Genesis - Foxtrot
Nel tempo della banalità che si ripete e sbianca l’oceanica, iniziale, nutrita forma di colori, non c’è posto per interessarsi a un fenomeno, generazionale e sociale, che ha reso l’acqua e l’aria fratelli siamesi, in volo dentro note nate per essere assorbite e dilatate, sotto una forma che pareva una sterile esibizione di tecnica e un passatempo per generare gioia in chi la formulava e noia in chi la ascoltava. Quelle gradazioni, ingigantite con la psichedelia e con la post-psichedelia, stavano cercando la magia per potersi evolvere, spostando il senso della loro esistenza, buttandosi a capofitto nel primo e fondamentale album dei King Crimson. Da lì tutto emerse, esplose, si dilatò per fare del progressive rock un vero e proprio genere musicale, ma, detto questo, era solo per principiare un discorso molto ampio. In realtà un tessuto enorme incominciò a creare una massa densa di contenuti, satelliti e scintille in grado di dare al tutto un inspiegabile fascino, aggregando milioni di ascoltatori a deliri acidi privi di supporti indotti da droghe. Si doveva dare spazio alla fantasia, alla cultura, a un impegno che rendesse la coscienza parte attiva di un generoso e inaspettato scambio. Il blues, la musica classica si unirono ai due aspetti stilistici accennati in precedenza e venne fuori una “progressiva” fiumana di intuizioni, esperimenti sempre fertili in grado di far vedere la musica, in un book fotografico sempre disposto ad accoppiare la mente e il cuore, in una camminata che conduceva a nuovi orizzonti. Occorreva coraggio, forza, un impegno e la convinzione che ci si inseriva già, sin dall’inizio, in un percorso astruso, verticale, una discesa libera all’inferno in attesa che il paradiso accorciasse la distanza. Cambiava l’istinto, il senso, la canzone diveniva una banalità sorpassata, da guardare senza eccitazione, in quanto quello che si stava facendo andava oltre la sfida: la massa solitamente rifiuta chi si tira fuori dalla comodità, dalla pigrizia, dal prendere uno strumento come il fedele compagno che darà visibilità e successo.
Ne apparvero anche di nuovi, come nuovi erano gli approcci mentre il suono era la scintilla che esercitava quel candore che la musica popolare aveva perso già da decenni. La musica divenne così un gioco serio in cui misurare l’intensità e non solamente le capacità. In questo panorama intenzionale si doveva strutturare il senso che prevedeva sorprese, cambi di direzione e continui flussi di energia.
L'approssimazione (notevole ciò che ha fatto il mellotron richiamando intere sezioni d’archi senza esserlo), la devozione e l’intuizione, diedero una schiena liscia su cui la letteratura trovava ganci e un paio di sci su cui scivolare perfettamente, sollecitando i testi a spalancare percezione e impegno. Favole divenute storie con la morale da andare a cercare, personaggi scomodi, buffi, ma intenti a rendere la coscienza una vittoria e non un peso.
Ogni avventura che abbia in sé chili di eccentricità e di passione, sposta equilibri offrendo al contempo dubbi e certezze, che, amalgamandosi, favoriscono modi diversi di riflettere, di fermare il proprio tempo per entrare, simultaneamente, in altri.
Eccolo, il nocciolo della questione: tutto ciò che aveva preceduto questo nuovo volto era privo di questa intensità, della elaborazione, gioiva per il successo non cogliendo la possibilità di dare alla musica una dignità che avesse propensioni e intenzioni più radicate nella concettualità e nella diversa forma spirituale.
Poi arrivarono i Genesis con questo disco, dopo un ottimo riscaldamento durato tre album con il quarto (mediante due innesti nella formazione fondamentali) gettarono le carte sul tavolo in un giorno di settembre del 1972 e tutto divenne orgia sinuosa, un febbrile appoggio che si flesse e diventò il nido per fluttuare nei nuovi confini delle stanze mentali.
La psiche entra nella mitologia, nel frullatore che crea la visione e la drammaticità del dolore per renderlo invincibile, data la volontà di trasformarlo, senza che l’opposizione possa riuscire a impedirlo, in un sorriso gioioso che si intende alla fine del percorso. Che è esattamente quello che è successo con Foxtrot, un immaginario libro educativo per menti spezzate, per realtà senza ossigeno, per la cupezza che pare avere un solo epilogo. Ma queste lunghe gittate sono la palestra di mondi che aspettano a braccia aperte per liberare tossine e affanni, codificarli, catalogarli e, sotto un soffio magico, trasformarsi in una radura dove l’armonia torni a presentarsi.
La controcultura dell’epoca si discostava molto da quella americana: in queste tracce tutto evidenzia questo scarto e non c’è nessun bisogno di fare una scelta. I Genesis posano la fierezza di un avamposto, uno dei tanti che sono necessari per quel preciso momento.
Ci si ritrova, così, ad assistere a trasformazioni, a vivere le pause, i rallentamenti, le accelerazioni, gli sviluppi di metriche ritmiche che sembrano venti contenenti ali di aquile in spostamento rapido, senza avere il respiro di una lucidità che possa far capire ciò che accade.
