The Sound - All Fall Down
“Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l'azione. Ciò si chiama diventare un uomo.” — Albert Camus, libro Il mito di Sisifo
Il tempo è un confine spesso pieno di miseria, di esagerazioni, di insoluti che schiacciano la ragione e quindi la regione del nostro io, quello votato all’intuizione e alla capacità di essere chiarezza in divenire. Si giunge alle scelte, si spostano i limiti, si sotterra la fiducia e ci si concede allo schianto: Adrian Borland conosce tutto questo e si precipita nei pressi del dolore ormai triturato e lo seduce, lo porta all’interno di un complesso circo di note e parole, come naufragio del sospiro, del respiro, di un volo dentro l’acqua del suo fremito.
Il risultato è una serie di pillole ingerite, una cura per una tossicità insostenibile: la sua purezza d’animo. Che va distrutta, annientata, condotta per mano verso il baratro. Musica allora, di quella con gli specchi in ogni settore dell’anima, viatico maldestro per una sincerità non addomesticabile, che non corre di certo il rischio di essere contagiosa. Arriva l'arcobaleno della lucidità, con colori onesti, senza olio, senza macchia, gravidi di lucenti verità in fila, come un mantello che vola nell’aria meglio di un tappeto, come terribile scelta di una intelligenza non programmata, trovata, e non per caso, all’interno di un percorso artistico che aveva avuto due palazzi costruiti nello scenario musicale di un momento storico impreparato alla qualità della sua sonda, termometro incivile per molti, che invece portava alla luce il petrolio della vergogna. Non potendo fuggire da se stesso aveva posto fiducia nella altrui accoglienza: un fallimento totale, di cui la sua colpa non è ancora oggi certa…
Con il terzo album inizia la sua depressione. È da questo episodio che divenne chiaro quanto le cose, così come stavano, fossero per lui insostenibili. Questo lavoro partì da una parolaccia, verbalizzata all’interno della loro sala prove: FUCK OFF!
Rabbia e frustrazione, impotenza e remissione, dolore e convinzione che fosse iniziata la fine della loro fase sognante, della loro giovinezza.
Era stato individuato il nemico, ciò che non era funzionale alla loro vitalità, innegabile, e nacquero canzoni come rivalsa, vendetta, dimostrazione, un amor proprio con gli occhi segnati da rughe, lacrime copiose e odiose, da lasciar affondare dentro liquidi sonori.
La caduta, già presente sin dal titolo, è in realtà il punto di partenza per una ironia necessaria, dovuta, istruita per ammaestrare le anime: tutte le pillole qui presenti (ben dieci, al limite di una vera e propria dipendenza) sono frutto del laboratorio mentale di Adrian, connesso con l’esercizio di chi affronta il suo nemico più grande, che ancora non è il suo io martoriato, quello che accadrà più avanti, quando le tenebre spegneranno i suoi dolcissimi occhi, perché la sua esistenza non sarà più in grado di vedere la maestosità e l'intensità delle gradazioni dei colori. Ascolti questo lavoro ed entri in una sala di attesa, infinita e lenta, dove le voci non necessitano di esasperazioni urlanti, bensì di un faro che renda sorda la rabbia più cruda, nella quale specialmente il Post-Punk aveva deciso di prendere residenza. Ti ritrovi, così, e non per caso, a dare in affitto il tuo tempo all’ascolto di tracce che seminano sospetto, sfiducia, abbandono e nelle quali ciò che si evidenzia maggiormente è il culto di appartarsi, da soli, nella mappa della fatica quotidiana, una tendina sempre più faticosamente tenuta aperta.
Sono in quattro a produrre, a suonare, a essere membri attivi di un bidone pieno di melma lanciato verso la prepotenza del mercato, di una casa discografica, della stampa, di un Premier avvezzo alla guerra, di una distanza sociale che offre luccichii ma non luci. Un disco di opposizione, dove la chiave di lettura sta nella continuità di una musica come musa della riflessione, delle verità che fuoriescono e prendono aria sul balcone. Sperimentazione, jam sessions, analisi di piccole parti da dover incastrare in un suono votato alla cupezza, a un umore impaurito e che cerca disperatamente il congedo dall’ipotesi del successo perché, ed è evidente, questo album è una bandiera bianca nel nero della volgarità, sventolata con poche forze. Intenso, nudo, crudo, suda e fa sudare i pensieri, portandoli alla deriva di una consequenziale scelta: “con noi o senza di noi, ci ami o lasciaci stare da soli”.
Pesante (chili di glicerina e catrame al suo interno), seducente (grammi sottili di dolcezza lo rendono unico), magnetico (la calamita delle composizioni può condurci al delirio), fa di tutti questi elementi il punto più alto della loro carriera: come è bello tuffarsi nel vuoto con dieci splendide creature e perdere una parte di se stessi.
