domenica 28 maggio 2023

La mia Recensione: The Smiths - The Smiths

 

The Smiths - The Smiths

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.

(Paul Klee)


C’era una volta un semaforo, nel bel mezzo del cielo grigio di un agglomerato urbano ribelle ma muto, che vedeva scorrere le vite disoneste, spente, piene di allergie, e fermava tutte queste anime con l’apoteosi di musiche che accendevano entusiasmi che appassivano dopo pochi minuti: Manchester degli anni Settanta era uno strano coacervo di passi, sentieri, sbagli e ipotesi, in cerca di una esplosione, che si augurava di determinare molto in fretta. Ci avevano provato tre band, in ordine cronologico: Buzzcocks, Magazine e una che ha fatto molto di più di tutto questo, accelerando la catastrofe della città, perché dopo di loro sarebbe sorta una sterilità che non avrebbe fatto altro che metterla completamente da parte. Oggi non è più la capitale inglese della musica, e va bene così. Ma il vecchio scriba ha potuto capire quale è stato il momento del parto che ha reso quell'agglomerato urbano incapace di generare altri figli. Sono stati quattro cadaveri, quattro spavaldi intolleranti, incattiviti da metodiche che lasciavano al futuro solo sogni, velleità e illusioni. Ma Stephen, Johnny, Andy e Mike avevano le redini, il bavaglio, tele di catene con i brividi appiccicate a canzoni che sapevano divenire la bottega della miseria, nella notte arrossata di un percorso senza finestre.
L’album di esordio è uno straordinario errore, una incapacità folle di essere banali e prevedibili, un osceno affronto alla civiltà britannica ancora devota a conservare l’arroganza di poter conquistare e dominare. In fondo pure loro volevano arrivare al potere e lo hanno ottenuto, passando dalla porta sul retro di una casa senza lustrini (quelli li avevano presi i New York Dolls e il buon Marc Bolan), per rimanere nello scantinato tra giovani e immortali rughe e riff che potevano ferire il cuore di chi (vi ricordate Ian Curtis?) aveva già dichiarato il fallimento di un sistema, per prendere le distanze e crogiolarsi nella bellezza, quella atomica, quella che non lascia respirare nemmeno i sogni.
The Smiths ferisce, molesta, offre chiodi e siringhe, storie sbilenche, raccapriccianti ma vere, quindi credibili e in grado di squarciare il perimetro della città di quel canale del quale il cantante dinoccolato aveva avuto la necessità di mettere a bordo la storia. Musiche astute, perché lontane dal Post-Punk pur avendo l’odore di una ascella malata di stanchezza. Fatte di piume Pop con il timbro di una decade che per davvero aveva illuso tutti, ma avendo lasciato almeno una luce spenta: non ci sarebbe stata più tanta allegria…
Questi ragazzi avevano l’umore di una giornata in miniera pur avendo i polpastrelli lucidi e ben pettinati, ma una volta che toccavano gli strumenti ecco una ribellione improvvisa a rendere penosa ogni reazione. All’arciere Morrissey il delicato ruolo di confezionare frecce, pallottole, bombe e mine anti-stupidità: si doveva cercare il torbido e imbalsamarlo.
Ma del colore delle composizioni di questo anfiteatro inglese ne vogliamo parlare? La storia ci dice che i quattro sono riusciti a spaventare genitori, amici, gli incoscienti, gli inutili, gli spavaldi collezionisti di squallide avventure, nel momento in cui la città non riusciva più a farsi il trucco di giorno, ma solo negli appuntamenti di quella grande puttana che è la notte Mancuniana dei primi anni Ottanta. Il metallo cola dalle chitarre di uno gnomo, un puffo che, come in un bisogno anacronistico, si permette di scavalcare il tempo e di prenderlo in giro con l'atteggiamento di chi piange mentre fa sorridere la musica, nel delirio di una classe incontrollabile, effervescente, che miscela funky, rock, pop, blues, punk e la follia di chi nelle note immette passione e una dose di freddezza ordinata dal dottore dell’imprevisto, un tipo strano ma necessario.