Sei perlustrazioni, ventagli, temporali, scie gassose, specie animali che con disinvoltura mutano, con le voci che pilotano ulteriormente lo stordimento.
Foxtrot, passo dopo passo, posa la sua gabbia toracica sopra i nostri polmoni e trasforma il respiro in un potente flusso cognitivo dove l’incanto rallegra, stordisce con il giusto limite, dando al vapore la possibilità di diventare una coperta che protegge l’ascolto. Gli scenari conducono gli occhi a vedere l’immaginazione come un festival delle opportunità, dove la divagazione è un merito e non un limite: conta raccogliere le informazioni e spogliarle delle banalità e introdurre un nuovo modo per accentrare la concentrazione. I ritornelli, ad esempio, sono quasi uno scherzo, una quasi inutilità che si usa solo quando si è dato loro un volto diverso.
Ma cosa dire della teatralità dell’insieme, che si prende notevoli rischi, stracciando per sempre la modalità storica della sua imponenza? Musica che ha un copione immenso, assoluto, che cambia scenografia, prima ancora di finire sul palco dei loro incredibili concerti per la tournée promozionale: tutto era già cerone, quinte, camminamenti di personaggi con le storie dipinte sui volti accelerati dall’orgiastica sensazione di invulnerabilità. Parole e suoni che, come cavalli di troia, matriosche bizzarre e impenetrabili, per un lungo viaggio che fa dello sconvolgimento e dell’imbarazzo le redini per rendere impotente ed entusiasta l’ascoltatore, entrano senza imbarazzi nel fascicolo creativo.
È rock senza flessioni, aggrappato come un respiro voglioso di viaggiare nella storia, per sostenere lunghe jam mai in stato di stupida divagazione ma puramente ondivaghe, e il desiderio di concettualizzare temi della storia terrestre, dove il potere, la religione e la libertà espressiva vengono pressurizzati in assoluti e vigorosi esercizi di incolonnamento. Tutto ciò per specificare ogni cosa in raggi di sole da vedere mentre le note e le parole sembrano un lungo drago incapace di ferire, bensì di mostrare la mostruosità che si avvicina all’ascoltatore per indicargli la strada dove il cartello “verità” è esposto. Musica che fluttua come una particella gassosa che non esplode mai, ma si ingrossa per mantenere il nostro fiato privo di precipitazioni.
Apocalittico (basta osservare l’ultima splendente traccia per vedere come il capitolo dell’antico testamento sia stato scandagliato con meticolosità), analitico (il destino che viene osservato, criticato, suggerito come avamposto dell’umana comprensione), acustico (diverse luccicanti espressioni sonore, in questo contesto, dimostrano come il precedente Nursery Crime non avesse questa determinante peculiarità) e attento alla produzione (qui un paritario esempio di grandezza senza sbavature), permette la percezione di una complessità che può mettere in difficoltà chi non ha una precisa educazione alla varietà. Una sfida vinta avendo in seno qualità indiscutibili e generose.
Quando si ha l’ardore di unire rock, progressive e musica sinfonica, il cammino non può che essere all’insegna del buon gusto, della sottile propensione a non preferire nulla, ma a favorire una coabitazione che sia a disposizione di chi fatica nell’accesso di una delle sue parti. La melodia nell’album è un reattore nucleare: pericoloso ma utile per scaldare i muscoli della mente e rendere coesi i filtri che hanno potuto rendere possibile tutto questo. Si diventa angeli, demoni, profeti, umili anime silenziose e sbigottiti esseri nella lunga traversata temporale che costruisce un dipinto che scioglie il timore e lo trasforma in un vanto.
La calma, l’aggressività, i cambi ritmo, le pause, i voli pindarici e le stagionature delle progressioni degli accordi sono un continuo saliscendi che crea stupore e alla fine una fedeltà indiscutibile. Esistono gli assoli per ogni strumento (potenti, maestosi ed evidenti), ma mai giocatori dell’effervescenza sprecata: l’ordine impartito è quello di valorizzare, specificare e far diventare questo insieme adiacente al senso. Il fare barocco della chitarra di Steve Hackett in Horizons è emblematico. Quello di Tony Banks in Supper’s Ready è una nuvola grassa che sposta l’equilibrio del cielo. Michael Rutherford in tutto l’album pare un gendarme che controlla e impartisce ordini con fierezza e precisione, facendo da collante perfetto per i generi espressi. Phil Collins fa crescere l’impatto del ritmo con la fantasia, senza rinunciare alla forza, con un lavoro che si compatta perfettamente con le composizioni. Peter Gabriel, in una forma strepitosa, specifica il termine genialità tra interpretazioni vocali, canti, testi che come vagabondi raccolgono un insieme infinito e l’uso di quattro dispositivi suonati con grazia e un timing perfetto.
Nella danza più che centenaria del Foxtrot, con lunghe gittate e possibilità di elevare i suoi concetti dinamici, troviamo un passaggio di consegne con questo quadro sonoro dei Genesis, e nello specifico le parti strumentali, pur impegnando per estensione e forza d’impatto, non fanno mai attendere la parte vocale: una ulteriore e voluttuosa qualità che fa intendere come l’unione delle due entità sia stato studiato e specificato. Non sono presenti gelosie né prevaricazioni, ma un lungo perimetro nel cui interno ciò che vive è pieno di vino dai sapori molteplici.
