of Robin Proper-Sheppard, the master chief of Sophia.

The first 100 seconds are the shot kept at bay before launching the track into the territories of an intimacy that knows light and the propensity to become a continuous flash which tries to battle with darkness. Refined and sensual, it uses a few piano notes to raise spirituality in the dark meadows of the universe: giving the feeling of a rapid and ineluctable fall. 


Treachery


The album bids farewell with new age bubbles inside a modern carousel of opaque neon, an intimate propensity to keep the dream alive in angelic eyes. A cradle in the sky rocks with the sensation that here everything closes, with sweetness and bitterness, in a combination that makes us all hold our breath. A semi-acoustic guitar surprises with its warm notes, while keyboards paint notes that seem to take the listener to the end of the sky: a marvellous display of class to conclude an immense work, tons of beauty that have given us an intimate listening experience and at the same time able to shake our now addicted nerves. RosGos is a talent to keep in our heart: pleasantly, inevitably!


Alex Dematteis 
Musicshockworld
Salford
18th May 2022

Date release: 19th May 2022




La mia Recensione: RosGos - Circles

 La mia recensione 


RosGos - Circles


Le sorprese sono sempre più determinate ad essere negative, noiose, faticose, pesanti.

In questo traffico spasmodico di fatti, eventi, tragedie in crescita, quelle positive sono rare, come le zone del mondo che sono prive di contaminazioni varie.

Il mio sguardo ora diventa musicale ed entra nell'opera di un artista italiano, lavoratore instancabile e dall'anima tesa, capace di dare alla sorpresa il volto del sollievo.

Un album che sa essere acuto nella sua tensione, respiri che diventano ansia poliedrica, contagiosa di nuvole scure che cercano il sole. Amore è la parola chiave di questa navicella marina: portata in fondo al mondo a guardare l'universo, lo si osserva nella sua potenza e prepotenza, facendone un fascio di gocce amare, ma capace di regalare labirinti di coppe di gioia in cui perdersi.

RosGos entra come un insieme di bolle nella pentola del cuore, tra fiammate Postpunk ed una Darkwave leggera affiliata alla Synthwave di gran classe, con brani calibrati nel mettere a fuoco le vicende del sentire umano. Purifica e incanta, scuote e ci fa danzare con la testa verso il nero seppia.

Sulla sua voce scende la follia del mondo, nel vano tentativo di una fuga impossibile, e l’artista Lombardo (Crema) la rende capace di scuotere la paura e di farla diventare un respiro consolatorio.

Chitarre dal mantello di pietra stringono il patto di fede con tastiera e basso: c’è una voragine da riempire e tutto va nella direzione del compimento.

Vi è del coraggio, una acuta leggerezza quasi romantica, un velo a proteggere la fragilità dell’aria e la predisposizione a trasportare il tempo in una atmosfera di piacevole confusione mista a tensione.

Grande predisposizione al bilanciamento dei volumi di idee tenendo in asse, perfettamente, tutti gli strumenti utilizzati. 

La tristezza ha la luce di una candela sospesa sopra il ghiaccio.

Quando sembra che il tutto sia rappresentato con un certo senso del distacco, ecco le sorprese che dicevo prima: RosGos scuote, rende insensata la nostra convinzione e la spiazza.

Diverse le direzioni musicali di queste nove composizioni, come il bisogno di trovare forza e conforto in un range che dia il senso di pienezza.

Non vi è nulla di italiano e in questa occasione direi che va a suo favore: i testi, il cantato in un perfetto inglese, la musica che nuota tra la Germania e l’Inghilterra in una danza completa di innumerevoli motivi di orgoglio che consegna all’Europa un meraviglioso figlio adottivo.

La sua tendenza è quella di offrire armonie e melodie, come se le gocce d’acqua fossero ancora possibiliste nei confronti di un bianco non del tutto macchiato. Una lunga poesia fatta di immagini, incontri, con il talento di un progetto che ci rende nuotatori dei sogni…


Canzone per Canzone


Limbo


Un fiato corto, un respiro pesante si appoggia ad un velluto elettronico in espansione, mentre la voce sembra avere la necessità di sedare gli sguardi: il primo brano mostra un crescendo armonico che diventa luculliano, potente e gioca con saliscendi vari per essere, nel ritornello, un saloon del far West moderno e vigoroso. Quando gli Alan Parson Project erano in grado di spiazzare: la canzone di Maurizio sarebbe stata perfetta per creare un’unione stellare.