Il basso in questa band, nel presente disco, è una carezza di piombo, lontana dai cliché di chi cercava il dominio, l’arroganza del capobanda in quanto, si sa, è lo strumento più importante di una formazione dedita al rock. Andy Rourke ha avuto il coraggio di sembrare un soldatino obbediente al servizio del Re Marr, per lasciare al suo regno la luce, la scena. Ma che inganno! Sui suoi solidali voli, tutto sembrava ordinato, pieno di polvere e in grado di incollare trame e nuvole che lo gnomo non smetteva di disegnare nella granitica Manchester. Vedremo poi cosa è riuscito a combinare. Mike, l’uomo del caso, diviene qui la vincita milionaria, il metronomo di ogni talento, il vigile e il tappeto su cui tutto poteva scivolare e frenare, collaudando uno stile poi divenuto essenziale negli anni Novanta. Un’anima silenziosa che nel disco sculaccia la prevedibilità e insegna al mondo intero che leggerezza e potenza sono solo coordinate parallele di un volo senza catene: non il genere, non la tecnica, bensì il progetto, per creare una impalcatura senza possibilità di crollare.
L’lp è frutto di una avidità eclatante, una burrascosa predisposizione a rendere la canzone un pulcino in una giornata di pioggia, nuda e disarmata, per portarla nel caldo cuore delle sue dita vellutate. Johnny Marr è il più adorabile sbaglio della città di Manchester: un Re che si lascia crescere i capelli per nascondere il suo talento è destinato a essere detronizzato in fretta, ma sono passati tanti treni, tanti regni senza che nessuno sia stato in grado di ridicolizzarlo.
Ha portato in studio novità clamorose, effetti, amplificatori, stili e la colla magnetica che può possedere solo chi con un riff non si gioca la vita bensì la schiaffeggia con la risata di un regnante senza corona. Il buon Marr ha anticipato usando il passato di chi non voleva più considerare, ha illuminato i polsi di errori chiusi a chiave da tanto tempo. Dalla sua collezione di dischi sono usciti stimoli, impulsi e tanta voglia di mare. Che ha saputo inventare e sul quale il profeta/poeta di Stretford ha fatto nuotare le parole più cupe, più arroganti e strazianti che si potessero immaginare. Ma Morrissey è andato oltre: sapete di cosa parlano i suoi capricci verbali? Quali sono i temporali mentali della sua indole pseudo ignorante? Quali sono le pallottole che ha lucidato per costruire un romanzo senza l’ultima pagina? Quest’uomo ha elevato l’arte, portandola nel Millequattrocento, buttando via la storia successiva e togliendo alla verginità dei sogni la possibilità di un ristoro, fosse pure temporale. I suoi testi rendono buia Salford, Deansgate, Bury, Oldham e le zone limitrofe, per divenire spazzatura da congelare. Sono catastrofi piene di logiche senza senso per i più, estremamente importanti per i meno, che qui, nel nord ovest inglese, sono una muta maggioranza ed è proprio quella parte della città che ha tributato subito considerazione nei confronti del poeta occhialuto, mostrando un ostinato bisogno di nutrirsene. Burrascosa la produzione, tanto da dover registrare daccapo l’album, cambiare il timoniere del suono e fare il tutto velocemente, visto che la Rough Trade non aveva soldi da perdere stupidamente…
Poi: la magia, a rendere cieche le orecchie e muti gli occhi, per incastrare il sole nella sofferente periferia Mancuniana e dare alla violenza suburbana il palco. Così come alle storie piene di sbavature, come una scialorrea inevitabile consequenziale all’approdo enigmatico di identità votate al terremoto morale. Morrissey ha saldato la verità con ironia, rendendo merce prelibata e senza prezzo il pensiero, la scelta di passeggiare con il raziocinio dentro le inquietudini, sia quelle adulte che quelle adolescenziali.
Ed eccoci, tutto è da consegnare alla lente di ingrandimento, all’ispezione anale di una volgare attitudine da parte di un quartetto che ha saputo squarciare il cielo dell’idiozia e inondarlo di gladioli.
Il dovere chiama: sia accesa la luce di uno stratagemma che comprende l’analisi di una verbosa ed esasperante capacità di cambiare per sempre la vita di chi vi scrive…

