La mia Recensione:
Franco Battiato - Come Un Cammello In Una Grondaia
1991
Questa volta a volare nella pancia sono dei grilli e non delle farfalle. Ci sono salti necessari da fare all’interno dei labirinti dei nostri pensieri, quelli che abitano al centro del nostro corpo per quelle attitudini antiche che in qualche modo chiedono il ritorno dei nostri approcci sempre più stanchi.
Tutto ciò che è ingresso costa fatica, frutto di una necessità che è stata specificata, spostamenti, accoglienze sempre più notevoli che mutano con il passare del tempo. Esiste una grammatica e una ricostruzione, che è resa possibile da manifeste capacità di distanziarsi da ciò che è caduto in basso, nella zona mista tra la vergogna e lo schifo. In tutto questo, che pare essere un delirio senza senso, trova ragion d’essere un insieme di eleganti e voluminose bacchette magiche dal sapore amaro, che solitamente chiamiamo canzoni.
Sono scariche elettriche romantiche, perlustrazioni multiple di un divenire sempre più sconnesso dalla qualità di un’esistenza possibile, in cui il maestro, il mago delle connessioni Franco Battiato, ancora una volta trova modo di presentarcele pur sapendo che mancherà un’effettiva capacità di comprensione. Il nostro ascolto diventa il luogo di questi grilli affamati, vestiti di domande con le mani sudate, nei confronti delle quali Franco consegna la sua sapienza e il suo sguardo che non è incantato, ma sospettoso e pesante per renderle impossibilitate a ricevere risposte.
Battiato compie un miracolo di intelligenza non richiesta dalla massa e perciò pericoloso e sempre prossimo allo scarto: riesce a fare della nostra mente un cammello che troverà sempre disagi per limitarne i movimenti e le propensioni.
Per questo suo giardino dai frutti succulenti e dolcissimi, scrive otto pellicole sulle quali riesce ad imprimere la sua saggezza e al contempo la distanza da questo continuo gravitare verso la nullità. Non gli rimaneva quindi che un lungo elenco di scintille buie nelle quali nessuno di noi poteva veramente trovare una luce, se non percorrendo il suo stesso sentiero luminoso fatto di spiritualità e ricerca della verità. Ma all’ignoranza non è possibile accostare la luce. La volgarità è quella che crea l’ombra e che seduce la gentilezza per affossarla, come se delle sinfonie perdessero l’abilità di essere sacre e si trovassero nel Mediterraneo della confusione.
Franco raggiunge il vertice del suo pensiero in questo album, un rabdomante pieno di risorse che mostra dove non si trovano le gocce di saggezza, ma solamente lo sperpero. Si trova costretto a condannare, a prendere distanze, a seminare ipotesi e contemplazioni con la consapevolezza di dover parlare lingue diverse, in un tentativo continuo di non lasciare il mondo senza messaggi da condividere. Un insieme di canzoni pregne di fatica e argomentazioni, distributori collegati di un cammino che potrebbe costringerci a scartare, a rivedere la nostra indifferenza innanzi ai fatti che si compiono.
Profumi di sintonie avvinghiate alle sinfonie visitano il piano musicale che viaggia a basso ritmo, mentre le parole sono schegge velocissime che ci fanno saltare in aria. Il poeta catanese raccoglie melodie come preghiere svuotate di inutilità onnipresenti nel suo sterile esercizio di approvvigionamento umano, per indicarci zone intossicate da cui separarci.
Da chi aveva fatto della musica Pop un esercizio di limpida bellezza, non potevamo forse aspettarci un trittico spirituale di questa natura e in questo album ci ritroviamo senza la batteria, ma con parole e arie che ci fanno battere le mani con il nostro ritmo interiore. Pure il basso viene lasciato in cantina e salgono in cattedra orchestrazioni classiche di un altro maestro: Giusto Pio. Si aggiungono poi quattro affreschi ottocenteschi, denominati lieder, composizioni per voce e pianoforte, che la voce di Franco rende simili a impianti moderni di forma canzone senza rinunciare allo stato di purezza classica.
Wagner e Martin, Brahms e Beethoven sono i generatori di visitazione di un tempo nel quale era possibile nutrirsi di musica come forma di contatto con la zona della contemplazione. Battiato ci ha appoggiato parole e un cantato che può avere luoghi impervi nell’ascolto di chi non è abituato a unioni molecolari di questa fattura. Una forma di apertura generosa verso un anacronistico bisogno di tornare a forme di suono e movimenti che separano la musica dalla sua banalizzazione.
Dividendo l’album in due parti, l’artista baciato dalla bellezza di una mente lucida ci fa entrare nella complessità delle discipline musicali creando il presupposto per frustrare la nostra pazienza: non è una sorpresa che questo album non abbia venduto molto (le classifiche parlano del decimo posto, ma come numero di copie molto meno di altri), sottolineando l’imbecillità di chi davanti a ciò che appare “difficile” preferisce la più facile fuga.
