Iamnoone - The Joy Of Sorrow
Se sia la confusione o la chiarezza a generare un ossimoro come il titolo di questo album non è dato sapere e forse è meglio: con tale dubbio si spalancano cieli turbolenti colmi di danze, con il sale sulle ferite mentre i sorrisi maliziosi si spalancano e vanno, nomadi e infelici, su una dance hall dove l’ipnosi è il marchio di fabbrica del duo italiano, anche se molte cose sono cambiate (in meglio) per rendere queste dodici composizioni un congedo nei confronti del passato e un abbraccio umido al futuro.
Philippe e Seth rivelano un’osmosi che sbalordisce, con una compattezza che non può non essere virale quando si ha l’illusione che la loro “antica” bellezza e profondità si evidenzi ancora.
Ma non vi è dubbio che la propensione sia quella di creare un circolo di appetibilità sonora che sa essere una invocazione gentile a condividere queste perle davvero intense, che volano nei meandri di una turbolenza educata da un uso intelligente di elettronica, nella quale le chitarre sembrano sparite e si incontrano massicce dosi di armonia che nutre la gioia del dolore…
La freschezza, le ipotesi elaborate nella mente dei due, gli istinti incendiari nerastri, la piacevole tossicità di ritmi incalzanti, i testi che scrutano e trattengono, pile di granitiche movenze a raccattare il cadavere di generi musicali ormai consolidati dalla precarietà e da un senso di resistenza sempre più minimo, fanno di tutto ciò qualcosa di necessario.
Gli Iamnoone diventano una coppia di dinosauri volatili e nello specifico due argentavis magnificens, in grado di afferrare i cadaveri dei nostri cervelli e portarli nell’atrio del loro operato artistico tra le montagne sudamericane, per una messa alcolica e robusta, con riti che fanno sudare l’anima e prendere consapevolezze che agitano le emozioni. Il buio si è trovato inevitabilmente cambiato: la band non intende dare consigli ma, come dovrebbe fare l’arte saggia, accende un cero sui detriti e semina dubbi, invita a seguire questa navicella danzante dentro traiettorie che trasformano il tempo in una trottola spaventata, con classe.
Musicalmente spesso dalle parti di una ebm mai esagerata, con flussi antichi di coldwave che rendono il tutto un ennesimo matrimonio forzato e tuttavia perfettamente oliato.
Per quanto concerne il cantato, si fa più melodico, cadenzato, vibrante, con, in aggiunta, la capacità di giostrare meglio i registri di voce.
Ma poi vi è l’innegabile sensazione di uno studio letale nei confronti dei pulviscoli striminziti che sono diventati i pensieri, con la solitudine e la tristezza uniti in un abito primaverile senza cerniera, con la volontà di far rimbalzare attraverso synth davvero magnetici questi due elementi sempre più collegati all’inevitabile declino.
Gli anni Ottanta cadono davanti a questa progressione intellettuale.
I suoni inutili degli anni Novanta vengono messi in panchina.
Delle due ultime decadi rimangono gli argomenti, però la modalità espressiva muta, si discosta e si dirige con rapidità verso l’allontanamento e l’annientamento di quelle catene pesanti che erano l’imitazione e l’incapacità di generare aria fresca nei solchi.
Si può essere freschi con la morte dipinta nelle note? Se hai scritto questo disco sicuramente: ed è stupore saldato con raggi che odorano di metalli pesanti.
Brevi introduzioni, il corpo essenziale dei brani velocemente individuato e poi via con sfumature, arrangiamenti secchi e il senso di corsa che non ci abbandona mai, che fanno di questo lavoro una nube non ancora in grado di essere considerata tossica ma sicuramente pericolosa: sono molte le persone che temono la bellezza oscura e qui non avranno un attimo di tregua.
Si avverte la piacevolezza della presenza che non è solo descrittiva di un recente passato, in quanto, a mano mano che l’ascolto prosegue, si immagina il tutto nascere proprio in quell’istante e così facendo ci troviamo innanzi al miracolo dell’autorevole autogiudizio.