Lust


Cambio di scenario per un brano che compatta il Postpunk ad un sentire digitale: zolle di vetro dalla pelle morbida fanno da cuscino ad un senso estetico del pop mascherato, che rivela un’attenzione agli equilibri di strumenti che come macchia d’olio avviluppano il fiato del nostro ascolto. Un ritornello a ricordarci l’evoluzione dei Radiohead, quella propensione decadente che seduce anche il sorriso più acceso. 


Gluttony


I Sophia e Jeff Buckley, del secondo album che in vita non è riuscito a completare, sono gli elementi che illuminano la pelle di una canzone che come un gomitolo malinconico trova un ritmo e elementi per creare una piacevole tensione. Poi il tutto si arresta per ripartire come una navicella spaziale in cerca di nuovi pianeti. Grande abilità nel non creare una probabile esplosione: è ciò che conferisce al brano una potente difesa dal banale.


Greed


Se non fosse esistito The Top dei Cure, questa sarebbe stata una perfetta canzone di apertura dell’album successivo a Pornography, almeno nelle prime battute, come se Charlotte Sometimes fosse stata alleggerita. Poi il cantato, trascinante e malinconico, dà modo all’autore Lombardo di rimanere in una zona musicale dei primi anni 90, terreno quasi sismico perfetto per melodie dal polso fermo. 


Wrath


RosGos qui restringe i campi di azione, tenendo le briglie ben strette su questo vascello cosmico dal profumo di sabbia bagnata: la drammaticità diviene evidente, sospensioni e voli grigi scuotono per precisione, con un arrangiamento che diventa atteggiamento di ricchezza, tra le note che sembrano scrutare l’intimità di una fuga. 


Heresy


Brano spiazzante, da una parte una sezione che ricorda la chitarra che rimanda a Pictures of You dei Cure ed un cantato di cui Tom Verlaine sarebbe fiero. Il ritornello mantiene la sensazione di riferimenti musicali troppo evidenti ed è forse quello che fa pagare dazio, perché l’unico nell’album a non mostrare la grande capacità di Maurizio di sapersi smarcare dalle comparazioni, visto che ve ne sono molte. Ma alla fine rivela la sua abilità nel tenerci sospesi in un sogno ed è pur sempre un grande regalo.


Violence


Quando la bellezza abbacina e ci rende schiavi ubbidienti e felici, distruggendo ogni logica possibile.

Brano eccelso, corrosivo, subliminale, un pirata che salta a bordo lentamente ma con grande capacità di derubare i nostri forzieri. Si spazia nel crocefisso sonoro che ci ingobbisce, muri di suono per renderci muti con stilettate di classe volte a conferire alla composizione un pathos che pulisce l’anima da scorie radioattive. Vertice assoluto di rara bellezza.

Un carillon dal sapore moderno, un approccio sintetico su una chitarra che proviene da Seventeen Seconds, per poi acquisire rocce per strada e dare alla canzone granitici atomi di magnifica estensione.


Fraud 


Nuova chicca sinuosa, in bella vista, col vestito lucido: si entra di nuovo nelle zone mistiche di Robin Proper-Sheppard, il capo mastro dei Sophia.

I primi 100 secondi sono lo scatto tenuto a bada per poi lanciare il brano sui territori di una intimità che conosce la luce e la propensione a divenire un lampo continuo che prova a battagliare con l’oscurità. Raffinata e sensuale, si serve di poche note di piano per elevare la spiritualità nei prati bui dell’universo: dando la sensazione di una caduta rapida e ineluttabile. 


Treachery


L’album si congeda con bolle new age dentro una giostra moderna dai neon opachi, una intima propensione a tenere il sogno vivo negli occhi angelici. Una culla nel cielo dondola con la sensazione che qui tutto si chiuda, con dolcezza e amarezza, in un binomio che sospende il respiro. Una chitarra semiacustica sorprende con le sue note calde, mentre la tastiera dipinge note che sembrano portare l’ascoltatore alla fine del cielo: una meravigliosa esibizione di classe per concludere un lavoro immenso, quintali di bellezza che ci hanno regalato un ascolto intimo e capace al contempo di scuotere i nervi ormai assuefatti. RosGos è un talento da tenere nel cuore: piacevolmente, in modo inevitabile!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Maggio 2022


In uscita il 19 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/4tHE0n595G6A6Fze7lSyuV?si=YKdwqyNYQLS2olrJ66OybA





sabato 14 maggio 2022

La mia Recensione: Jeff Buckley - Grace

 La mia Recensione:


Jeff Buckley - Grace


“Nulla è più pericoloso e mortale per l’anima che occuparsi continuamente di sé e della propria condizione, della propria solitaria insoddisfazione e debolezza.”

