mercoledì 31 maggio 2023

La mia Recensione: Christabel Dreams - Pigs

 Christabel Dreams - Pigs


Nel tempio della solitudine, brandelli sconvolti di anime agitate, compiono il passo decisivo verso la dichiarazione dei propri debiti. C’è un obbligo: occorre vivere la precisione della falsità, della maschera che tutela gli sgarbi. Inoltre sarebbe bene anche indossare il cappotto che lascia cadere le incomprensioni, seminando quella forza necessaria per accettare il cielo scuro di pensieri corrotti.

Il Vecchio Scriba vi aveva parlato di un trio romano, addetto a dipingere il volto celeste della capitale con spruzzi di malinconia, ordinata e precisa, per farci compiere un balzo verso le catacombe celesti degli atteggiamenti umani. Esce proprio da lì l’ultima canzone, che farà parte dell’atteso album nuovo: speriamo esca il più tardi possibile affinché si possa digerire questa bellezza cupa, con il suo incedere figlio di una notte sbagliata degli anni Ottanta, quella che nessuno aveva osato registrare…

Il brano in questione è capace di mettere in contatto un testo fatto di molecole di tristezza unte di ragionevolezza e la propensione a separare il silenzio dalla follia del delirio umano, mentre la musica precipita nel vuoto, leggera mentre toglie il battito. Sarà per via di connessioni di generi musicali delicati, nel tempio di una Synthwave che disturba il Post-Punk per imporre una melodia incantevole, con la sua dinamite colorata di grigio. Perché tutto ha a che fare con la volgarità di comportamenti che assaggiano l’inganno: quella maschera, di cui parlava il vecchio scriba prima, è solo il diadema infetto di un lugubre sospetto. Niente salva le anime, tantomeno nello spazio gelato di un bisogno contenuto e mantenuto tale da un basso che corrompe per la sua volontà a legarsi al drumming tribale, selvaggiamente osceno, per fare della sezione ritmica un sequestro mentale. Sembra di sentire New Year’s Day degli U2 in quel piano che non si stacca dal synth, il maglione musicale, quello che scalda il petto. Francesco ed Emmanuele alzano lo sguardo, girano le spalle al futuro e perlustrano territori sensuali, dove tutto è risorsa per una melodia che meriterebbe di essere appiccicata alle stelle. Christian aggiunge al dono naturale di una voce dalla timbrica potente e sensuale anche la capacità di un registro alto, quasi urlato nel finale, per incollare i brividi di questo magnete che ruota nella mente. Ma, non dimenticatevi il tema, il percorso del testo, la denuncia, la presa della bastiglia dell’unica verità di questa vita moderna: essere destinati a essere come tutti gli altri, con la stessa maschera, lo stesso fardello, lo stesso precipizio. Che tutto questo sia generato nella città eterna aumenta lo sconforto, le unghie graffiano i sogni e ci si affida al basso per incontrare il battito finito sotto le scarpe. Certamente la tastiera sembrerebbe mettere in castigo le chitarre (e la band pare aver compiuto la scelta corretta): i tre hanno sufficienti risorse per non disperdere ciò che deve essere essenziale. Echi di Psychedelic Furs ci riportano alle lacrime, quelle che sgorgavano fluenti dal loro primo album, quando al sax (oggi usato malissimo dalle band Post-Punk e Darkwave) viene offerto il compito di spiazzare i pensieri aprendo la corsia del sogno. Tutto ciò diventa una perfetta contraddizione che rende la canzone funzionale nel confondere le certezze. Pigs è una latrina, una strada in cui si sciupano le luci e i colori vengono messi a bollire nella decadente formalità di una denuncia. La maturità fa male quanto la verità, e il messaggio, da una bottiglia, passa attraverso i rapporti fatti di luminescenza senza petali di vergogna. Il mondo si sta raggelando, come un fallimento silenzioso che cade in lamenti affidati proprio a quel sax. Cosa rimane? Parole non dette, capaci di trasformarsi in trame musicali con il solvente sulla pelle, per sparire nella magnifica usanza di un ascolto continuo, per fare divenire la canzone un loop, come un amante perfetto, per piangere, per sciogliere la paura data dai confini del mondo senza più lealtà. Brividi che sospendono ogni sogno, e il cantato è un pugno triste senza peso: la voce da sola affonda il respiro dell’ascolto…

Si rimane esterrefatti dalla potenza, mai un attimo di sosta, particolare non da poco, l’ottima scelta di usare il metodo di due voci nelle strofe, come un riverbero e un eco a confermare la validità del testo. Nel ritornello (il pezzo forte della band romana senza alcun dubbio sin dall’esordio) la voce pare non necessitare di un sostegno in quanto il basso, la tastiera e la batteria sono angeli dalle mani potenti, seppur dipinte di nero…

La dichiarazione che sconcerta ma diviene salutare è data da “We are used to falling in silence”: mi spiace contraddire l’affermazione ma con uno brano così immenso, intenso, vero e crudo, nulla di noi potrà fallire perché se esiste una gioia, anche sbilenca, è proprio data da Pigs, definitivamente Singolo dell’anno Italiano per il Vecchio Scriba.

E ora? Non ci resta che silenziare le emozioni e disperderci tra le mine vaganti e pulsanti di questo gioiello romano…


Alessandro Dematteis
Musicshockworld
Salford
31 Maggio 2023

https://open.spotify.com/album/79snihx4ijcQTXxlKE7eX0?si=6nRQvERtT2Ot_miOaTE9gg

https://youtu.be/MBuHrD1i2oA



My Review: Christabel Dreams - Pigs

 Christabel Dreams - Pigs


In the temple of loneliness, distraught shreds of troubled souls take the decisive step towards the declaration of their debts. There is an obligation: it is necessary to live the precision of falsehood, of the mask that guards against discourtesy. It would also be good to wear the coat that drops misunderstandings, sowing the strength needed to accept the dark sky of corrupt thoughts.

