La mia Recensione:
Wall of Voodoo - Dark Continent
Umori, rumori, odori, traversate infinite, stelle planate sul pianeta terra, radici di fiati elettronici, perversioni con la maschera, follie elettrificate e suggestionate, il western con la pistola sulla tastiera, frenetica e ansimante, tiepidi scenari pericolosi, oscurità e pericolosità.
Potremmo partire da qui per capire il contenuto di un album assolutamente seminale, cucina di ingredienti conosciuti e sconosciuti servita nel piatto ricco dell’arte con la a maiuscola.
Non una band, non un insieme di canzoni, ma la vitamina della follia sintetizzata e lanciata a razzo verso le nostre menti abbagliate. Tutto ciò che di sperimentale, dal fare elettronico miscelato a diversi generi musicali, era stato creato nel corso di almeno due decenni, qui trova una evoluzione, un miglioramento, uno spargimento di classe e spunti assolutamente nuovi che non si possono mettere in discussione.
Apoteosi senza dubbi: stargli accanto anche oggi, dopo 41 anni e migliaia di ascolti, non ci toglie la convinzione di un disco che ancora insegna e stupisce, semina suggestioni e riflessioni che non può che condurre alla definitiva affermazione che fu, è e sempre sarà un capolavoro.
Con un fare stilizzato, visionario, cinematografico, ipnotico, ossessivo e capace di gravitare con agilità nel post-punk come nell’elettronica (sempre di matrice Americana), le trame e le invocazioni sonore sono impulsi, beats, deflagrazioni ritmiche e sensoriali verso la scarnificazione e la proiezione futurista proveniente da un passato che incominciava a essere stantio. Ci hanno pensato loro: Stan Ridgway, Joe Nanini, Bruce Moreland, Chas Gray, Marc Moreland.
La band di Los Angeles ha seminato, sviluppato e parzialmente raccolto: la grandezza e l’importanza non ha avuto la cassa di risonanza che meritava ma ha saputo essere rilevante e determinante, entrando di diritto nell’Olimpo della musica.
Vi parlo di questo esercizio di stile e di acrobatiche circumnavigazioni sonore che hanno reso Dark Continent il padre di un atteggiamento diverso nei processi creativi e nelle loro forme, il fiume che divide la terra e che nutre il cielo. Trentacinque minuti di fecondazioni artificiali, di bacchette magiche travestite da transistor ed effetti moderni che non cancellano di certo il passato. Anni dopo si coniarono i termini Crossover e Miscelanze, ma molto prima tutto questo era già stato progettato e creato e i WOV sono sicuramente da annoverare tra questi. Un disco pionieristico, spavaldo, assurdo e a suo modo esasperante: il coraggio del menefreghismo che si connette al delirio ragionato. Lo studio Acme Soundtracks è stato il papà di questo terremoto razionale, la base da cui partire e che ha messo nella valigia di Stan pillole magnetiche ad espansione termica ed emotiva. Lentamente, dopo quattro anni, lui e gli altri messaggeri di Luna e Sole hanno procreato una vita che non muore, peculiarità che tocca solo alle Divinità.
Le canzoni hanno testi complessi, con la faccia dentro i vistosi pericoli naturali, l’avanzata delle problematiche connesse alle tensioni dei processi industriali. In tutto questo vi è spazio anche per una nutrita quota di interesse verso le relazioni, sociali più che sentimentali, in bilico tra coraggio e battagliere presenze nello sconvolgere equilibri sicuri, come forma di contrasto verso una società moderna che incominciava a costruire il senso di velocità e di scarto nei confronti del passato.
Molte cose risultano essere incredibili in questo viaggio immaginifico: prendi la parte del drumming. Credi che sia spesso una drum machine quella che ascolti e poi scopri che esiste un batterista vero a rendere spettrale e robotica quella parte essenziale e che trasforma il tutto in un prodotto creato in laboratorio quando invece esiste sudore umano che scende sopra le pelli di una batteria spettacolare.
E allora quelli che sembravano dei pad di synth e di pattern restituiscono qualcosa di antico e legato alla nostra natura. La postura post-punk della chitarra, spesso tremolante e che assomiglia alla corsa di un centometrista si trova a lavorare con sintetizzatori che sembrano uscire dai tardi anni 50 in miracolosi complotti del Tempo. Prendiamo il basso: meteora grigia che appare a scatti, senza continuità, spesso assente, quando mostra la sua granitica presenza che pare aver studiato la semplicità fiabesca di Peter Hook dell’altra seminale band chiamata Joy Division. Non mancano le vicinanze metodiche con gli spaventosi cigni diabolici dei Suicide: i WOV sembrano i figli devoti che scrivono scintille ipnotiche su fogli di plastica che potrebbero essere stati progettati dal duo di New York. Se si pone attenzione alla parte dei testi, allora dobbiamo aggiungere a ciò che ho scritto prima il quantitativo di paranoia post-industriale che riempie di profumo sintetico parole che paiono essere più soffocanti e oscure di molte band gotiche del tempo. Stan ribalta convinzioni centenarie scrivendo scenari apocalittici con il timbro di una colata di ghiaccio. Tutto sembra un tappeto senza sbalzi sulla sua anima: lineare, ipnotico, il suono di questo palazzo mentale, che diventa fisico, mostra una continuità eccellente rendendo difficile determinare momenti a cui dare la preferenza. La loro vicinanza ai Devo può essere compresa nella visione cinematografica che i ragazzi di Los Angeles sembrano voler esprimere molto più di altre, però è un accostamento che dura meno di quello che si pensa: perché se la band di Akron era più interessata a scenari provenienti da pellicole di fantascienza, nel lavoro di esordio di Ridgway e compagnia bella quasi tutto pare derivare dalla polvere di scontri nel Far West con le sue illusioni dentro la nuvola grigia di un Western pieno di pallottole elettroniche per saldare un matrimonio temporale inimmaginabile.
