Phomea - Me and my army
Come è bello avere modo di accedere alla profondità di un’anima dotata di classe e stile.
Stiamo perdendo la vista, non ho dubbi, guardiamo nei luoghi e nelle cose sbagliate e, purtroppo, lo facciamo anche per la musica.
Non dobbiamo però disperare o cedere ascoltando brutta musica (sì, esiste), perché un nuovo album è pronto per essere accolto.
Quello riguardo il quale voglio scrivere è un lavoro profondo, onesto, con gemme che vanno approcciate con garbo e riconoscenza: Phomea ha dato alla luce canzoni illuminanti, calde, di sana e robusta costituzione, dove la dolcezza e modi gentili si affacciano per lubrificare la nostra sete di calore. Ed è un mondo che proviene dal folk, dall’alternative, da una spiccata sequenza di melodie che si conficcano nella testa e, grazie a una voce che accarezza l’ascolto, con una sensibilità che coinvolge e sorprende.
La scelta della lingua del cantato è perfetta: l’inglese si adagia con armonia e genera un’attrazione molto piacevole e profonda.
Spero (sarebbe un segnale di grande intelligenza e di una lezione veramente appresa a fondo) che questo lavoro non risulti come una somma di riferimenti, di artisti e canzoni, miscelati tutti insieme perché la sensibilità e la raffinatezza presenti marcano un’unicità che merita riconoscimento e sostegno. Come un amo che pesca dall’acqua musicale più pura, c’è un approccio successivo di purificazione e valutazione nel quale l’aspetto primario è l’inserimento di uno stile creato e sviluppato all’insegna di una variabilità che si sganci da quei semi che quell’acqua sa lasciare.
Il Pistoiese Fabio Pocci è una carezza sulla mente, con la maturità di eccellere grazie alla sua scrittura epidermica, sottile, in grado di far germogliare le radici di un approccio anni ’90 verso questa attualità, finendo per risultare un angelo con il respiro protettivo nei confronti delle nostre anime.
C’è odore di una forte progettualità: un'acuta osservazione dell’umanità vista da un satellite immaginario nel quale provare a scindere il reale dalla sua proiezione, un libro scrivente sui movimenti di una realtà che non arresta la sua volontà di essere sfuggente e di assentarsi per curarsi su un piano finto, vuoto, virtuale. Arriva lo stratagemma, immagini e algoritmi connessi per condurre lo sguardo alla verità. Per fare questo Phoema sposa la duttilità di generi musicali che siano cerchi di grano, passeggiate solitarie con il taccuino in mano. Non fotografo del reale, ma scrittore di immagini che consentano all’autenticità di rimanere salva, di non emettere giudizi negativi. Ci si sposta nella musica folk (figlia del sistema cantastorie), per immergerla in una elettronica ragionata, che compare a spruzzi perfettamente razionalizzati, in quell’alternative rock che lascia la pelle dei pensieri sempre morbida. Conquista l’assenza di distorsioni, di rumori inutili, per semplificare il tutto. Non vi sono tragedie da raccontare, bensì l’impressione che l’artista toscano sappia trovare bellezza nel disastro comportamentale.
Un disco ematico: porta proprio, e molto bene, il sangue al cervello per poter ragionare meglio, mettendolo in condizione di soffiare via la solitudine, dicendole di spostarsi, di assentarsi, di rimanere fuori dai nostri già numerosi sfaceli. Tutto ciò rivela quanto Me And My Army sia salutare, solare e profondo: finalmente si torna a fare cultura attraverso la musica e anche solo per questo motivo merita un supporto caloroso e un abbraccio fraterno. I brani sono capitani dell’intelligenza con un cappello saldo sul capo, senza esitazioni, per pilotare il viaggio cosciente con grande maestria e attenzioni. I ritmi presenti sviluppano, nell’ascolto, un’onda leggera, dove il coinvolgimento è più mentale che fisico, conferendole unicità, con il bisogno di linee melodiche che accolgono quelle incursioni vibranti fatte di chitarre sagge, con il basso che visita generi musicali senza vincoli e dove la batteria è un termometro degli istinti umani. Disco che più che sommare canzoni è una corsa di violino che si allunga trovando la nota corretta per un’analisi che si precisa perfettamente. Accenni psichedelici connettono l’elasticità musicale alla perfezione. Esiste la perfezione? Sì: nell’abilità di scrivere la verità di un disastro umano senza urlare, dove non c’è la poesia ma una sensibilità forse addirittura superiore.
Un album come compagno di identità, come professore, come studente, nel quale non è la confidenza che ci può legare ma la convinzione che nella solitudine esista una possibilità di crescita infinita…
Song by Song
1 Take Control
La prima immagine è una scintilla di consapevolezza che parte dolcemente: la voce e la chitarra compagne di cielo e poi un crescendo minimalista per un brano che libera i respiri, avendo lasciato la gabbia del controllo.