The Old Scribe had told you of a Roman trio, employed to paint the celestial face of the capital with splashes of melancholy, tidy and precise, to make us leap towards the celestial catacombs of human attitudes. It is from there that the last song comes out, which will be part of the long-awaited new album: let's hope it comes out as late as possible so that we can digest this gloomy beauty, with its procession, son of a wrong night in the eighties, the one that no one dared to record…


The piece in question is capable of bringing together a text made of molecules of sadness anointed with reasonableness and the propensity

 to separate silence from the madness of human delirium, while the music plummets into the void, light as it takes the pulse away. It may be because of connections of delicate musical genres, in the temple of a Synthwave that disturbs Post-Punk to impose an enchanting melody, with its dynamite coloured grey. Because everything has to do with the vulgarity of behaviours that taste of deception: that mask, of which the old scribe spoke earlier, is only the infected diadem of a grim suspicion. Nothing saves souls, least of all in the frozen space of a need contained and maintained by a bass that corrupts by its will to bind itself to the tribal drumming, wildly obscene, to make the rhythm section a mental seizure. It sounds like  New Year's Day by U2 in that piano that doesn't let go of the synth, the musical jumper, the one that warms the chest. Francesco and Emmanuele look up, turn their backs on the future and patrol sensual territories, where everything is a resource for a melody that deserves to be strung to the stars. Christian adds to the natural gift of a voice with a powerful and sensual timbre also the ability of a high register, almost shouted in the finale, to glue the shivers of this mind-twisting magnet. But, don't forget the theme, the path of the text, the denunciation, the taking of the bastille of the only truth of this modern life: to be destined to be like everyone else, with the same mask, the same burden, the same precipice. That all this is generated in the eternal city increases the discouragement, the nails scratch the dreams and one relies on the bass to meet the finished beat under one's shoes. 


Certainly the keyboard would seem to ground the guitars (and the band seems to have made the correct choice): the three have sufficient resources not to disperse what must be essential. Echoes of Psychedelic Furs bring us back to tears, the ones flowing from their first album, when the saxophone (nowadays badly used by Post-Punk and Darkwave bands) is offered the task of displacing thoughts by opening the dream lane. All this becomes a perfect contradiction that makes the song functional in confusing certainties. Pigs is a latrine, a street where lights are wasted and colours are boiled in the decadent formality of a denunciation. Maturity hurts as much as truth, and the message, from a bottle, passes through relationships made of luminescence without petals of shame. The world is freezing over, like a silent failure falling into laments entrusted to that very sax.  What remains? Unspoken words, capable of transforming into musical textures with solvent on the skin, to disappear in the magnificent custom of continuous listening, to make the song become a loop, like a perfect lover, to weep, to dissolve the fear given by the boundaries of the world with no more loyalty. Shivers that suspend every dream, and the singing is a weightless sad punch: the voice alone sinks the breath of listening...

One is stunned by the power, never a moment's pause, no small detail, the excellent choice of using the method of two voices in the verses, like a reverb and an echo to confirm the validity of the lyrics. In the refrain (the Roman band's highlight without a doubt since their debut), the voice seems to need no support as the bass, keyboard and drums are angels with powerful hands, albeit painted black...

The statement that disconcerts but becomes salutary is given by "We are used to falling in silence": I'm sorry to contradict the statement but with a song so immense, intense, true and raw, none of us can fail because if there is a joy, even a lopsided one, it is given by Pigs, definitively Italian Single of the Year for the Old Scribe.

And now? All that's left is for us to mute our emotions and disperse among the wandering, pulsating landmines of this Roman gem…


Alessandro Dematteis
Musicshockworld
Salford
31st May 2023

https://open.spotify.com/album/79snihx4ijcQTXxlKE7eX0?si=6nRQvERtT2Ot_miOaTE9gg

https://youtu.be/MBuHrD1i2oA



La mia Recensione: Metallica - Fade to Black

 Metallica - Fade to Black


Esiste un margine, nella storia inquieta di ogni furto, che sa determinare un dolore lungo come un sentiero di aggressioni senza termometro. Un furto, sì, proprio questo, diede la scintilla della prima ballata di musica Thrash, e ancora oggi non si sa chi ringraziare per quel gesto che rischiò di portare James Hetfield all’autodistruzione più totale. Partono dalle situazioni più inaspettate le delizie che raggiungono l’eternità: Fade to Black è il pianto sciolto nell’acido materno di un adolescente che, senza la sua strumentazione, si è ritrovato a misurare, calibrare, considerare l’esistenza come una moltiplicazione verticale e non una somma di banali eventi quotidiani. I denti si spezzano, il cibo (quella vita improvvisamente cambiata) scivola intero all’interno di uno spasmo non riproducibile. Ma ecco la genialità dell’arte musicale: prendere una pazzia e ripeterla all’infinito, nel macrocosmo di un impeto senza possibilità di consumarsi. L’esistenza e la morte trovano il luogo nel quale appartarsi, permettendo a una di congedarsi e all’altra di vincere, nell’oscurità di una scena terribile. 

Un tremore arriva ai polmoni di una chitarra arpeggiante, figlia di un medioevo che trova il suo personale Rinascimento nelle mani di James, per poi sedersi sotto la disperazione consentendo alla seconda, quella di Kirk Hammet, di far volare lo strazio su nel cielo, dove il desiderio di vita si è dissolto. Una ballad che porta i Metallica ai primi momenti di intolleranza dello zoccolo duro del thrash, ma quella stessa sezione capirà presto di quanto beneficio sarebbe arrivato dall’ascolto: ucciso l’inganno, distrutto il sogno, il brano celebra il bisogno di flettere e di far riflettere la realtà. Quando sembrava che solo le parole avrebbero potuto generare emozioni, un testamento portatile dentro la propria coscienza, ecco sopraggiungere la veemente seconda parte, con cavalcate nelle quali la matricola Metallica torna a obbedire al proprio cliché, quello inventato proprio dalla band. Tutto schizza nell’assolo, quello di Kirk che esagera, prende la pazzia dell’amico James e la rappresenta: sono dettagli voluminosi di una pittura con il dono di sciogliersi nel petto. Lars, il vichingo che ama complicare, riuscendoci benissimo, è colui che meglio di tutti rende il drumming una miscela di venti e artigli, con le sue rullate, le sue dita sincopate e collegate all’esplosione. Molto vi è da fare, per rendere credibile questo suicidio, questa depressione, questo stordimento mentale e non resta che la dimensione non visibile per farlo, perché in ogni segreto si trova il talento, come nel buio, come quello del basso di Cliff, un genio che qui si accartoccia, scuote con i polpastrelli e lascia che il sudore dei suoi capelli finisca sulle sue quattro corde per essere un fulmine divenuto tuono. Esiste una quota intollerabile di compattezza tra le parole, un vomito che uccide gli ingressi del sangue nel pericardio, e la musica che sembra incollarsi a loro, per mostrare una coerenza, un’aderenza che fa schiantare ogni possibilità di incontrare anche un solo momento di luce. La voce di James è un cartone ammuffito, un elenco di verità inaccettabili che si trasformano (una volta saldata la convinzione al legame del ricordo coniugato al furto e alle sue conseguenze) in una grattuggia mentale che cola sino alla sua ugola che si infiamma. Il mistero consta dell’assoluto desiderio di non nascondere quelle chitarre piene di piombo mentre, abbracciate al testo, mettono la vita di un ragazzo contro il muro: Fade to Black è una esecuzione notturna, dentro il vulcano di dispetti che, come insetti feroci, scuotono il cielo facendolo arrossare, perché qui una vita lascia il sentiero e si avvia nel luogo a cui i respiri non possono accedere…