Come un lungo weekend di Halloween che sembra ipnotizzare il futuro e restringerlo in soli due giorni di baldorie folli, di scherzi e quant’altro, ecco che il tutto suona come una giostra di lustrini elettronici in un campionario visivo di montagne russe senza volontà di fermare la paura di vene gelide e ipnotiche.
Un album essenziale, come frutto di un lavoro scientifico che, uscito da laboratori in località segrete, viene pubblicato da giornali specializzati: i WOV hanno aperto una nuova era espressiva, lanciato avvertimenti senza l’eccessiva carica emotiva del post-punk per diradare il tutto e compattare nuove soluzioni dentro un artificio artistico non così lontano dalla realtà. È la libertà espressiva del quintetto che produce materiale non prevedibile dentro il circuito dei primi anni 80 così bisognosi di energie nuove e ammalianti: si è dovuto andare nella città dove la finzione prende il sopravvento per bilanciare nuovamente le nostre convinzioni per questo insieme di undici scosse marine dentro i labirinti di scie di graffi di carta vetro liquida.
Un’apoteosi di deliri trattenuti, con la cravatta e le scarpe lucide, ma pilotati da anime nere insospettabili.
L’importanza e la bellezza di ciò che è unico diventa un’onda selvaggia che non può essere ripetuta perché la corrente dell’oceano dei WOV è destinata alla propria solitudine, mentre generazioni di artisti cercheranno di rubare ogni molecola della loro classe non riuscendo mai nell’intento: è anche così che si comprende come ciò che è selvaggiamente senza possibilità di repliche sia confinato nella solitudine.
Dark Continent è la porta di quel laboratorio che chiude e divide ciò che è perfetto dalla dannata natura umana, un lavoro semplicemente pazzesco e rigenerativo, la massa violenta di una cascata che oltre a lavarci e a purificarci ci porterà in luoghi fisici e mentali sconosciuti.
Ed è proprio lì che l’arte della perfezione rivela se stessa: è da questi solchi che possiamo imparare a mettere i camici sulla nostra pelle per entrare nelle loro stanze segrete come alunni rimbambiti senza possibilità di rubare caramelle a questi maestri eterni. Se la bellezza ha un prezzo, con poco denaro ci portiamo dentro un oceano infinito di brillanti atomici…
Song by Song
1 Red Light
Puntura horror con venatura synth Punk primordiale per l’esordio: la voce da scatola di Serenase si ritrova nella palude di semigioiose chitarre proto-punk e synth vorticosi.
2 Two Minutes Til Lunch
Il basso baldanzoso su una vaporiera diretta verso il saloon crea un’atmosfera tenebrosa, sino a quando la chitarra graffia il ritmo e il cantato di Stan si fa tremolante per un brano uscito dalla fabbrica degli Ultravox.
3 Animal Day
Prendi i Suicide imbevuti di whiskey, fai vedere loro gli indiani dei film di John Ford e chiudili in una fabbrica: sarà puro caos, con i Devo ad applaudire mentre fanno l’occhiolino.
4 Full Of Tension
The Fall, Cabaret Voltaire, Ultravox e Tuxedomoon: nel pentolone dell’arte che vince su qualsiasi forma di vita, ecco il brano che lancia la band verso la goduria senza attriti. Breve, pirotecnica e schizoide, è un manifesto di ritmica e nevrosi nella valle dalle colline brulle.
5 Me And My Dad
Gary Numan va a cena dai Devo più lenti: sarà un ballo cupo, synth lunghi con propensione ad un volo esitante e chiari inserti di Suicide in apnea.
6 Back In Flesh
Il post-punk con la febbre e la chitarra quasi uscita da zone balcaniche invoca una sirena d’allarme su cui il synth balbetta fraseggi provenienti dalle sperimentazioni tedesche. Maestosa, è la manifesta capacità di fare del pressing a tutto campo.
7 Tse Tse Fly
Il lungo loop che, come una frusta, delinea le zone del proprio comando sensoriale, diventa il palcoscenico di una compagnia di teatro dentro grotte di sale. Ruvida, pesante, con il basso che salda la chitarra nervosa al fiume sintetico, conduce all’estasi con il cantato di ordinanza di Stan.
8 Call Box - 1-2-3
Il carillon dentro una giostra piena di luci e ritmi ossessivi concedono inserti industrial schizzati per velocità e materie prime. Delirante, diventa un gioco di riferimenti su cui sono state messe coperte di vetro e carton gesso.
9 This Way Out
Gli Einsturzende Neubauten di Halber Mensch suggeriscono l’apertura del brano ma poi si rientra nella ormai classica cavalcata dei WOV, per una ulteriore esibizione di pietre lanciate da fionde elettroniche con il basso uscito dai quartieri di Macclesfield e Salford.
10 Good Times
Un valzer del terzo millennio diventa una marcia piena di lividi, con spazi di giocosità non calcolata che concede alla band giochi armonici malati perché contaminati dalle scie di fumi usciti da fabbriche di armi. Straordinaria.
11 - Crack the Bell
L’album ci saluta con spruzzi di Cabaret Voltaire e dei primi The Human League mentre rovistano tra ticchettii di una tastiera in vistosa esibizione. Il ritornello quasi pop dentro il caotico canto di Stan definisce, conclama il capolavoro di questo gioiello salito a bordo di un treno nucleare.
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Luglio 2022
https://open.spotify.com/album/0d3TWCJ5Pk8OYONvB5bWZc?si=5ZTOebT3Rq-Vm-op_x4Yqw
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.