The Joy Of Sorrow diventa un mistero che cerca un colloquio, una partita a dadi sempre più truccata di una piramide impudica e vibrante, con il peccato che viene dai due invitato a buttare giù gli assi. Quelli dei musicisti sono pieni di matematica e di un incandescente pantaclo, abile nel far dirigere lo sguardo verso le sue cinque punte e collocarsi nelle dodici tracce, per ricoprirle di magia e di una densa atmosfera .
I rapporti, il tempo, gli spazi, le calamite intellettuali che paiono sacrificabili senza compromessi, rendono radioso l’ascolto seppure non vi siano dubbi che gli echi che abiteranno nella testa sapranno far vibrare chi tiene in mano il nostro destino.
Essenziale dare risalto ai ritornelli che spesso rivelano la fantasia concentrica di Seth, fedele nella sua potenza e capacità di conferire ai tratti melodici un senso maggiorato e propulsivo: il suo basso è un trattato di chimica applicata alla fantasia melodica di Philippe, per incontrarsi nella sala da ballo di una festa dove le anime solitarie piangono e ballano al suono di queste canzoni, per immergere la verità dentro la negazione di un futuro e dove, per inciso, il nichilismo non c’entra nulla.
Fedeli alla Cold Transmission di Andreas e Suzy Herrmann come in un patto in cui la reciproca stima sfocia in un party nella foresta nera tedesca, questo combo trasferisce la pellicola italiana fatta di sudore e disincanto all’interno del proverbiale senso pragmatico germanico, per generare un happening infelice in modo delizioso, con l’aggravante di brani che sapranno rimanere guerrieri nel tempo, proprio in questo che sembra preferire la caduta e l’incapacità.
Tutto è un eco corrotto, i sensi messi alla sbarra piena di plastica e transistor indaffarati, il ritmo che non concede pause e la musica è una fabbrica di mirtilli che si placano sulle labbra di queste composizioni, in un sensuale manifesto che fa della eroticità un piacevole calvario.
Fertili, galvanizzati dalle loro traiettorie su candelabri di un giorno clandestino, magnetizzano l’ormai sterile post-punk con soluzione saline che danno quel brio nerastro da cui i due sono sempre stati affascinati. In questo album trasformano le potenzialità in una elaborata scena dove la Fura dels Baus si esibisce con loro nel trattenere le tenebre e farle diventare una nuova pietra da lanciare dal centro del palco.
Potente, ammiccante, seducente, l’ultimo atto di questa sfera cerca artigli di gesso, con l’attenzione rivolta al perimetro dove siedono soluzioni da attivare: lo fanno egregiamente, forgiando il carattere con queste conversazioni che hanno la saliva e sputano via la vita da consumare con semplicità, gettandole addosso una paradossale paura in quanto, per davvero, non ci si deve far ingannare dai giochi luminosi di queste tastiere, perché lo scherzo migliore si traveste di semplicità fuorviante…
Ora danziamo e scendiamo sul viscido pavimento per sorseggiare assenzio e Fernet Branca…
Song by Song
1 - In Fear
La balbuziente, l’inarrestabile paura è colei alla quale i due hanno dato il compito di aprire l’arcobaleno delle sommosse: un congedo gentile dal loro egregio Together Alone del 2023, per concedere l’illusione che il loro cammino sarebbe stato simile. Invece no. Basta sentire come la progressione del brano conduca a un’apertura fintamente solare, come mai prima…
2 - This Is Forever
I vecchi Clock Dva e Front 242 potrebbero sussurrare lo schema iniziale ma poi è fuga, progressione, un incalzare la vita con una eternità che si appoggia al basso lapidario e alla vertigine di una elettronica saggiamente circolare, mentre la voce sembra enunciare e presenziare al declino della perdita, che altro non è se non la caratteristica di questa attualità destinata a vivere nell’eternità morente…
3 - Third, Fourth And Fifth
Parzialmente nevrotico, pulsante e magnetico, in realtà questo brano vive sopra l’Olimpo, in un giorno nel quale la vecchia chitarra pare spuntare fuori per concedere poi alle dita di Seth di essere quelle di un fabbro senza pietà.