La tristezza, doverosa, consequenziale, cade dentro i watt della band americana, per essere preposta all’ambascia, alla dolente consapevolezza che senza di lei ogni gioia sarebbe sicura di sé, alimentando inutili certezze. Spavaldo, lucido, cupo, etereo nell'essere eterno, questo fascio suicida consola chi ha gli stessi moti divenendo un conseguente punto di riferimento, un approdo, e lo svincolo da ogni illusione. Si piange, come fontane di un brivido in stato di ipnosi perenne, e ci si scandalizza per la progressione a desiderare di ripetere la presenza al fianco di questo brano, in quanto un magnete, arrugginito ma sempre funzionale, ci porta nel suo nucleo, per un incontro amoroso. Sì, amoroso: il coraggio di desiderare la morte è anch’esso un atto d'amore. Quarta canzone dell’album (non sarà una coincidenza che a partire da Ride The Lightning in poi molte ballads saranno posizionate con questo numero), è quella a cui è data una missione: poter convincere i fedeli e i novizi che si può benissimo concludere qui l'approvvigionamento, perché se si andasse avanti si dimostrerebbe solo un finto attaccamento alla vita.

Coriandoli, torce, anime, progressioni di ritmi, scontri di liquidi gonfi di febbre, dove la vitalità ha il dovere di farsi da parte: pare tutto un sarcofago, un precipizio che deve rotolare nei respiri, nei pensieri, sino a rendere completamente umida ogni attitudine all’opposizione. FTB è un calvario necessario ed è proprio l’ultima parte, quella dove il ritmo prende il treno e schizza dentro, a farci intendere che certe note, certe progressioni di accordi sono già i respiri glaciali di un corpo senza vita.

Unica nel disintegrare il suo stesso segreto, la morte, la donna con la falce, la fine dell’esistenza (chiamatela come volete), si è affacciata quasi a metà degli anni Ottanta per scuotere il delirante bisogno di allegria, per uccidere la leggerezza, per massacrare milioni di anime unite nel disimpegno. Basta un furto, però, per rendersi conto di quanto si è storditi senza se stessi, di come perdere il desiderio di vivere sia un atto velocissimo, con le motivazioni che spingono a tirare per i capelli ogni gioia rimasta nelle mani dell’illusione. Non aver più nulla da dare (canta James) è una verità coniugata alla bugia, perché sono davvero poche le canzoni che possono elevare i desideri verso il proprio schianto donando moltissimo. Non si fatica per nulla a esaltare la precarietà dell’esistenza quando certi fatti avvengono nell’adolescenza. Le chitarre, il basso, la batteria, sono torce che illuminano la confusione che ha salutato con la mano e ha urlato forte il suo addio…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

31 Maggio 2023


https://open.spotify.com/track/5nekfiTN45vlxG0eNJQQye?si=8feaeac24c8743fa


Metallica - Fade To Black - Official Remaster (Lyrics) - YouTube


My Review: Metallica - Fade to Black

 My review


Metallica - Fade to Black


There is an edge, in the restless history of every theft, that can determine a pain as long as a path of aggression without a thermometer. A theft, yes, this very one, gave the spark to the first ballad of Thrash music, and to this day we still don't know who to thank for that gesture that risked driving James Hetfield to total self-destruction. They start from the most unexpected situations the delights that reach eternity: Fade to Black is the crying dissolved in the maternal acid of a teenager who, without his instrumentation, found himself measuring, calibrating, considering existence as a vertical multiplication and not a sum of banal everyday events. Teeth break, food (that life suddenly changed) slips whole within a spasm that cannot be reproduced. But here is the genius of the art of music: taking a madness and repeating it ad infinitum, in the macrocosm of an impetus with no possibility of consummation. Existence and death find a place to part, allowing one to take leave and the other to win, in the darkness of a terrible scene. 

A tremor reaches the lungs of an arpeggiating guitar, daughter from the Middle Ages that finds its own personal renaissance in the hands of James, only to sit beneath the despair allowing the second, Kirk Hammet's, to let the heartbreak fly up into the sky, where the desire for life has dissolved. A ballad that takes Metallica to the first moments of trashy hardcore intolerance, but that same section soon realised how much benefit would come from listening to it: killed the deception, destroyed the dream, the song celebrates the need to flex and reflect reality. When it seemed that only words could generate emotions, a portable testament within one's own conscience, here comes the vehement second part with rides in which the freshman Metallica returns to obey its own cliché, the one invented by the band itself. Everything splashes in the solo, Kirk exaggerating, taking his friend James' madness and representing it: they are voluminous details of a painting with the gift of melting in the chest. Lars, the viking who loves to complicate, succeeding very well at it, is the one who best renders the drumming a mixture of winds and claws, with his snares, his syncopated fingers linked to the explosion. Much has to be done to make this suicide, this depression, this mental daze believable, and all that remains is the dimension non-visible dimension to do so, because in every secret lies talent, as in the darkness, like that of Cliff's bass, a genius who here crumples, shakes his fingertips and lets the sweat from his hair fall onto his four strings to be lightning turned thunder. There is an intolerable amount of compactness between the words, a vomit that kills the blood entrances to the pericardium, and the music that seems to glue itself to them, to show a coherence, a tightness that crashes any chance of encountering even a single moment of light. James' voice is a mouldy cardboard, a list of unacceptable truths that turn (once the conviction is welded to the bond of memory conjugated to theft and its consequences) into a mental grating that drips down to his burning uvula. The mystery consists of the absolute desire not to hide those guitars full of lead while, embracing the lyrics, they put a boy's life against the wall: Fade to Black is a nocturnal performance, inside the volcano of spitefulness that, like ferocious insects, shakes the sky making it redden, because here a life leaves the path and goes to the place where breaths cannot access. Sadness, dutiful, consequential, falls within the watts of the American band, to be prey to the anguish, to the painful realisation that without it all joy would be safe of itself, feeding useless certainties. Fearful, lucid, dark, ethereal in being eternal, this suicidal bundle consoles those with the same motions becoming a consequent point of reference, a landing place, and a release from all illusions. One weeps, like fountains of a thrill in a state of perpetual hypnosis, and is shocked by the progression to wish to repeat the presence at the side of this track, as a magnet, rusty but still functional, brings us into its core, for an amorous encounter. Yes, loving: the courage to desire death is also an act of love. The fourth song on the album (it will be no coincidence that from Ride The Lightning onwards many ballads will be placed with this number), it is the one that is given a mission: to be able to convince the faithful and the novices that one can very well end the supply here, because if one went on it would only show a false attachment to life.