Song by song 

1 Reel Around the Fountain

Si può prendere la verginità della pelle, di un’anima e gettarla nell’indifferenziata, di una raccolta malata e malandata, e farla divenire una rovente denuncia? Se sei Morrissey sì, amaramente, con le lacrime ossidate, le chitarre arpeggianti nel letto del canale Irwell, il testimone muto di molte porcherie. La canzone è lenta, prevedibile, noiosa, sprezzante, un’atomica che guarda con cattiveria il polso di un adulto strappare il sogno di un fanciullo. Joyce martella con rispetto, e lo fa con la sua grancassa lucida. Andy si siede sulla storia e accarezza le quattro corde quasi con paura. Lo gnomo trova la chitarra chirurgica, poi si chiede l’aiuto di un noto musicista, gli si lascia il piano ed è tutta la magia nera di uno strupo che sale al cielo là dove Morrissey racconta e aspetta….

2 You’ve Got Everything Now

Si cambia decisamente ritmo, generi musicali tenuti incollati in una strofa che pare giungere da una marcia gracchiante di chitarre americane, sino all’organo che nel ritornello fa diventare tutto così selvaggiamente Sixties. Johnny comincia a marcare il territorio, come un felino, piscia la sua magia sulle dita che si contorcono, obbligando Andy a divenire un danzatore di trame funky, del sottobosco di quella parte del Merseyside così poco nota alle anime stolte. Un brano che poi, se lo si ascolta bene, sarà la base di una modalità espressiva ritenuta inspiegabile, in libri affannati di scrittori senza talento: Morrissey qui si rivela il maestro delle certezze, quelle senza luce, senza interruttori, ed è solo la trama musicale a tenere il sorriso dentro l’ipotesi…

3 Miserable Lie

La bugia più grande si nasconde nell’arpeggio intrigante e quasi triste di Johnny, una Reel Around the Fountain che ritorna: non è così, è una falsità che subito lascia sangue sul terreno di un'accelerazione Post-Punk ma con nell’anima tutta la radice del Northern Soul più antico e meno celebrato. Chitarre rockabilly, un solo che concede a Morrissey l’isteria sublime di un falsetto che o uccide o attira, o annoia o diventa il pretesto di un'emozione così intensa da essere una droga pesante. Ma i veri regnanti sono Joyce e Rourke, scheletri sublimi, artefici di ossa che fanno danzare e che consentono a Marr di divagare, divertirsi e farci perdere la bussola…

4 Pretty Girls Make Graves

Il futuro degli Smiths nasce in questi tre minuti e quarantatré secondi: la periferia del talento si dirige velocemente verso Piccadilly Gardens, nel cuore della città, nel ventricolo generoso di una melodia che pare rubata in modo irrispettoso a Sandy, la cantante scalza che poi darà un pugno alla band osando accettare l’invito di Morrissey… Ma torniamo al pezzo in questione: tutto si fa chiaro in quanto le melodie sono fumogeni, il ritmo la semplice e fuorviante messa in scena di uno spettacolo che prevede, come protagonisti, vittime che si illudono di detenere il potere. E via, tutto sembra così lontano dai synth, dai ritornelli banali e inutili, e la band Mancuniana con questa semi-ballad pop dà una frustata al circostante, all’elettrica danza  di gruppi infarciti di bruttezza e cataclismi addominali. Qui il falsetto è una fucilata, la chitarra semiacustica il bisogno di visitare da vicino il Country tanto caro a Marr, e la voce è l’Irwell ripulito e disinfettato da una propensione così vicina al richiamo, sempre sublime, di un annoiato Dean Martin capitato per caso nei paraggi. Dal finale della canzone Johnny prenderà i frutti di semi che si riveleranno ancora prelibati nel successivo Meat is Murder…

5 The Hand That Rocks the Cradle

Manchester esplode, con una ninnananna quasi torbida, un viso piangente dentro una melodia che pare imbalsamata dalla perfezione di un incrocio di chitarre e dal basso di Rourke che proviene dal garage di ogni ascolto adolescenziale. Sembra di essere nella periferia nord-est della storia del pop, là dove tutto iniziò: bastano poche note per inchiodare le lacrime al cielo e Marr lo sa bene. Una ossessione schematica, tutto ridotto, nessuna concessione ai ritornelli, tutto liofilizzato, tutto sufficiente a stringere i bisogni e polverizzarli. Gotica più dei Bauhaus, dei Cure, è una sciarpa invernale che con la sua tendenza terribilmente noiosa riesce a uccidere ogni desiderio di vita: semplicemente perfetta…

6 This Charming Man

Aladino era impegnato, Nerone giocava col fuoco, Giovanna d’Arco sarebbe arrivata poco dopo, ma c’era da riempire il vuoto consequenziale creato da una parata di errori che la storia voleva negare. Ci ha pensato Morrissey, creando l’assurdo movimento di una ipotetica intolleranza alla bellezza, devastando con parole fulminanti, allo stesso modo di Marr che, con quell’introduzione, ha spaccato la musica, gettandola nella mediocrità, perché quei pochi secondi sono lo scettro che brilla nelle lacrime solitarie di un inviperito destino designato dalla poesia scorticante di un leader che con questo brano stravolge il cielo. Un su e giù pelvico, sensoriale, che unisce voce e chitarra per lo stesso destino: dare la voce alla pianura affinché sia capace di arrivare a Dioniso…