Un lavoro che consente di veder conquistare nuove terre mentali e fisiche, con l’abilità di modificare, laddove l’egoismo e il senso di libertà lo esigono, per inoltrare, con il furore artistico, la necessità di non dare all’accettazione della storia umana il suo ghigno malefico (un esempio lampante è la nuova Gerusalemme che troviamo in As Sure as Eggs Is Eggs, ultima parte di Supper’s Ready), finendo per donare a chi ascolta un imprevisto scettro, un telecomando dei sensi che fa brillare la pelle dell’anima.
L’ispirazione, che gioca un ruolo dominante, è molteplice, in grado di essere un faro, un’onda che trasporta, che permette l’intuizione come un lavoro analitico per darle modo di non vivere in isolamento. Ecco che l’attualità, la storia, l’attenzione all’aspetto sociale del vivere, lo spazio da consegnare ai sogni, sono alleati precisi, uniti e in ottima armonia per fare di questo vento una carezza inattesa.
La grande fluidità è uno stupore impressionante, poco gestibile: sembra un riassunto di ciò che ha sempre vissuto nelle potenzialità dei musicisti. I Genesis sanno attualizzarla e con grandi manovre fanno dell’ascolto un atto di beneficio e gratitudine senza fine, perché nella marea dolce di queste onde imponenti tale elemento sarebbe l’ultimo da desiderare. Panta rei, dunque, per consentire per davvero l’accesso alla trasformazione, per identità in progressione, dove al tempo è concesso solo di essere testimone di questa grande capacità.
Nel ben di Dio a disposizione non manca di certo l’oscurità, l'inafferrabile e l’incomprensibile, la fantascienza (epocale la magnetica Get ‘Em Out By Friday), la grande “inglesità” lirica di Peter Gabriel, assoluto portabandiera sia della modalità conservatrice che di quella progressista, finendo per essere un incredibile maestro che sa come unire differenze e striduli feroci.
La musica è come il cantato di Gabriel: in grado di essere sussurri eleganti ed educati, così come lacerazioni rispettose che diventano amiche dei tuoni senza dover mai gridare e sfidare il suono, in un quasi perverso stato comatoso dove molto è consentito, e quello che non si può fare non diviene una mancanza. Questa è un’altra strepitosa qualità di Foxtrot.
Watcher of the Skies, brano nato a Napoli e che vede il sussurro ispirativo di Arthur C. Clarke, stabilisce il suono dei Genesis, il furore domato ma ancora in grado di sbuffare e di far intuire una sacralità prorompente attraverso l’utilizzo del Mellotron. Poi tutto si allarga, si sviluppa e si trasforma in una corsa lucida nella follia.
Time Table presenta il passaggio del tempo, inevitabile, con un inizio classico (quanta presenza dei Procol Harum si avverte, ma non è mica un difetto…), conferito da un tintinnio di tasti del pianoforte per poi ospitare una simil ballad fluorescente.
Get ‘Em Out By Friday evidenzia l’elegante esuberanza, assoli e cambi ritmici che consentono a tutta la band di essere pittori e di creare una tela programmata all’accoglienza. Una suite minimalistica, una mano offerta ai senza tetto e un vigoroso schiaffo al potere.
Can-Utility and the Coastliners offre l’espressività acustica e la progressione degli ingressi strumentali che dal barocco e con dei sentori medioevali si getta nella contemporaneità in modo delicato.
Si gira il vinile e il lato B inizia con Horizons, il manifesto classico di una rivisitazione di Bach, quella struggente parentesi armonica che si intitola Suite per violoncello solo BWV 1007, performata da Steve Hachett, per dare alla poesia immaginaria una goccia di sale negli occhi.
L’ultima composizione fece entrare la band nella leggenda senza possibilità di smentita: Supper’s Ready è un miracolo, un mantra multiplo, diviso in sezioni, che non stanca mai, un generatore continuo di luci e ombre, di spazi occupati con maestria, mettendo a contatto misticismo e religione, in sette atti amalgamati e fissati con la colla dell’eternità. Tutto all’insegna di una evidente intimità, di uno studio che permetta alla suggestioni e alla fantasia di espandere la scrittura per determinarla in un caos controllato dove quello che lo specifica sia un infinito da non possedere mai, proprio per la sua vistosa capacità di fuga.
Più ci si distanzia, temporalmente parlando, dal momento in cui questo leggendario, folle, maestoso capolavoro è stato composto, maggiormente ci si rende conto della responsabilità che abbiamo nel non trascurarlo, del dovere di studiarlo ancora e di essere lucidi testimoni di come la musica abbia perso questa epicità, questa estensione magnetica, questo delirio che si può solo celebrare e incensare, in dosi abbondanti. Il rischio è il vuoto e lo smarrimento, ma rimane l’ascolto, in grado di esercitare la memoria e il beneficio.
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