Confetti, torches, souls, progressions of rhythms, clashes of liquids swollen with fever, where vitality has a duty to step aside: it all looks like a sarcophagus, a precipice that must roll in the breaths, in the thoughts, until every attitude of opposition is completely dampened. FTB is a necessary ordeal, and it is precisely the last part, the one where the rhythm takes the train and splashes in, that makes us realise that certain notes, certain chord progressions are already the glacial breaths of a lifeless body. Unique in its disintegration of its own secret, death, the woman with the scythe, the end of existence (call it what you will), appeared almost in the mid-1980s to shake the delirious need for joy, to kill lightness, to slaughter millions of souls united in disengagement. All it takes is one theft, however, to realise how stunned one is without oneself, how losing the desire to live is a very quick act, with the motivation to pull any joy left in the hands of illusion by the hair. Having nothing left to give (sings James) is a truth married to a lie, for there are very few songs that can elevate desires to their own crashing giving. There is no effort at all to extol the precariousness of existence when certain events occur in adolescence. The guitars, the bass, the drums, are torches that illuminate the confusion that has waved goodbye and shouted its farewells loudly...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

31 Maggio 2023


https://open.spotify.com/track/5nekfiTN45vlxG0eNJQQye?si=06b82dc8d35d447d


Metallica - Fade To Black - Official Remaster (Lyrics) - YouTube


martedì 30 maggio 2023

My Review: SOFT VEIN - VIOLENTIA

SOFT VEIN - VIOLENTIA


Genuflected, stunned, admiring, the old scribe applauds Justin Chamberlain as he rides his winged horse across the prairies with his solo project, which are mixed zones swollen with Darkwave gems always ready to write new stories of Coldwave-esque welcome and subtle, biting electronics, but never with the headlights on.
A single that begins with a synth that shortly afterwards finds itself submerged in a sonic theatricality that borders on the deepest emotion: an ebm approach stripped of impetuosity, but hovering to establish that there are boundaries in the prairies that must be erased. A robotic gait, a vocal mantra that sucks in the heart and tosses it into the wind. A never-ending verse, the song form is frustrated and annihilated, and it delivers a shredded emotion typical of the roughest Germany. The Los Angeles-based artist offers us all a slipknot on which our skin can smile...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30th May 2023

https://softvein.bandcamp.com/track/violentia?from=search&search_item_id=553351059&search_item_type=t&search_match_part=%3F&search_page_id=2629226543&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=b7f5e72fa1435124ae8463949d275353



La mia Recensione: SOFT VEIN - VIOLENTIA

 

SOFT VEIN - VIOLENTIA


Genuflesso, stordito, ammirato, il vecchio scriba applaude Justin Chamberlain che con il suo progetto solista corre sul suo cavallo alato tra le praterie, che sono zone miste gonfie di gioielli Darkwave sempre pronte a scrivere nuove storie di accoglienza alla Coldwave e una elettronica sottile, pungente, ma mai con i fari accesi su di sé.

Un singolo che inizia con un synth che poco dopo si ritrova sommerso da una teatralità sonora che rasenta la commozione più profonda: un approccio ebm spogliato dall’irruenza, ma che aleggia per stabilire che esistono confini nelle praterie che vanno cancellati. Un incedere robotico, un mantra vocale che aspira il cuore e lo getta nel vento. Una strofa infinita, la forma canzone viene frustrata e annichilita e regala un'emozione ammaestrata tipica della Germania più ruvida. L’artista di Los Angeles offre a tutti noi un nodo scorsoio su cui la nostra pelle può sorridere… 


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Maggio 2023

https://softvein.bandcamp.com/track/violentia?from=search&search_item_id=553351059&search_item_type=t&search_match_part=%3F&search_page_id=2629226543&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=b7f5e72fa1435124ae8463949d275353






My Review: The Glass Beads - Therapy

 

The Glass Beads - Therapy

After almost three years, the Ukrainian duo's work continues to be among the best ever listened to and experienced by the old scribe: a black-blade experience, a rummaging through feelings and thoughts within The Glass Beads' heavenly and proverbial ability to be a stinging yet mysterious poem, with their well-established method of searching for melody as if a symphony orchestra had taken possession of a new electric vocation.