Hermann Hesse


“Non ho paura di andare, ma va così lento”

Jeff Buckley


C’è una fuga dal respiro che la mente individua e che vorrebbe accelerare, tenendo conto che l’unico Dio è il Tempo, il sovrano che decide il tutto. 

Ci sono anime che sono perennemente in attesa e l’unico destino vero è quello della morte che consente un percorso nella vita, nulla più.

In tutto questo la bellezza, il senso, la gioia, la grazia vivono alternate, raramente nello stesso posto, affiancate.

Un vagare continuo, con la mente soffocata dalla pesantezza, che da sola non può dialogare perennemente con il talento che la natura concede a tutti. Occorre individuarlo. E da quel momento le cose potrebbero complicarsi.

Arriva in questo contesto un fanciullo eterno, dal volto illuminato di sabbia, con una serie di silenzi con l’ancora attaccata loro: non possono vivere la loro identità perché debbono trasformarsi in parole, suoni, composizioni, atti intensi come un fiume del deserto lungo pochi metri, in quanto questo è ciò che è successo a un tormento dalla voce d’aquila, la febbre dell’arte senza cornice, senza copertina, senza prigioni.


Affamate di incanti che creano dipendenza, alcune anime guardano ciò che scatena emozioni come il luogo massimo della presenza di quella giustizia in grado di soddisfare.

Creando la prima ruga senza possibilità di sciogliersi sul volto di chi è investito di un ruolo davvero molto scomodo.

E da lì non si può scappare.

Jeff Buckley è il segno tangibile di cosa ruota dentro i grovigli dei tormenti, della soluzione sempre da sollecitare per andare ad abitare quegli egoismi in una fila che si allunga e allarga: ecco cosa fa, tra le tante cose, il tempo, senza cambiare idea. La musica non più come ristoro, risorsa, espressione di serenità o nuvole, bensì come metodo per fare di quella fiumana umana la residenza del beneficio.

Il talento diventa la soddisfazione altrui, creando pressioni a cui non si presta attenzione: dove esistono egoismi non può vivere il dialogo.

Il ragazzo vive perennemente nel liquido che sposta la pelle e la tornisce, mentre l’anima è sempre qualche metro avanti, sbuffa e protesta, aspetta la fine, ignorando qualsiasi lamento perché ha un appuntamento che la renderà felice, aspetta di sorridere tra le onde che affondano il respiro.

Le dita di questo terremoto emotivo scrivono gioielli dalla faccia triste, con la voce sognante che permette di non affollare la convinzione che possa essere spenta dalla fatica e dalla morte: nel senso di appartenenza a volte si creano voragini.

Cosa sono le sue canzoni se non una manciata di cristalli che, pur brillando, contengono all’interno un grido silente che non viene colto, considerato, reso sterile?

Si parlava del talento, ma non del suo terrifico ondeggiare tra soddisfazione e sgomento.

Il suo primo progetto musicale si chiamava Shinehead: quando nel nome il destino traccia il percorso della sua corsa infame. Partendo dalla polverosa congrega del Greenwich Village, ha camminato verso la Gloria scoprendo nella sua Grazia la perfetta compagna della sua dipartita e nessuna splendida canzone ha avuto il potere di concedergli il beneficio di milioni di altri respiri: sono sopravvissuti solo i nostri.

La sua storia appartiene alle biografie, agli ascolti, all’amore sparso nei crateri del mondo senza nessuna possibilità di continuare a scriverla, come sarebbe stato giusto. E non a causa della sua giovane età bensì per quel riscatto che doveva ricercare e vivere.

Quanto amo l’idea della sua chitarra appoggiata, la sua voce muta, mentre vive giorni belli come il suo sorriso, come la sua pelle profumata di sogni dalle gambe corte.

Grace mi guarda arrabbiato: non vuole suonare, scrivo di lui ma vuole tacere. L’unicità entra nella storia e ha una responsabilità capace di togliere  il fiato solo a se stesso.