Ma questo è il ruolo di chi non concede alle persone bolle vuote di senso: Franco invece con le sue grandi mani ha costruito canzoni come scosse, come inviti di sentieri da percorrere dentro le nostre anime soporifere.
Raffinato, potente, di difficile gestione, portato per indole a far assentare la nostra frenesia, questo fascio musicale attraversa il buio storico e contemporaneo della banalità umana che ha avuto la propensione allo sperpero di qualità donate dalla natura. Punta il dito, schiaccia le nostre fragilità elencandole e cammina sospeso nell’universo dove la sua arte ha trovato residenza. Così, da distante, riesce a trovare le molecole di ogni fragilità donandoci la possibilità di riconoscere le nostre malvagità. Fa meno della facilità di canzoni usa e getta per assestare un duro colpo all’apparato uditivo, conscio di aver trovato il pertugio giusto nelle nostri menti e nei nostri cuori perché ogni essere umano può essere incline a ravvedersi.
Ci si sente piccoli all’ascolto, come se questo lavoro avesse il potere di ridimensionare il nostro cammino, si perde il senso di appartenenza e ci si ritrova a dover governare lo smarrimento, l’interrogazione della nostra coscienza, a dover perlomeno provare a disintossicare le strutture comportamentali di un atteggiamento che ha offuscato il vero piacere e l’incontro con se stessi.
E poi la voce: sottile più che mai, nervosa, scattante, dilatata, come una fiamma che contempla la forza senza dover urlare perché a quello ci pensano molto bene le parole. Si ha l’impressione che esca dallo smarrimento, che entri nel rifugio di una conquista che vuole condividere e fortificare. Anche quando canta in altre lingue il senso del possesso di ciò che trasmette è chiaro, vistoso, destinato a fare centro nei nostri ascolti. Usa le onde del suo spirito per farle uscire da una bocca che, commossa, ci commuove, per spalancare i nostri respiri verso uno smarrimento purificatorio ed essenziale. Ferisce, e non poco, sentire che le parole pesanti conoscano una tale leggerezza: una scelta voluta per farci acquisire la consapevolezza ricevendo una sberla colorata di dolcezza.
Il piombo con Franco può diventare una goccia sulla sabbia, una trasformazione quasi invisibile se in noi esiste l’approssimazione: dovremmo come minimo porgergli rispetto e abbassare le orecchie, insieme all’arroganza. Siamo senza difesa con questi minuti: l’incertezza che ci governa trova episodi che ci mettono al centro di un ring, colpiti e messi al tappeto, frase dopo frase, nota dopo nota, dove la quiete nostra sembra scomparsa davanti al dolore. Che aumenta, senza tregua, seppure la tregua ci venga offerta come opportunità e forma di riscatto necessario.
Il dipinto della copertina dell’album (opera dello stesso cantante) è una bomba cromatica, lenta, tra le dune dove un cammello guarda al futuro carico di colori ed una coperta per proteggerlo: anche qui l’indispensabile viene rappresentato. Un cammino necessita di una direzione e poco altro.
Via le cose inutili, ci si tuffa dentro a ciò che conta per davvero senza aggravare la postura mentale e fisica, per essere leggeri e snelli.
Apri la busta del vinile e ti trovi immerso in labirinti dove la possibilità di uscirne è affidata alla nostra abilità: lui ci mostra i vicoli, le siepi, le ombre, ci regala l’odore dello smarrimento ma ci nega le chiavi per aprire questo mistero. E ci invita a un piano delle cose che abbandonano le proprietà. La nostra immortalità si presenta nelle sue convinzioni, ce ne fa dono e ci solletica lo sguardo, con la leggerezza di chi ha capito. Un disco come incantesimo, di eterna propensione, capace di dividere le acque: nessuno chiede miracoli se non la propria maturità e in queste canzoni vediamo l’accessibilità verso migliorie dalle braccia aperte. Il suo guadagno interiore non è mai segno di speculazione ma un affare privato, dove non esiste la moneta ma il valore di una identità elevata a essere non merce di scambio di un banale baratto bensì l’occasione di aprire il cielo.
Le musiche dal sapore medievale e arabico sono solo un ponte temporale e spaziale, uno stratagemma intelligente per donarci antiche fascinazioni. Tutto in queste otto tracce diventa il respiro dentro una reincarnazione, uno scatto verso la presa di posizione che ci eleva: ogni episodio è una chance per capire, per confluire in una scia magica e cruenta, un cavatappi per aprire i liquidi addormentati dai sapori magnifici abbandonati nelle nostre vene. Canzoni appassionate, legate tra di loro da un’armonia che conosce leve nuove con il suono di una antichità che ancora può risultare utile.
Franco Battiato ha deciso di non abbandonarci mai e con questo suo capolavoro (sì, è giunto il tempo di affermarlo) ci ha avvolto in un abbraccio che attenderà millenni e millenni per essere condiviso, perché l’eternità significa opportunità…
Con paura, pudore ma rispetto mi accingo a visitare le sue canzoni consapevole che la mia perdizione troverà il suo sorriso, breve, potente, ma necessario per me…
Song by song
Povera patria
Abbandonato il periodo sperimentale e pop, ecco che l’aspetto religioso/filosofico prende il sopravvento con una attenta cura nello specificare anche quello intellettuale.