Can a hypnosis make us find ourselves inside damp, decaying handkerchiefs, with sadness that cannot even get angry, given such poignant beauty? This is music that wars, peacefully, with silence, in a tug-of-war that makes it win, for its plots always full of almond blossoms in December, because they know how to live and express the absurd, without limits or impediments: the Ukrainian duo has omnipotence in its hands.
They are lesiniform leaves: they hurt slowly, even if they present themselves in that way, but perhaps their slowness, the care they take to respect the listener, means that the pain comes a few hours later, because they are devices between mysticism and the conviction that nothing of them will wither.
One of the most beautiful works of all time that knows how to envelop time, carrying the illusion in our veins that the wounds can find a rest, but no: they are the creators of new spasms, but they are beautiful and regenerate the old ones. Between Darkwave, Post-Punk, Synthwave, there are these presences, songs daughters of a becoming that will intoxicate you, like a long film that you will carry in your eyes: forever…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30th May 2023

https://theglassbeads.bandcamp.com/album/therapy-2?from=search&search_item_id=2075656217&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629223037&search_page_no=0&search_rank=1&logged_in_menubar=true



My Review: Happy Phantom - VICIOUS LIES

 

Happy Phantom - VICIOUS LIES


Once upon a time there was SEVIT, and this is history.
Then Jackie Legos took his talents and started writing new prayers with muffled vocals, pins and gushes of putrid water and spawned the Happy Phantom, a weird, anomalous, sour and malignant mass that struck the old scribe's heart. Off we run, into the corridors of these Post-Punk parchments, unrolling needles and liquids of gothic properties. There are three components in this work, but the sensation is that of listening to a crowd racked by feelings of the world crawling inside these scorching seeds, in which the voice sounds like that of a Robert Smith relieved of certain horrors, but ravenous to be a landfill that throws itself into fears as an act of joy, uncontrollable.
The music enjoys electronic inserts, and at times the drums seem to help a bending towards a Darkwave that winks at Coldwave, but these are hesitations that last for only a few moments: the twelve compositions are a sampler that has its DNA in a sweet murderous Post-Punk form, deprived of certain banalities, depraved because it is highly cerebral, in a direction of total loss of senses, and tried by life that tires and annihilates enthusiasms.
At times the sequence of chords and the blades of the guitar seem willing to kiss deathrock: extraordinary this illusion, as it lasts only a few moments, we find ourselves in their zone made of lead without tar but still dirty, that dirt that attracts and conquers. We pick up twists, vehemence, screams thrown into the dry rhythms and melodies, in a funnel full of toxins and whiffs of decadent life.
The minutes tick by and you can hear a quivering, an approximation to the Cure more in breath than in musical form, and if there is a reference to be made, it is certainly in the area of Pornography. But the piano, the way the synths are used shifts the conviction and then you reflect, finding that their personality wins out over any baloney theory and you meet their style, which in the end makes this album a delightful fright…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30th May 2023

https://darkentryrecords.bandcamp.com/album/happy-phantom-vicious-lies?from=search&search_item_id=2783952250&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629224591&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=ffbdadd4158a40d2ac501b35bd1d01b0



La mia Recensione: Happy Phantom - VICIOUS LIES

 

Happy Phantom - VICIOUS LIES


C'erano una volta i SEVIT, e questa è storia.

Poi Jackie Legos ha preso il suo talento e ha cominciato a scrivere nuove preghiere con la voce ovattata, spilli e zampilli di acqua putrida e ha generato gli Happy Phantom, una messa stramba, anomala, acida e maligna che ha colpito il cuore del vecchio scriba. Via, si corre, nei corridoi di queste pergamene Post-Punk, che srotolandosi mostrano aghi e liquidi di gotiche proprietà. In questo lavoro sono tre i componenti, ma la sensazione è quella di ascoltare una folla arrovellata per sentimenti del mondo che strisciano dentro queste sementi roventi, in cui la voce sembra quella di un Robert Smith alleggerito da certi orrori, ma famelico di essere una discarica che si butta nei timori come un atto di gioia, incontrollabile.

Le musiche godono di inserti elettronici e alcune volte la batteria sembra aiutare una flessione verso una Darkwave che ammicca alla Coldwave, ma sono esitazioni che durano per pochi attimi: le dodici composizioni sono un campionario che ha il suo DNA in una dolce assassina forma Post-Punk, privata di certe banalità, depravata perché altamente cerebrale, in una direzione di perdita dei sensi totale, e provata dalla vita che stanca e annichilisce gli entusiasmi.

A volte la sequenza degli accordi e le lame della chitarra parrebbero volenterose di baciare il Deathrock: straordinaria questa illusione, in quanto dura pochi attimi, ci ritroviamo nella lora zona fatta di piombo senza catrame ma comunque sporca, quello sporco che attrae e conquista. Si captano torsioni, veemenze, urla gettate nei ritmi e nelle melodie secche, in un imbuto pieno di tossine e soffi di vita decadente.

I minuti scorrono e si sente un fremito, un avvicinamento ai Cure più nel respiro che non nella forma musicale, e se c’è da fare un riferimento sicuramente si è nella zona di Pornography. Ma il piano, la modalità dell’utilizzo dei synth spostano la convinzione e allora si riflette trovando che la loro personalità vinca su ogni teoria balorda e si incontra il loro stile che in conclusione rende questo album uno spavento delizioso…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Maggio 2023

https://darkentryrecords.bandcamp.com/album/happy-phantom-vicious-lies?from=search&search_item_id=2783952250&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629224591&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=ffbdadd4158a40d2ac501b35bd1d01b0






La mia Recensione: The Glass Beads - Therapy

 

The Glass Beads - Therapy


Dopo quasi tre anni, il lavoro del duo Ucraino continua a essere tra i migliori di sempre ascoltati e vissuti dal vecchio scriba: un’esperienza dalle lame nere, un rovistare in mezzo a  sentimenti e pensieri all’interno della celestiale e proverbiale capacità dei The Glass Beads di essere una poesia urticante ma misteriosa, con il loro consolidato metodo di cercare la melodia come se una orchestra sinfonica si fosse impossessata di una nuova vocazione elettrica.

Può un'ipnosi farci ritrovare dentro fazzoletti umidi, in fase di decomposizione, con la tristezza che non può nemmeno arrabbiarsi, data cotanta e struggente bellezza? Questa è musica che guerreggia, pacatamente, con il silenzio, in un braccio di ferro che la fa vincere, per le sue trame sempre pregne di mandorli in fiore nel mese di dicembre, perché l’assurdo loro lo sanno vivere ed esprimere, senza limiti né impedimenti: il duo Ucraino ha tra le mani l’onnipotenza.

Sono foglie lesiniformi: fanno male lentamente, anche se si presentano in quel modo, ma forse la lentezza, l’attenzione che hanno per rispettare l’ascoltatore fanno sì che il dolore sopraggiunga qualche ora dopo, perché sono accorgimenti tra il misticismo e la convinzione che nulla di loro potrà appassire.