Ciò che ha scritto dopo aveva già segni di conformità, perché mancava di quella luce senza fine che era rappresentata da dieci canzoni che definivano la perfezione. Non solo artistica.

Dopo l’uscita dell’album ha trovato rifugio nell’amore, nella droga, in una forma contorta di depressione che sono cose che spesso feriscono più di un fulmine caduto nel centro del corpo.

Tutto questo a favore di una eternità che lui vive dal cielo, dove non possiamo ascoltare più la sua voce, dobbiamo ritenerci fortunati per il fatto di poterlo fare qui, sul pianeta egoista. 

Un lavoro che è arrivato dopo un Extended Play, la premessa fatata di un delirio che avrebbe trovato una prolunga nel disco dal destino segnato.

Parlare di Grace significa sentirsi orfani, non anime che godono bensì l’opposto. Ma non per ciò che è accaduto in seguito. 

La difficoltà della relazione con l’attrice Americana Rebecca Moore, le zone d’ombra di un carattere sempre pronto a saltare in aria e la tendenza a fare delle passioni la partenza perfetta di ogni suo canto, fanno intendere come fosse arduo per lui gestire la lunga registrazione del suo vero debutto discografico.

Semplicemente: un insieme di brani che già restringono il fiato, dove solo l’ascolto ripetuto sembra consentire gioia, un ascolto nel quale ogni millimetro è composto da una lama che ferisce la pelle, e non solo. Trovatosi in dote un talento enorme, viverlo ed esprimerlo gli ha complicato la vita.

La sua musica ha preso le distanze, doverosamente, da chi non lo aveva cresciuto, pur avendo l’identica capacità del padre di fare delle canzoni il motivo della propria affermazione nel mondo.

Jeff salta come un canguro spaesato in una California spettinata, piena di sole e veloce a trascurare le fatiche umane: tutto ciò che ha composto è un agglomerato continuo di stili e distanze, un puzzle sofferto in cerca di gioia, forse.

Dedicare la propria attenzione a questo lavoro è una piacevole tortura, dai sensi sconnessi, perché ciò che è stato consegnato deve fare i conti con l’assimilazione, la comprensione e infine la gestione di un agglomerato che potrebbe intorpidirsi con lo scorrere del tempo.

E invece.

Tutto rimane intatto, come un mistero che gli dèi conservano, forse come punizione nei confronti della nostra ignoranza e inadeguatezza.

Il lato drammatico, misterioso, unito all’affanno esistenziale conferisce all’ascolto la testimonianza di un mattone rosso che, con il proseguo, trova minuscole parti in disintegrazione, in un precipitare lento, facendo arrossire il fiato, oscurando il respiro.

Canzoni struggenti, ballate come abbracci stretti sino a una compulsione dinamitarda, percezioni che escono da parole che, anche se piene di garbo, non possono nascondere ciò che un’anima pura vorrebbe rifiutare.

Una band capace di rendere liturgico il viaggio, con le pennellate di Lucas, con la sua chitarra lieve, il basso di Mick Grondahl, tenebroso e potente, e la batteria di Matt Johnson, che è la mano dal cielo che accarezza. Una terza chitarra viene suonata da Michael Tighe ad aggiungere romanticismo per non lasciare il tutto troppo greve. Jeff mette le sue fragili, talentuose dita anche sull’harmonium, sul dulcimer e sull’organo, come completamento di un progetto che somiglia a un quadro impressionista di Roy Lichtenstein.

Le trame timide, esili, sconvolgenti, che passano tra il folk e il soul e un pop raffinato, si uniscono perfettamente a una ispirazione che guarda alla liturgia come punto di partenza nel quale la parte metafisica sta in attesa. La sua voce è un coro nero che si affaccia al cielo, donando brividi e smarrimento, incontrando spesso ispirazioni blues e la sacralità dello spirito gospel, senza averne i tratti. Tutto questo perché la sua voce viaggia sospesa, tra i canali emotivi innaffiati di scintille come api con le ali enormi. L’aria del cielo ne viene invasa per intensità e capacità.

Le sue corde vocali, salde, rendono l’ascoltatore tremante.

I testi sono fondamentalmente il percorso di cellule lucide ma pregne di buio al loro interno, dove il viaggio conosce già l’esigenza della sua fine.