Il suo sedicesimo album inizia con una musica dolcissima e un testo che gli si oppone con una propensione alla rabbia e alla quasi rassegnazione.
Scuote e dona la certezza di occhi vigili sul fare spietato di un essere umano caduto in rovina. È una freccia che cerca di formare una bomba atomica comportamentale: il risultato è lasciato a un destino che sotto la sua pulsione inarrestabile devasterà ogni atomo di questa arma primitiva, con corpi in terra preceduti da menti già arrese…
Le sacre sinfonie di un tempo
Con un inizio ambient/new age e di derivazione classica, queste note sono una culla che si avvolge in una giostra che si rivolge alle tenebre e la voce di Franco padroneggia le parole con determinazione su una scia fasciata di tristezza.
Il lavoro di un arrangiamento quasi nudo evidenziano che l’accoppiamento testo/musica è purtroppo perfetto lasciando all’ascoltatore del catrame sui pensieri.
Come un cammello in una grondaia
Questa musica serena, su un territorio proveniente dall’amore per la musica classica, porta ossigeno e un elegante paio di ali per un’anima in partenza. Gli archi salgono in cattedra per prendere le parole e condurle nel cielo dove le tentazioni cedono. È una canzone che sospende l’affanno e la vivacità per divenire un terremoto acclamato a gran voce dalla coscienza di Franco, che si separa definitivamente dall’essere partecipe di deliri.
L’ombra della luce
A far divenire senza dubbio una pietra miliare questo album ci pensa questo pianto dal sorriso che supplica considerazione. Devastante, come una marcia funebre senza intenzione di cessare questo rito, il brano tocca la vetta di una intera carriera. Sacra, lunare, mistica, come una coperta che viene buttata per terra per rivelare il corpo umano capace di abbandoni, uccidendo la possibilità di condivisioni continue, la canzone prende la mediocrità e la forza e le mette sotto un riflesso di luce per offrire l’ultima possibilità di scelta. È il definitivo appuntamento per un riscatto, mentre l’infelicità aspetta diabolicamente la morte di quel fascio luminoso.
Schmerzen
La poesia di Mathilde Wesendonck stipula un contratto possente con Richard Wagner per dare a Franco un canto in lingua tedesca, rivelando la dolcezza e sposando la musica classica per guardare il mondo da un cratere lunare. Archi che marciano quasi austeri per poi aprire le tende del paradiso sulla leggerezza di una interpretazione clamorosa da parte del cantante siciliano.
Plaisir d’amour
Per il secondo Lieder arriva un altro compositore tedesco: il potente Jean Paul Martin consente a Battiato di cantare questa volta in francese su un testo di Jean Pierre Claris de Florian. Ed è la primavera notturna che visita il silenzio donandogli pennellate vibranti in attesa del giorno. La passione del cantautore catanese trova il terreno su cui poi tornerà per rivolgersi alla canzone popolare francese qualche anno dopo, svelando come la musica classica tedesca possa abbracciare la nazione francese per creare il bacio accademico dell’arte. Una poesia che grandina sui pensieri in pausa. Ed è un piacere che ci consuma le forze denudando i nostri impeti verso i rumori. Maestosa.
Gestillte sensucht
L’immenso pianista di Amburgo, il direttore supremo dei sogni, entra nell’album con una delle sue più magnetiche composizioni. Questa volta il testo è dello stesso Battiato. Si viaggia sulle dune di sabbia, dove lo spirito danza lento sulle piume dei sogni per farci chiudere in un sonno ristoratore. Per poi accelerare e diversificare la sua struttura e strattonarci con dolcezza.
Oh Sweet Were the Hours
Connettere tre personalità come Beethoven, William Smyth e Battiato è qualcosa di inimmaginabile. Per l’ultimo brano la musica presenta un impalcatura fatta di gocce di piano sulle ali di violini pacifici e la voce di Franco che allunga le sillabe rendendole magiche, per poi concedere l’ingresso di un coro che cementa la forza e l’eleganza di un abbraccio cosmico su parole magnetiche.
Raggiunta la perfezione con questo album, non era semplice mantenere queste vette per un’anima continuamente alla ricerca di espansione delle sue necessità di formare il suo spirito.
Ma l’impresa più grande non è raggiungere una vetta, bensì voler concedere all’eternità la capacità di lasciare questo corpo libero di osservare il mondo per sempre da quel luogo. Ed è da lì che vigila Franco Battiato, dal suo cammello sulla cima dell’Everest mentre noi, sconfitti dal nostro egoismo, non abbiamo ascoltato bene le parole di questa opera continuando a sconfiggere i suoi nobili e altissimi concetti.
Siamo noi che l’abbiamo abbandonato, ma lui rimarrà la nostra luce…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 giugno 2022
https://open.spotify.com/album/7CdGW9JRoTbqk2v5imOHQd?si=DnizsVYqQaGt6X5JdM3FOg
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