Uno tra i lavori più belli di sempre che sa avvolgere il tempo, portando l’illusione nelle nostre vene che le ferite possano trovare una sosta e invece no: sono proprio loro gli artefici di nuovi spasmi, ma sono bellissimi e rigenerano quelli antichi. Tra Darkwave, Post-Punk, Synthwave vi sono queste presenze, canzoni figlie di un divenire che vi intossicherà, come un lungo film che vi porterete negli occhi: per sempre…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Maggio 2023

https://theglassbeads.bandcamp.com/album/therapy-2?from=search&search_item_id=2075656217&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2629223037&search_page_no=0&search_rank=1&logged_in_menubar=true



domenica 28 maggio 2023

La mia Recensione: The Smiths - The Smiths

 

The Smiths - The Smiths

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.

(Paul Klee)


C’era una volta un semaforo, nel bel mezzo del cielo grigio di un agglomerato urbano ribelle ma muto, che vedeva scorrere le vite disoneste, spente, piene di allergie, e fermava tutte queste anime con l’apoteosi di musiche che accendevano entusiasmi che appassivano dopo pochi minuti: Manchester degli anni Settanta era uno strano coacervo di passi, sentieri, sbagli e ipotesi, in cerca di una esplosione, che si augurava di determinare molto in fretta. Ci avevano provato tre band, in ordine cronologico: Buzzcocks, Magazine e una che ha fatto molto di più di tutto questo, accelerando la catastrofe della città, perché dopo di loro sarebbe sorta una sterilità che non avrebbe fatto altro che metterla completamente da parte. Oggi non è più la capitale inglese della musica, e va bene così. Ma il vecchio scriba ha potuto capire quale è stato il momento del parto che ha reso quell'agglomerato urbano incapace di generare altri figli. Sono stati quattro cadaveri, quattro spavaldi intolleranti, incattiviti da metodiche che lasciavano al futuro solo sogni, velleità e illusioni. Ma Stephen, Johnny, Andy e Mike avevano le redini, il bavaglio, tele di catene con i brividi appiccicate a canzoni che sapevano divenire la bottega della miseria, nella notte arrossata di un percorso senza finestre.
L’album di esordio è uno straordinario errore, una incapacità folle di essere banali e prevedibili, un osceno affronto alla civiltà britannica ancora devota a conservare l’arroganza di poter conquistare e dominare. In fondo pure loro volevano arrivare al potere e lo hanno ottenuto, passando dalla porta sul retro di una casa senza lustrini (quelli li avevano presi i New York Dolls e il buon Marc Bolan), per rimanere nello scantinato tra giovani e immortali rughe e riff che potevano ferire il cuore di chi (vi ricordate Ian Curtis?) aveva già dichiarato il fallimento di un sistema, per prendere le distanze e crogiolarsi nella bellezza, quella atomica, quella che non lascia respirare nemmeno i sogni.
The Smiths ferisce, molesta, offre chiodi e siringhe, storie sbilenche, raccapriccianti ma vere, quindi credibili e in grado di squarciare il perimetro della città di quel canale del quale il cantante dinoccolato aveva avuto la necessità di mettere a bordo la storia. Musiche astute, perché lontane dal Post-Punk pur avendo l’odore di una ascella malata di stanchezza. Fatte di piume Pop con il timbro di una decade che per davvero aveva illuso tutti, ma avendo lasciato almeno una luce spenta: non ci sarebbe stata più tanta allegria…
Questi ragazzi avevano l’umore di una giornata in miniera pur avendo i polpastrelli lucidi e ben pettinati, ma una volta che toccavano gli strumenti ecco una ribellione improvvisa a rendere penosa ogni reazione. All’arciere Morrissey il delicato ruolo di confezionare frecce, pallottole, bombe e mine anti-stupidità: si doveva cercare il torbido e imbalsamarlo.
Ma del colore delle composizioni di questo anfiteatro inglese ne vogliamo parlare? La storia ci dice che i quattro sono riusciti a spaventare genitori, amici, gli incoscienti, gli inutili, gli spavaldi collezionisti di squallide avventure, nel momento in cui la città non riusciva più a farsi il trucco di giorno, ma solo negli appuntamenti di quella grande puttana che è la notte Mancuniana dei primi anni Ottanta. Il metallo cola dalle chitarre di uno gnomo, un puffo che, come in un bisogno anacronistico, si permette di scavalcare il tempo e di prenderlo in giro con l'atteggiamento di chi piange mentre fa sorridere la musica, nel delirio di una classe incontrollabile, effervescente, che miscela funky, rock, pop, blues, punk e la follia di chi nelle note immette passione e una dose di freddezza ordinata dal dottore dell’imprevisto, un tipo strano ma necessario.
Il basso in questa band, nel presente disco, è una carezza di piombo, lontana dai cliché di chi cercava il dominio, l’arroganza del capobanda in quanto, si sa, è lo strumento più importante di una formazione dedita al rock. Andy Rourke ha avuto il coraggio di sembrare un soldatino obbediente al servizio del Re Marr, per lasciare al suo regno la luce, la scena. Ma che inganno! Sui suoi solidali voli, tutto sembrava ordinato, pieno di polvere e in grado di incollare trame e nuvole che lo gnomo non smetteva di disegnare nella granitica Manchester. Vedremo poi cosa è riuscito a combinare. Mike, l’uomo del caso, diviene qui la vincita milionaria, il metronomo di ogni talento, il vigile e il tappeto su cui tutto poteva scivolare e frenare, collaudando uno stile poi divenuto essenziale negli anni Novanta. Un’anima silenziosa che nel disco sculaccia la prevedibilità e insegna al mondo intero che leggerezza e potenza sono solo coordinate parallele di un volo senza catene: non il genere, non la tecnica, bensì il progetto, per creare una impalcatura senza possibilità di crollare.
L’lp è frutto di una avidità eclatante, una burrascosa predisposizione a rendere la canzone un pulcino in una giornata di pioggia, nuda e disarmata, per portarla nel caldo cuore delle sue dita vellutate. Johnny Marr è il più adorabile sbaglio della città di Manchester: un Re che si lascia crescere i capelli per nascondere il suo talento è destinato a essere detronizzato in fretta, ma sono passati tanti treni, tanti regni senza che nessuno sia stato in grado di ridicolizzarlo.
Ha portato in studio novità clamorose, effetti, amplificatori, stili e la colla magnetica che può possedere solo chi con un riff non si gioca la vita bensì la schiaffeggia con la risata di un regnante senza corona. Il buon Marr ha anticipato usando il passato di chi non voleva più considerare, ha illuminato i polsi di errori chiusi a chiave da tanto tempo. Dalla sua collezione di dischi sono usciti stimoli, impulsi e tanta voglia di mare. Che ha saputo inventare e sul quale il profeta/poeta di Stretford ha fatto nuotare le parole più cupe, più arroganti e strazianti che si potessero immaginare. Ma Morrissey è andato oltre: sapete di cosa parlano i suoi capricci verbali? Quali sono i temporali mentali della sua indole pseudo ignorante? Quali sono le pallottole che ha lucidato per costruire un romanzo senza l’ultima pagina? Quest’uomo ha elevato l’arte, portandola nel Millequattrocento, buttando via la storia successiva e togliendo alla verginità dei sogni la possibilità di un ristoro, fosse pure temporale. I suoi testi rendono buia Salford, Deansgate, Bury, Oldham e le zone limitrofe, per divenire spazzatura da congelare. Sono catastrofi piene di logiche senza senso per i più, estremamente importanti per i meno, che qui, nel nord ovest inglese, sono una muta maggioranza ed è proprio quella parte della città che ha tributato subito considerazione nei confronti del poeta occhialuto, mostrando un ostinato bisogno di nutrirsene. Burrascosa la produzione, tanto da dover registrare daccapo l’album, cambiare il timoniere del suono e fare il tutto velocemente, visto che la Rough Trade non aveva soldi da perdere stupidamente…
Poi: la magia, a rendere cieche le orecchie e muti gli occhi, per incastrare il sole nella sofferente periferia Mancuniana e dare alla violenza suburbana il palco. Così come alle storie piene di sbavature, come una scialorrea inevitabile consequenziale all’approdo enigmatico di identità votate al terremoto morale. Morrissey ha saldato la verità con ironia, rendendo merce prelibata e senza prezzo il pensiero, la scelta di passeggiare con il raziocinio dentro le inquietudini, sia quelle adulte che quelle adolescenziali.
Ed eccoci, tutto è da consegnare alla lente di ingrandimento, all’ispezione anale di una volgare attitudine da parte di un quartetto che ha saputo squarciare il cielo dell’idiozia e inondarlo di gladioli.
Il dovere chiama: sia accesa la luce di uno stratagemma che comprende l’analisi di una verbosa ed esasperante capacità di cambiare per sempre la vita di chi vi scrive…