Il suo background fatto di ascolti acuti, profondi, brillanti, ha un range vasto, spesso proveniente dall’Europa, in uno spazio temporale che parte dall’inizio del secolo scorso. È coraggioso nell’essere affamato di ciò che pare distante dal suo presente, conferendo al suo stile una somma incandescente di cellule con il dna così estremo da apparire inevitabilmente come un collage perfetto, fatto di intuizioni, esplicitazioni, scelte azzardate ma funzionali.

Riluttante, determinato a porre qualsiasi distanza dal padre Tim, non può negare la sua connessione con alcune modalità espressive dello stesso, vedi quel tuono angelico del falsetto straziante, in grado di creare rossori sui nostri sensi imbambolati. E che dire di alcuni momenti nei quali il jazz di Jeff sembra il perfetto prolungamento della pesante figura paterna?

Compositore e raffinato interprete, annette anche il bisogno di fare entrare impulsi noise nelle diamantate chitarre, come un cerchio musicale desideroso di non escludere, come un padre di famiglia che non vuole scegliere uno solo dei suoi figli.

Una generosità sensata e riuscita. Le sue cavalcate verbali possono far credere che nulla o tutto potesse desiderare di essere aggiunto. Ha provato a farlo con le registrazioni di canzoni nuove che non è stato in grado di    completare e solo la madre è riuscita nell’intento, annullando il fato e il destino con un’operazione scorretta e trucida: dovevano rimanere nel cassetto e prendere polvere.

E invece…

La sua versatilità l’ha distanziato dalla contemporaneità ed è stato questo che ha dato a tutti la possibilità di conoscerlo: si è distinto, decidendo così che la conformità sarebbe stata una difficoltà inutile e dannosa. Lui è salito in cattedra per risultare come un maestro consapevole che la sua arte sarebbe stata riconosciuta come lavoro, dedizione, interessi multipli distanti dal vuoto che invece riempiva le orecchie, senza poesia.

L’aspetto visionario è sintomatico della parte fanciullesca di un essere refrattario alla crescita, desideroso attraverso il connubio musica/parole, di avere il giocattolo sempre tra le mani. 

Nella fragilità della adolescenza la preghiera sembrerebbe essere il supporto migliore al fine di permettere ai sogni il miracolo dell’eternità ed è esattamente quello che il rock fa…

Il ragazzo dai modi gentili utilizza anche le urla, atti che potrebbero rovinare l’immagine di una modalità sempre così rispettosa. Nell’album però tutto questo rivela non solo il desiderio di completamento, ma soprattutto l’impossibilità di negare l’autenticità che spinge verso la sua affermazione. L’essenza della sua esistenza musicale trova senso nel fare di Grace la prima pagina della propria carta d’identità, un work in progress determinato ad essere un capitolo senza luce nelle pagine future.

La scomparsa è stato un graffio e uno strappo su quelle pagine.

Tutto doveva rimanere incompleto in questo percorso umano: la completezza l’ha riservata a questi dieci scrigni e alla nostra eredità fatta di ascolti vedovi e orfani.

Jeff Buckley non è un artista maledetto, tantomeno un angelo, bensì uno di quei lutti imprevedibili da parte di chi nella continuità di un beneficio afferma se stesso. Alcune morti certificano la sconfitta di chi rimane in vita ed ora l’ascolto di questi dieci respiri fatati rende questo vinile davvero troppo pesante. È questo il destino della bellezza e dell’importanza: di renderci sempre più curvi davanti alla loro assenza…



Canzone per Canzone 



Mojo Pin


I desideri e le allucinazioni, la solitudine e i sogni inquieti scendono sui fogli intonsi di Jeff che si trova soddisfatto con i vecchi accordi di Gary Lucas in un brano che si chiamava And You Will. Buckley lo trasforma in un sottomarino con la voce scivolosa di un’alba su riflessi notturni creati dalla chitarra cullante. Poi il sole sott’acqua lentamente apre i polmoni e la voce regala soddisfazioni sensoriali dentro evoluzioni crescenti. 



Grace


Un rock dalla pelle vellutata e dalle parole che pesano sempre di più goccia dopo goccia.

Una chitarra ritmica dall’attitudine Dreampop accoglie il cantato con la sensazione che certe urla siano il castigo e il dazio che il dolore deve pagare. Il falsetto e il seguente vocalizzo provengono da Janis Joplin, isterica e sconvolta, tra convulsioni che vanno a baciare lo Shoegaze più elegante.