Il vecchio scriba vi invita a cercare cosa usciva a livello discografico in quei mesi, a pensare a come tutto si fosse allineato verso il concedersi al nulla, il negarsi per poter arrivare al successo. Dimenticata la dignità, tutto accadeva, per la gioia degli stolti. Adrian e soci non si perdevano in queste sciocchezze, perché concentrati a cercare la sanezza della verità, a distinguerla e offrirla. È un dato di fatto che questo All Fall Down sia una bugia, uno schifo totale, un atto vergognoso, una profonda ingiustizia per chi non poteva fare spazio dentro di sé, non obliterando la quotidianità con spruzzi di impavida follia, nel bagno turco delle volgarità, espulse senza ritegno. Quì tutto ferisce, sporca, per la costruzione meccanica dei ritmi, la melodia spolpata, arricchita con sospensioni continue, con i lumi di una ciminiera che lavora senza sosta. Non sono mai stati così attenti alle cellule i The Sound: te ne accorgi dalla forma canzone che per la prima volta viene disturbata da inserti, da arrangiamenti e tentativi di mettere a disagio se stessa per prima, un laboratorio con l’obiettivo di farne l’autopsia mentre nasce…
Si noti come il lato Pop sia volutamente volgare e perennemente bersagliato da pressioni estetiche e morali, con il Post-Punk a fare da inatteso maestro, calmo, riflessivo, per educare il brano a essere “meno semplice”. La formula della composizione si fa volutamente ampia, non è il genere ma il messaggio a essere messo al centro della sala prova, e non quello della scrittura, che mai come in questo disco vive di necessità che coinvolgono l’ascoltatore verso quella devastante situazione che è il prendere coscienza della verità, dove nulla è a contatto con la realtà. Canzoni spugne, lente, alcune invece capaci di trascinarci dentro il sistema collaudato della danza, nella quale le parole disturbano la gioia del movimento, nella quale la serenità non viene chiamata all’appello, per poterci trovare nello spazio di continui stop and go, fisici ma soprattutto mentali. Echi di Ultravox attraverso la spina dorsale di diversi episodi dell’album, mentre tutti cercano e trovano (sarà un caso? Non credo) collegamenti ai Joy Division, perché ci si ferma sempre davanti a ciò che è più vicino, che costa meno fatica. Ma i The Sound giocano in casa, guardano a John Foxx e alla sua magnifica band, e commettono l’imperdonabile errore di voler dare alle creazioni la possibilità di fuggire dalla complicità che offre la banalità. Tutto ciò è motivo di ricchezze non quantificabili, tantomeno intuibili, in quanto la genialità, se lavora a braccetto di una progettualità che vuole stordire l’infame potere del mercato, può solo far planare nel territorio di una ricchezza individuale, senza certezza di corruzione. Questo fa l’album: separa il vizio, e la conseguente perdita di equilibrio, dalla magnificenza di un pensiero sganciato e quindi libero, dove però non sono evidenti felicità da rappresentare.
L’unico a essere conscio che si era dentro il circuito della resa fu proprio Adrian, in quello che si può sicuramente definire il suo primo album solista. L’atmosfera dei luoghi è in continuo contatto con la luce di un’alba malinconica, presso la quale ogni esplosione di colori diventa sofferenza e motivo di disturbo. Qui si chiude il sogno, si spegne la voglia di creare musica come atto di gioia e di conquista, la si porta invece nel salone dell’anima dove ciò che nasce è già motivo di dolore, per una genialità che lavora su come anestetizzare tutto questo. Proprio per questo motivo il vecchio scriba non esita a definire l’insieme delle canzoni come il più nutriente per chi vuole abbandonare la mediocrità della velocità, dell’egoismo che non contempla il sudore sulla fronte della propria anima. All Fall Down era una missione per Adrian: dare in pasto ai leoni l’inganno, per farglielo masticare, e così avvenne, per una atroce felicità che rese i The Sound la band più coraggiosa degli anni Ottanta. Cosa c’entra poi questa con l’esistenza lo spiegano benissimo le dieci tracce presenti: state lontano dai pruriti e nutritevi del volo, quello cosciente, che vi porterà a fare di questa esperienza la necessità autentica di avere bisogno non di amici, ma di sani pugni in faccia perché dove vive un livido spesso si trova il miglior alleato che poi ti accarezza il cuore…
Ci sono giochi sonori di cui molti perderebbero tempo a cercare la radice. Ma che diavolo: riusciamo a renderci conto che quello che qui ti porta a sorridere in fondo è un urlo, gentile, che rimane tale? Non è Post-Punk, non è Darkwave, non è nulla che possa cadere nelle fauci di un avvoltoio sapiente della provocazione: ciò che ascoltate è l’avanguardia di un futuro che di lì a poco sarebbe accaduto, e Adrian lo aveva previsto e messo agli atti, in tempi non sospettabili…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Aprile 2023
https://open.spotify.com/album/3NoUegvQ2S8fUtLK6bPbUl?si=zgoGykb6R8-Wix_Yny2a7g
La tua recensione mi ha incuriosito, andrò a sentirli
RispondiEliminaGrazie :-) Chi sei?🤔💙
Elimina