7 Still Ill

C’è un ponte che collega la mitologia alla polvere di una piccola famiglia operaia (al tempo) che si chiama Stretford, nel passaggio peccaminoso di desideri incollati all’Inghilterra volgare e provocatrice di atti osceni. Marr impazzisce, trova binari non paralleli, per condurre la sua chitarra tra il paradiso e il purgatorio. Gli altri tre sono già all’inferno, data la cattiva condotta e il malvagio comportamento che ha fatto sì che l’umana esistenza conoscesse la perfezione: non sia mai! I sogni bussano, spingono, ma la sensazione di una mente malata non lascia il corpo di una mente che sublima il tutto pilotando la volgarità verso la saggezza…

8 Hand in Glove

Una grattugia, stimolata da un’armonica a bocca acida, sgretola la pelle della Gran Bretagna, a colpi di pagine di carta, di teorie e trame perverse, di una fantasia che ha il potere di rendere cattivo l’alito e il pulsare del cuore. Tutto si rende capace di divenire un moto carbonaro senza base e infatti Morrissey chiude a chiave l’accesso di ogni comprensione con una scrittura che prende in prestito il talento del mai deceduto Oscar Wilde. Moz scrive la storia per sotterrarla così come fanno le dinamiche del primo Novecento, qui nelle mani dei tre musicisti che agiscono con una terapia d’urto, come un TSO inevitabile. Ed è pura paura, puro scuotimento, febbricitante e furbastro, per dare catrame a ogni vascello e renderlo affondabile. La semplice risposta, ma assai profonda, che il bardo scrive per dare alla sua matita la possibilità di incidere meglio di un bisturi…

9 What Difference Does It Make?

Quante zampe ha una chitarra? Quante corde ha il nervo teso di un basso? Quante bolle vivono sulla pelle di un tamburo? Quanta poesia resiste nelle tenaglie di un dubbio? Le risposte, spavalde, respirano e muoiono in questa valanga, tra rock, psichedelia, rock and roll e follia primitiva dalla barba incolta…
Non un brano ma un altare, pagano, sulle rive del mare in burrasca, di una scoscesa perlustrazione, atta a ripulire la musica, tutta, dall’avanzamento tecnologico. Gli Smiths si rifiutano di pulire il culo alle giovani band emergenti, mettono gli artigli negli anni Sessanta e sconquassano il cielo di Manchester, senza paure…

10 I Don’t Owe You Anything

Qui nacquero gli Herman’s Hermits, la band Mancuniana per eccellenza, quella che portò le persone a conoscenza dell’esistenza di questo grigissimo posto. Fecero di tutto per renderlo allegro. Il penultimo brano di questo album di esordio sembra ricordarci la tempra, l’assoluto coraggio nel cercare una melodia che abbracci il sole. Ma Houston, abbiamo un problema, e pure grande: Morrissey canta come se fosse chiuso nel dondolio di una altalena spinta e dipinta dalla signora con la falce perché il suo è un approccio sbavato di vita, gonfio di un ventaglio gelido in grado però di appassionare, il mare in burrasca che, per contraddizione subliminale, seduce e pare una parodia più che accettabile. Lenta, grassa, spigolosa, incantevole come un giardino piovoso, la canzone è un rotolo di cartapesta che saprà ingravidare le stelle…

11 Suffer Little Children

Si va al Cinema, di mattina presto, tra scorticate idee primordiali, e la paura della gioia. La trama letteraria è da premio Nobel, ma con il sangue che finisce sul papiro, così come il basso di Rourke che sembra morire di stenti, solo la batteria di Mike sembra procedere, con semplicità, dentro una fossa che la chitarra di Johnny ha costruito ascoltando gli amati New York Dolls. Non stupisce che il brano più malinconico sembra un’atomica cinese, il fungo che sale sopra il cielo di Manchester lasciandolo spoglio di ogni alito di vita. Come un pranzo finito male, come una stretta di mano che diventa un pugno, così fa la canzone che stabilisce il punto di contatto celebrato precedentemente dentro la Cappella Sistina: l’umano e il divino si sfiorano per creare, nella immortalità, il pretesto di un sogno…

Un esordio, un inizio, e il libero arbitrio sul palmo delle vostre mani: a voi la scelta se obbedire all’orgasmica tentazione della sirena The Smiths o se rimanere fermi alla ridicola propensione di essere umani…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
28 Maggio 2023

https://open.spotify.com/album/6cI1XoZsOhkyrCwtuI70CN?si=c23HAts-TA6KNzTPnStnSg




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