4 - MFM
Pensate ai Kraftwerk infanti, semplici e sognanti: portateli in una radura con un computer moderno e l’antica genuflessione melodica italiana, ed ecco questo cancro sul collo cercare una pausa, senza trovarla: tutto è marcia incalzante, un sussurro agitato che scuote l’anima nella notte senza luci…
5 - Soulless
Continua la sperimentazione, quella che precede il brano vero e proprio: è sintomo febbrile, è scissione, scossone per poi divenire magnete. Antichi cenni di Giorgio Moroder e Cher nella parte musicale si fanno avanti e poi è una balestra nel ritornello, con note come precipizi mentali, dove la melodia si rivela capace di connettere gli anni Settanta e i giorni nostri.
6 - Ask The Wind
Unire un piano, un soffio di vento e una sciabolata di basso che il vecchio marpione di Hooky non saprebbe più riprodurre è davvero un fatto micidiale, poi una veste di raso scende e attraversa l’aria con il cantato di Philippe che nasconde molto bene il segreto della sua eleganza in quanto parrebbe suggerire domande anziché determinare la bellezza con il suono decadente che vive nella sua ugola lacerata…
7 - The Age Of Sadness
Quando i due insistono nel loop, nelle adiacenti zone dell’arrangiamento prende vita questo tempio di incanti e trappole, si finisce per fischiettare lo scorrere polemico della tristezza, divenuto macigno. Ma la prodezza balistica sta nei versi iniziali che spingono la mente a focalizzare, a rendere l’interpretazione qualcosa di inutile: meglio viaggiare nelle immagini di questi suoni magnetici, per utilizzare il testo come specchio veritiero del gioco sporco dell’esistenza.
8 - Fever
Ci prendono per mano con frammenti italo disco dance degli anni Ottanta, per poi metterli nel petrolio e aspettare i germogli di questa tastiera che traccia spilli tanto cari agli Orchestra Manoeuvres in The Dark. Si vola, ci si ferma tra le nuvole, e poi è cadenza battente, è seduzione notturna totalmente febbricitante…
9 - The Labyrinth Is In My Mind
Eccoli i due degli esordi, generosi maghi dentro aghi e fili insanguinati: il brano più cupo che è l’unico momento nel quale gli antichi passi sembrano risorgere. Pura illusione: basta il basso con la sua procedura marziale a mostrare come il passato sia una finestra a cui loro non guardano più. Rimane però la sensazione che come una enciclopedia affettuosa tutto possa ancora essere studiato e proposto, con qualche mutazione eccitante…
10 - 99 Angels
Canzone apripista che potrebbe anche chiuderla, e che fortifica i movimenti fluidi di trame buie, 99 Angels è il colpo di genio semplificato: una struttura ossea ben tornita da petali ebm riesce a devastare i generi musicali adiacenti per diventare lo specchio di ciò che sono oggi gli Iamnoone…
11 - Purity
Ecco apparire l’autore rumeno-tedesco Michael Cretu che gioca con i synth, ma i due italiani sospendono le note per riportarle in movimento, sottile e semplice, nel ritornello, con la parte vocale che benedice ciò che resiste avvolto in un mantello bianco…
12 - Pain
L’inaspettato diventa atto di gloria, materia di studio e di una forza notevole: Pain è il futuro di un passato musicale ormai rimasto inchiodato sotto la polvere. Gli Iamnoone rivitalizzano, rendono lubrificato quel periodo in cui in poche note si trovavano cibo e bevande. Incline a una inseminazione artificiale del tempo che fu, diventa un congedo magnetico, rossastro, davvero imprevedibile, per permettere alla gioia di dare al dolore il giusto misurino di una punizione instancabile…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Ottobre 2024
https://iamnoone1.bandcamp.com/album/the-joy-of-sorrow
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