2 Me and My Army
Ed è stupore perché le rive che si intravedono sono gemme malinconiche, tra chitarra semiacustica e il pianoforte a iniziare lo scatto di un nuovo luogo, soprattutto mentale. La voce sale delicatamente su un registro che ammanta e ci porta la colpa negli occhi, in passaggio…
3 Unplease Me
I limiti umani sbocciano dentro la chitarra gothic-folk, con rimandi che affascinano, ma poi la tendenza è quella di rendere la canzone la pace di un respiro elettrico che la definisce, con le sue pause, mentre la batteria è intraprendente, il risultato ci offre un ritornello pieno di acqua al bordo degli occhi.
4 Lover
Si esce fuori, a bruciare il mondo, e lo si fa con un richiamo a Nick Drake, ed è un gran bel modo per partire. Ci si ritrova nel ritmo che abbandona la morbidezza e scivola via felice prendendoci con sé. Un bell’assolo, nel confine di una melodia seduttiva, ci convince: andiamo pure noi a sorridere al fuoco, facendo attenzione alla ferita che probabilmente è in arrivo.
5 Ruins of Gold
La solitudine appartiene a tutti e questo brano ce ne mostra il lato che ci interroga, dal testo a una musica capace di abbracciare il folk e l’elettronica in modo delizioso. La voce tremante, tra echi e chitarre che sembrano mandolini con la febbre, riesce a essere il centro di controllo del nostro percepire. Si viaggia negli anni ’90 che, sentendosi emarginati, chiedono a Phomea un abbraccio.
6 J.B.
Arriva un interludio musicale, con uno spoken word che ci tempesta di domande, dentro oscillazioni cacofoniche che paiono il lamento di un’anima tesa.
7 What About Us
Si entra nella natura, nei frutti della terra, nella forzata coesistenza, e il canto si fa mistero, sussurri invadono le note ed è un calore naturale, che attraversa le maschere, i comportamenti che si fanno dubbiosi. E un tappeto elettronico concede spazio a schitarrate gonfie di veleno.
8 Run
Echi Nordici (Saybia, la fantastica band Danese su tutti) assorbono il pathos di un brano che sa grattare la polvere e per farlo passa da una lentezza accennata a una forma alternative rock vogliosa di offrire grandi spazi visivi. Ed è un gioco di melodie che pare provenire dagli anni ’70, sino a elevare il bisogno di dimenticare e correre via…
9 The Swarm
Pizzicare la pelle di una gabbia e farla accoppiare con una chitarra dallo sguardo malinconico, attendere la voce e un cantato che fa sedere e addormentare la stanchezza. Un brano che sale nel cielo dei nostri sogni malgrado le parole abbiano quintali di piombo addosso, ma è proprio qui che si capisce il valore di un miracolo. A completare il tutto ci pensa il senso estetico sonoro di un grandioso Flavio Ferri, che appiccica alla canzone il senso di infinito.
10 Perfect Stone
Phomea fotografa il tempo e le sue creature, con la voce che cerca di mettere le impronte in una vocalità baritonale. Ma poi fugge piacevolmente da sé e la porta dolcemente in un libero volo, tra romanticismo e dolore. La melodia cresce, si svincola, spinge verso un alternative dalla veste dorata, con una attenzione meticolosa nel non far cadere la tensione emotiva.
11 Dark
Una cena con Joseph Arthur non si rifiuta, come con Tom McRae: si dia voce all’intimità, tra giochi di libellule in volo dentro parole sottili come respiri. Phomea rivela le stigmate del fuoriclasse che si beve il buio per completare la sua identità. La chitarra sembra picchiare l’insicurezza sino a consentire agli archi e all’organo di saldare il sogno e l’eternità. Struggente dimostrazione di classe fertile.
12 Look At You
Neil Young si affaccia, con Tim Buckley e Michael Stipe a suggerire immagini da sistemare ai bordi dell’acqua. La voce come rabdomante: deve trovarla per lavare gli sguardi e la trova con una canzone che chiude il cerchio, dove la chitarra è un carillon della luce che si fa preda in fase di cedimento. Il pizzichio delle corde è già calore, poi gli accordi fanno il resto, e la voce è il francobollo che ci fa partire per una nuova cella senza catene…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
21 Novembre 2022
https://phomea.bandcamp.com/album/me-and-my-army
https://open.spotify.com/album/0x4t3nPGOzND6GMom1RmPr?si=qmTMOFjwRRi1pdt2jMtwWA
Un lavoro stupendo, ho passato l'intero sabato scorso ad ascoltarlo... Milena
RispondiEliminaCiao Milena! La penso esattamente come te 🤗
Elimina