Song by song 

1 Reel Around the Fountain

Si può prendere la verginità della pelle, di un’anima e gettarla nell’indifferenziata, di una raccolta malata e malandata, e farla divenire una rovente denuncia? Se sei Morrissey sì, amaramente, con le lacrime ossidate, le chitarre arpeggianti nel letto del canale Irwell, il testimone muto di molte porcherie. La canzone è lenta, prevedibile, noiosa, sprezzante, un’atomica che guarda con cattiveria il polso di un adulto strappare il sogno di un fanciullo. Joyce martella con rispetto, e lo fa con la sua grancassa lucida. Andy si siede sulla storia e accarezza le quattro corde quasi con paura. Lo gnomo trova la chitarra chirurgica, poi si chiede l’aiuto di un noto musicista, gli si lascia il piano ed è tutta la magia nera di uno strupo che sale al cielo là dove Morrissey racconta e aspetta….

2 You’ve Got Everything Now

Si cambia decisamente ritmo, generi musicali tenuti incollati in una strofa che pare giungere da una marcia gracchiante di chitarre americane, sino all’organo che nel ritornello fa diventare tutto così selvaggiamente Sixties. Johnny comincia a marcare il territorio, come un felino, piscia la sua magia sulle dita che si contorcono, obbligando Andy a divenire un danzatore di trame funky, del sottobosco di quella parte del Merseyside così poco nota alle anime stolte. Un brano che poi, se lo si ascolta bene, sarà la base di una modalità espressiva ritenuta inspiegabile, in libri affannati di scrittori senza talento: Morrissey qui si rivela il maestro delle certezze, quelle senza luce, senza interruttori, ed è solo la trama musicale a tenere il sorriso dentro l’ipotesi…

3 Miserable Lie

La bugia più grande si nasconde nell’arpeggio intrigante e quasi triste di Johnny, una Reel Around the Fountain che ritorna: non è così, è una falsità che subito lascia sangue sul terreno di un'accelerazione Post-Punk ma con nell’anima tutta la radice del Northern Soul più antico e meno celebrato. Chitarre rockabilly, un solo che concede a Morrissey l’isteria sublime di un falsetto che o uccide o attira, o annoia o diventa il pretesto di un'emozione così intensa da essere una droga pesante. Ma i veri regnanti sono Joyce e Rourke, scheletri sublimi, artefici di ossa che fanno danzare e che consentono a Marr di divagare, divertirsi e farci perdere la bussola…

4 Pretty Girls Make Graves

Il futuro degli Smiths nasce in questi tre minuti e quarantatré secondi: la periferia del talento si dirige velocemente verso Piccadilly Gardens, nel cuore della città, nel ventricolo generoso di una melodia che pare rubata in modo irrispettoso a Sandy, la cantante scalza che poi darà un pugno alla band osando accettare l’invito di Morrissey… Ma torniamo al pezzo in questione: tutto si fa chiaro in quanto le melodie sono fumogeni, il ritmo la semplice e fuorviante messa in scena di uno spettacolo che prevede, come protagonisti, vittime che si illudono di detenere il potere. E via, tutto sembra così lontano dai synth, dai ritornelli banali e inutili, e la band Mancuniana con questa semi-ballad pop dà una frustata al circostante, all’elettrica danza  di gruppi infarciti di bruttezza e cataclismi addominali. Qui il falsetto è una fucilata, la chitarra semiacustica il bisogno di visitare da vicino il Country tanto caro a Marr, e la voce è l’Irwell ripulito e disinfettato da una propensione così vicina al richiamo, sempre sublime, di un annoiato Dean Martin capitato per caso nei paraggi. Dal finale della canzone Johnny prenderà i frutti di semi che si riveleranno ancora prelibati nel successivo Meat is Murder…

5 The Hand That Rocks the Cradle

Manchester esplode, con una ninnananna quasi torbida, un viso piangente dentro una melodia che pare imbalsamata dalla perfezione di un incrocio di chitarre e dal basso di Rourke che proviene dal garage di ogni ascolto adolescenziale. Sembra di essere nella periferia nord-est della storia del pop, là dove tutto iniziò: bastano poche note per inchiodare le lacrime al cielo e Marr lo sa bene. Una ossessione schematica, tutto ridotto, nessuna concessione ai ritornelli, tutto liofilizzato, tutto sufficiente a stringere i bisogni e polverizzarli. Gotica più dei Bauhaus, dei Cure, è una sciarpa invernale che con la sua tendenza terribilmente noiosa riesce a uccidere ogni desiderio di vita: semplicemente perfetta…

6 This Charming Man

Aladino era impegnato, Nerone giocava col fuoco, Giovanna d’Arco sarebbe arrivata poco dopo, ma c’era da riempire il vuoto consequenziale creato da una parata di errori che la storia voleva negare. Ci ha pensato Morrissey, creando l’assurdo movimento di una ipotetica intolleranza alla bellezza, devastando con parole fulminanti, allo stesso modo di Marr che, con quell’introduzione, ha spaccato la musica, gettandola nella mediocrità, perché quei pochi secondi sono lo scettro che brilla nelle lacrime solitarie di un inviperito destino designato dalla poesia scorticante di un leader che con questo brano stravolge il cielo. Un su e giù pelvico, sensoriale, che unisce voce e chitarra per lo stesso destino: dare la voce alla pianura affinché sia capace di arrivare a Dioniso…

7 Still Ill

C’è un ponte che collega la mitologia alla polvere di una piccola famiglia operaia (al tempo) che si chiama Stretford, nel passaggio peccaminoso di desideri incollati all’Inghilterra volgare e provocatrice di atti osceni. Marr impazzisce, trova binari non paralleli, per condurre la sua chitarra tra il paradiso e il purgatorio. Gli altri tre sono già all’inferno, data la cattiva condotta e il malvagio comportamento che ha fatto sì che l’umana esistenza conoscesse la perfezione: non sia mai! I sogni bussano, spingono, ma la sensazione di una mente malata non lascia il corpo di una mente che sublima il tutto pilotando la volgarità verso la saggezza…

8 Hand in Glove

Una grattugia, stimolata da un’armonica a bocca acida, sgretola la pelle della Gran Bretagna, a colpi di pagine di carta, di teorie e trame perverse, di una fantasia che ha il potere di rendere cattivo l’alito e il pulsare del cuore. Tutto si rende capace di divenire un moto carbonaro senza base e infatti Morrissey chiude a chiave l’accesso di ogni comprensione con una scrittura che prende in prestito il talento del mai deceduto Oscar Wilde. Moz scrive la storia per sotterrarla così come fanno le dinamiche del primo Novecento, qui nelle mani dei tre musicisti che agiscono con una terapia d’urto, come un TSO inevitabile. Ed è pura paura, puro scuotimento, febbricitante e furbastro, per dare catrame a ogni vascello e renderlo affondabile. La semplice risposta, ma assai profonda, che il bardo scrive per dare alla sua matita la possibilità di incidere meglio di un bisturi…

9 What Difference Does It Make?

Quante zampe ha una chitarra? Quante corde ha il nervo teso di un basso? Quante bolle vivono sulla pelle di un tamburo? Quanta poesia resiste nelle tenaglie di un dubbio? Le risposte, spavalde, respirano e muoiono in questa valanga, tra rock, psichedelia, rock and roll e follia primitiva dalla barba incolta…
Non un brano ma un altare, pagano, sulle rive del mare in burrasca, di una scoscesa perlustrazione, atta a ripulire la musica, tutta, dall’avanzamento tecnologico. Gli Smiths si rifiutano di pulire il culo alle giovani band emergenti, mettono gli artigli negli anni Sessanta e sconquassano il cielo di Manchester, senza paure…

10 I Don’t Owe You Anything

Qui nacquero gli Herman’s Hermits, la band Mancuniana per eccellenza, quella che portò le persone a conoscenza dell’esistenza di questo grigissimo posto. Fecero di tutto per renderlo allegro. Il penultimo brano di questo album di esordio sembra ricordarci la tempra, l’assoluto coraggio nel cercare una melodia che abbracci il sole. Ma Houston, abbiamo un problema, e pure grande: Morrissey canta come se fosse chiuso nel dondolio di una altalena spinta e dipinta dalla signora con la falce perché il suo è un approccio sbavato di vita, gonfio di un ventaglio gelido in grado però di appassionare, il mare in burrasca che, per contraddizione subliminale, seduce e pare una parodia più che accettabile. Lenta, grassa, spigolosa, incantevole come un giardino piovoso, la canzone è un rotolo di cartapesta che saprà ingravidare le stelle…

11 Suffer Little Children

Si va al Cinema, di mattina presto, tra scorticate idee primordiali, e la paura della gioia. La trama letteraria è da premio Nobel, ma con il sangue che finisce sul papiro, così come il basso di Rourke che sembra morire di stenti, solo la batteria di Mike sembra procedere, con semplicità, dentro una fossa che la chitarra di Johnny ha costruito ascoltando gli amati New York Dolls. Non stupisce che il brano più malinconico sembra un’atomica cinese, il fungo che sale sopra il cielo di Manchester lasciandolo spoglio di ogni alito di vita. Come un pranzo finito male, come una stretta di mano che diventa un pugno, così fa la canzone che stabilisce il punto di contatto celebrato precedentemente dentro la Cappella Sistina: l’umano e il divino si sfiorano per creare, nella immortalità, il pretesto di un sogno…

Un esordio, un inizio, e il libero arbitrio sul palmo delle vostre mani: a voi la scelta se obbedire all’orgasmica tentazione della sirena The Smiths o se rimanere fermi alla ridicola propensione di essere umani…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
28 Maggio 2023

https://open.spotify.com/album/6cI1XoZsOhkyrCwtuI70CN?si=c23HAts-TA6KNzTPnStnSg