Last Goodbye


Le chitarre gonfiano il petto scivolando con attitudine limpida nel blues nero nordamericano per poi continuare con una sezione ritmica che entra in un feedback controllato. Caratterizzato da una struttura pop senza essere legato alla forma canzone, questo imbuto brilla per rivelare la sua manifesta necessità di non essere legato a un cliché e l’orchestrazione, con violini frizzanti, lancia il tutto con un alto profilo qualitativo. 



Lilac Wine


James Shelton avrà fatto un salto sulla sua sedia celeste quando tra le tante versioni del suo splendido brano ha potuto sentire quella di Jeff. Abbassato il registro della voce, il ragazzo californiano decide di diventare una piuma, sognante, a due passi dalle nuvole. Con la dimostrazione che il tempo con lui trattiene il fiato, tutto si tinge di infinito e vibra di magia a grappoli, con la chitarra che si accorda con la sua parte vocale per siglare il patto con la bellezza che non può essere usurata. 



So Real


Traccia dall’attitudine Dreampop, con i Cocteau Twins muti e adoranti, trova la forza e l’abilità di una esplosione “contenuta” per poi deflagrare come rocce impazzite con la data di scadenza, per tornare a graffiare con dolcezza. Scura, con la pelle avvolta dalla nebbia, la canzone conferma Jeff come un ottimo scrittore capace di dare ai suoi versi il potere di sedurre gli occhi, con la voce a baciare la perfezione.



Hallelujah 


L’amore per Johnny Marr degli Smiths, la sua devozione e la forma infinita di studio per la band Mancuniana trova posto nella perfezione della chitarra di questa cover di Leonard Cohen.

Poi è miracolo, fuochi naturali che esplodono nel cielo. Nessuna cover può essere meglio dell’originale. Sia ben chiaro. Jeff ha materializzato l’infinita bellezza del cantautore Canadese e ha reso accessibile, con un suono moderno, ciò che pareva destinato ad un tempo lontano. Con un lavoro estremamente attento nei confronti della chitarra (la bambina che sconvolge gli adulti), la voce cavalca l’onda di una spiritualità in volo per separarsi da ciò che è umano e divenire divina.



Lover, You Should’ve Come Over


Come scoprire la modalità di scorrimento del sangue nei nostri battiti: tutto parte lento, malinconico ma pulsante, per poi, con la voce che accelera sino a divenire nevrotica con il suo falsetto adorabile (su una base dove l’organo mostra i confini dello splendore fatto di semplicità), rendere evidente come la musica che lui amava ascoltare potesse avere spruzzate di energia con il suono degli anni 90.



Corpus Christi Carol


Questa volta Jeff prende un brano tradizionale inglese del 1500 e impartisce lezioni di leggerezza e dolcezza mostrando a tutti che alcuni talenti venuti dopo, come Antony e Rover, ma la lista è lunghissima, sono passati da qui, da ascolti infiniti e attenti.

Se il cielo ha una voce è quella che mostra Jeff in questa incantevole esibizione di talento e capacità di estremizzare la distanza tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. La perfetta ninnananna per cuori bisognosi di coccole.



Eternal Life


Il chaos, figlio di una miscela allettante tra gli Alice in Chains granitici e gli Aerosmith dalla faccia pulita, rivela come Jeff possa esibire il suo lato robusto brillando con arrangiamenti inaspettati, che sanno alternare tutte le micce di un rock con il papillon.

È noise con la maschera da Carnevale che seduce e spiazza, per poter celebrare la canzone con passi di danza come una scarica elettrica gentile.



Dream Brother


Dando spazio ad una stesura del brano che comprende tutta la band, ascoltandolo notiamo come si possa circumnavigare il tempo, lo spazio, i generi musicali, per fare di una canzone un vento misterioso che si tuffa in cieli rumorosi, con scintille Post-Punk, divagazioni prog, un Post-Rock con il miele sulle ali e un canto così espressivo che sintetizza questo Camaleonte artistico. Ed è l’ennesimo shock gravitazionale, la tempesta del cuore che si inchina e bacia un album che gli dèi ci hanno generosamente concesso di sentire. Noi potremmo anche smettere di ascoltarlo, ma sono convinto che nelle praterie celesti risuoni come il perfetto loop per fare dell’eternità un luogo incantevole, avendo in dote la colonna sonora migliore…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 Maggio 2022








 


 







La mia Recensione: Man of Moon - Machinism

  Man Of Moon - Machinism Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze...