La mia Recensione:
Jeff Buckley - Grace
“Nulla è più pericoloso e mortale per l’anima che occuparsi continuamente di sé e della propria condizione, della propria solitaria insoddisfazione e debolezza.”
Hermann Hesse
“Non ho paura di andare, ma va così lento”
Jeff Buckley
C’è una fuga dal respiro che la mente individua e che vorrebbe accelerare, tenendo conto che l’unico Dio è il Tempo, il sovrano che decide il tutto.
Ci sono anime che sono perennemente in attesa e l’unico destino vero è quello della morte che consente un percorso nella vita, nulla più.
In tutto questo la bellezza, il senso, la gioia, la grazia vivono alternate, raramente nello stesso posto, affiancate.
Un vagare continuo, con la mente soffocata dalla pesantezza, che da sola non può dialogare perennemente con il talento che la natura concede a tutti. Occorre individuarlo. E da quel momento le cose potrebbero complicarsi.
Arriva in questo contesto un fanciullo eterno, dal volto illuminato di sabbia, con una serie di silenzi con l’ancora attaccata loro: non possono vivere la loro identità perché debbono trasformarsi in parole, suoni, composizioni, atti intensi come un fiume del deserto lungo pochi metri, in quanto questo è ciò che è successo a un tormento dalla voce d’aquila, la febbre dell’arte senza cornice, senza copertina, senza prigioni.
Affamate di incanti che creano dipendenza, alcune anime guardano ciò che scatena emozioni come il luogo massimo della presenza di quella giustizia in grado di soddisfare.
Creando la prima ruga senza possibilità di sciogliersi sul volto di chi è investito di un ruolo davvero molto scomodo.
E da lì non si può scappare.
Jeff Buckley è il segno tangibile di cosa ruota dentro i grovigli dei tormenti, della soluzione sempre da sollecitare per andare ad abitare quegli egoismi in una fila che si allunga e allarga: ecco cosa fa, tra le tante cose, il tempo, senza cambiare idea. La musica non più come ristoro, risorsa, espressione di serenità o nuvole, bensì come metodo per fare di quella fiumana umana la residenza del beneficio.
Il talento diventa la soddisfazione altrui, creando pressioni a cui non si presta attenzione: dove esistono egoismi non può vivere il dialogo.
Il ragazzo vive perennemente nel liquido che sposta la pelle e la tornisce, mentre l’anima è sempre qualche metro avanti, sbuffa e protesta, aspetta la fine, ignorando qualsiasi lamento perché ha un appuntamento che la renderà felice, aspetta di sorridere tra le onde che affondano il respiro.
Le dita di questo terremoto emotivo scrivono gioielli dalla faccia triste, con la voce sognante che permette di non affollare la convinzione che possa essere spenta dalla fatica e dalla morte: nel senso di appartenenza a volte si creano voragini.
Cosa sono le sue canzoni se non una manciata di cristalli che, pur brillando, contengono all’interno un grido silente che non viene colto, considerato, reso sterile?
Si parlava del talento, ma non del suo terrifico ondeggiare tra soddisfazione e sgomento.
Il suo primo progetto musicale si chiamava Shinehead: quando nel nome il destino traccia il percorso della sua corsa infame. Partendo dalla polverosa congrega del Greenwich Village, ha camminato verso la Gloria scoprendo nella sua Grazia la perfetta compagna della sua dipartita e nessuna splendida canzone ha avuto il potere di concedergli il beneficio di milioni di altri respiri: sono sopravvissuti solo i nostri.
La sua storia appartiene alle biografie, agli ascolti, all’amore sparso nei crateri del mondo senza nessuna possibilità di continuare a scriverla, come sarebbe stato giusto. E non a causa della sua giovane età bensì per quel riscatto che doveva ricercare e vivere.
Quanto amo l’idea della sua chitarra appoggiata, la sua voce muta, mentre vive giorni belli come il suo sorriso, come la sua pelle profumata di sogni dalle gambe corte.
Grace mi guarda arrabbiato: non vuole suonare, scrivo di lui ma vuole tacere. L’unicità entra nella storia e ha una responsabilità capace di togliere il fiato solo a se stesso.
Ciò che ha scritto dopo aveva già segni di conformità, perché mancava di quella luce senza fine che era rappresentata da dieci canzoni che definivano la perfezione. Non solo artistica.
Dopo l’uscita dell’album ha trovato rifugio nell’amore, nella droga, in una forma contorta di depressione che sono cose che spesso feriscono più di un fulmine caduto nel centro del corpo.
Tutto questo a favore di una eternità che lui vive dal cielo, dove non possiamo ascoltare più la sua voce, dobbiamo ritenerci fortunati per il fatto di poterlo fare qui, sul pianeta egoista.
Un lavoro che è arrivato dopo un Extended Play, la premessa fatata di un delirio che avrebbe trovato una prolunga nel disco dal destino segnato.
Parlare di Grace significa sentirsi orfani, non anime che godono bensì l’opposto. Ma non per ciò che è accaduto in seguito.
La difficoltà della relazione con l’attrice Americana Rebecca Moore, le zone d’ombra di un carattere sempre pronto a saltare in aria e la tendenza a fare delle passioni la partenza perfetta di ogni suo canto, fanno intendere come fosse arduo per lui gestire la lunga registrazione del suo vero debutto discografico.
Semplicemente: un insieme di brani che già restringono il fiato, dove solo l’ascolto ripetuto sembra consentire gioia, un ascolto nel quale ogni millimetro è composto da una lama che ferisce la pelle, e non solo. Trovatosi in dote un talento enorme, viverlo ed esprimerlo gli ha complicato la vita.
La sua musica ha preso le distanze, doverosamente, da chi non lo aveva cresciuto, pur avendo l’identica capacità del padre di fare delle canzoni il motivo della propria affermazione nel mondo.
Jeff salta come un canguro spaesato in una California spettinata, piena di sole e veloce a trascurare le fatiche umane: tutto ciò che ha composto è un agglomerato continuo di stili e distanze, un puzzle sofferto in cerca di gioia, forse.
Dedicare la propria attenzione a questo lavoro è una piacevole tortura, dai sensi sconnessi, perché ciò che è stato consegnato deve fare i conti con l’assimilazione, la comprensione e infine la gestione di un agglomerato che potrebbe intorpidirsi con lo scorrere del tempo.
E invece.
Tutto rimane intatto, come un mistero che gli dèi conservano, forse come punizione nei confronti della nostra ignoranza e inadeguatezza.
Il lato drammatico, misterioso, unito all’affanno esistenziale conferisce all’ascolto la testimonianza di un mattone rosso che, con il proseguo, trova minuscole parti in disintegrazione, in un precipitare lento, facendo arrossire il fiato, oscurando il respiro.
Canzoni struggenti, ballate come abbracci stretti sino a una compulsione dinamitarda, percezioni che escono da parole che, anche se piene di garbo, non possono nascondere ciò che un’anima pura vorrebbe rifiutare.
Una band capace di rendere liturgico il viaggio, con le pennellate di Lucas, con la sua chitarra lieve, il basso di Mick Grondahl, tenebroso e potente, e la batteria di Matt Johnson, che è la mano dal cielo che accarezza. Una terza chitarra viene suonata da Michael Tighe ad aggiungere romanticismo per non lasciare il tutto troppo greve. Jeff mette le sue fragili, talentuose dita anche sull’harmonium, sul dulcimer e sull’organo, come completamento di un progetto che somiglia a un quadro impressionista di Roy Lichtenstein.
Le trame timide, esili, sconvolgenti, che passano tra il folk e il soul e un pop raffinato, si uniscono perfettamente a una ispirazione che guarda alla liturgia come punto di partenza nel quale la parte metafisica sta in attesa. La sua voce è un coro nero che si affaccia al cielo, donando brividi e smarrimento, incontrando spesso ispirazioni blues e la sacralità dello spirito gospel, senza averne i tratti. Tutto questo perché la sua voce viaggia sospesa, tra i canali emotivi innaffiati di scintille come api con le ali enormi. L’aria del cielo ne viene invasa per intensità e capacità.
Le sue corde vocali, salde, rendono l’ascoltatore tremante.
I testi sono fondamentalmente il percorso di cellule lucide ma pregne di buio al loro interno, dove il viaggio conosce già l’esigenza della sua fine.
Il suo background fatto di ascolti acuti, profondi, brillanti, ha un range vasto, spesso proveniente dall’Europa, in uno spazio temporale che parte dall’inizio del secolo scorso. È coraggioso nell’essere affamato di ciò che pare distante dal suo presente, conferendo al suo stile una somma incandescente di cellule con il dna così estremo da apparire inevitabilmente come un collage perfetto, fatto di intuizioni, esplicitazioni, scelte azzardate ma funzionali.
Riluttante, determinato a porre qualsiasi distanza dal padre Tim, non può negare la sua connessione con alcune modalità espressive dello stesso, vedi quel tuono angelico del falsetto straziante, in grado di creare rossori sui nostri sensi imbambolati. E che dire di alcuni momenti nei quali il jazz di Jeff sembra il perfetto prolungamento della pesante figura paterna?
Compositore e raffinato interprete, annette anche il bisogno di fare entrare impulsi noise nelle diamantate chitarre, come un cerchio musicale desideroso di non escludere, come un padre di famiglia che non vuole scegliere uno solo dei suoi figli.
Una generosità sensata e riuscita. Le sue cavalcate verbali possono far credere che nulla o tutto potesse desiderare di essere aggiunto. Ha provato a farlo con le registrazioni di canzoni nuove che non è stato in grado di completare e solo la madre è riuscita nell’intento, annullando il fato e il destino con un’operazione scorretta e trucida: dovevano rimanere nel cassetto e prendere polvere.
E invece…
La sua versatilità l’ha distanziato dalla contemporaneità ed è stato questo che ha dato a tutti la possibilità di conoscerlo: si è distinto, decidendo così che la conformità sarebbe stata una difficoltà inutile e dannosa. Lui è salito in cattedra per risultare come un maestro consapevole che la sua arte sarebbe stata riconosciuta come lavoro, dedizione, interessi multipli distanti dal vuoto che invece riempiva le orecchie, senza poesia.
L’aspetto visionario è sintomatico della parte fanciullesca di un essere refrattario alla crescita, desideroso attraverso il connubio musica/parole, di avere il giocattolo sempre tra le mani.
Nella fragilità della adolescenza la preghiera sembrerebbe essere il supporto migliore al fine di permettere ai sogni il miracolo dell’eternità ed è esattamente quello che il rock fa…
Il ragazzo dai modi gentili utilizza anche le urla, atti che potrebbero rovinare l’immagine di una modalità sempre così rispettosa. Nell’album però tutto questo rivela non solo il desiderio di completamento, ma soprattutto l’impossibilità di negare l’autenticità che spinge verso la sua affermazione. L’essenza della sua esistenza musicale trova senso nel fare di Grace la prima pagina della propria carta d’identità, un work in progress determinato ad essere un capitolo senza luce nelle pagine future.
La scomparsa è stato un graffio e uno strappo su quelle pagine.
Tutto doveva rimanere incompleto in questo percorso umano: la completezza l’ha riservata a questi dieci scrigni e alla nostra eredità fatta di ascolti vedovi e orfani.
Jeff Buckley non è un artista maledetto, tantomeno un angelo, bensì uno di quei lutti imprevedibili da parte di chi nella continuità di un beneficio afferma se stesso. Alcune morti certificano la sconfitta di chi rimane in vita ed ora l’ascolto di questi dieci respiri fatati rende questo vinile davvero troppo pesante. È questo il destino della bellezza e dell’importanza: di renderci sempre più curvi davanti alla loro assenza…
Canzone per Canzone
Mojo Pin
I desideri e le allucinazioni, la solitudine e i sogni inquieti scendono sui fogli intonsi di Jeff che si trova soddisfatto con i vecchi accordi di Gary Lucas in un brano che si chiamava And You Will. Buckley lo trasforma in un sottomarino con la voce scivolosa di un’alba su riflessi notturni creati dalla chitarra cullante. Poi il sole sott’acqua lentamente apre i polmoni e la voce regala soddisfazioni sensoriali dentro evoluzioni crescenti.
Grace
Un rock dalla pelle vellutata e dalle parole che pesano sempre di più goccia dopo goccia.
Una chitarra ritmica dall’attitudine Dreampop accoglie il cantato con la sensazione che certe urla siano il castigo e il dazio che il dolore deve pagare. Il falsetto e il seguente vocalizzo provengono da Janis Joplin, isterica e sconvolta, tra convulsioni che vanno a baciare lo Shoegaze più elegante.
Last Goodbye
Le chitarre gonfiano il petto scivolando con attitudine limpida nel blues nero nordamericano per poi continuare con una sezione ritmica che entra in un feedback controllato. Caratterizzato da una struttura pop senza essere legato alla forma canzone, questo imbuto brilla per rivelare la sua manifesta necessità di non essere legato a un cliché e l’orchestrazione, con violini frizzanti, lancia il tutto con un alto profilo qualitativo.
Lilac Wine
James Shelton avrà fatto un salto sulla sua sedia celeste quando tra le tante versioni del suo splendido brano ha potuto sentire quella di Jeff. Abbassato il registro della voce, il ragazzo californiano decide di diventare una piuma, sognante, a due passi dalle nuvole. Con la dimostrazione che il tempo con lui trattiene il fiato, tutto si tinge di infinito e vibra di magia a grappoli, con la chitarra che si accorda con la sua parte vocale per siglare il patto con la bellezza che non può essere usurata.
So Real
Traccia dall’attitudine Dreampop, con i Cocteau Twins muti e adoranti, trova la forza e l’abilità di una esplosione “contenuta” per poi deflagrare come rocce impazzite con la data di scadenza, per tornare a graffiare con dolcezza. Scura, con la pelle avvolta dalla nebbia, la canzone conferma Jeff come un ottimo scrittore capace di dare ai suoi versi il potere di sedurre gli occhi, con la voce a baciare la perfezione.
Hallelujah
L’amore per Johnny Marr degli Smiths, la sua devozione e la forma infinita di studio per la band Mancuniana trova posto nella perfezione della chitarra di questa cover di Leonard Cohen.
Poi è miracolo, fuochi naturali che esplodono nel cielo. Nessuna cover può essere meglio dell’originale. Sia ben chiaro. Jeff ha materializzato l’infinita bellezza del cantautore Canadese e ha reso accessibile, con un suono moderno, ciò che pareva destinato ad un tempo lontano. Con un lavoro estremamente attento nei confronti della chitarra (la bambina che sconvolge gli adulti), la voce cavalca l’onda di una spiritualità in volo per separarsi da ciò che è umano e divenire divina.
Lover, You Should’ve Come Over
Come scoprire la modalità di scorrimento del sangue nei nostri battiti: tutto parte lento, malinconico ma pulsante, per poi, con la voce che accelera sino a divenire nevrotica con il suo falsetto adorabile (su una base dove l’organo mostra i confini dello splendore fatto di semplicità), rendere evidente come la musica che lui amava ascoltare potesse avere spruzzate di energia con il suono degli anni 90.
Corpus Christi Carol
Questa volta Jeff prende un brano tradizionale inglese del 1500 e impartisce lezioni di leggerezza e dolcezza mostrando a tutti che alcuni talenti venuti dopo, come Antony e Rover, ma la lista è lunghissima, sono passati da qui, da ascolti infiniti e attenti.
Se il cielo ha una voce è quella che mostra Jeff in questa incantevole esibizione di talento e capacità di estremizzare la distanza tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. La perfetta ninnananna per cuori bisognosi di coccole.
Eternal Life
Il chaos, figlio di una miscela allettante tra gli Alice in Chains granitici e gli Aerosmith dalla faccia pulita, rivela come Jeff possa esibire il suo lato robusto brillando con arrangiamenti inaspettati, che sanno alternare tutte le micce di un rock con il papillon.
È noise con la maschera da Carnevale che seduce e spiazza, per poter celebrare la canzone con passi di danza come una scarica elettrica gentile.
Dream Brother
Dando spazio ad una stesura del brano che comprende tutta la band, ascoltandolo notiamo come si possa circumnavigare il tempo, lo spazio, i generi musicali, per fare di una canzone un vento misterioso che si tuffa in cieli rumorosi, con scintille Post-Punk, divagazioni prog, un Post-Rock con il miele sulle ali e un canto così espressivo che sintetizza questo Camaleonte artistico. Ed è l’ennesimo shock gravitazionale, la tempesta del cuore che si inchina e bacia un album che gli dèi ci hanno generosamente concesso di sentire. Noi potremmo anche smettere di ascoltarlo, ma sono convinto che nelle praterie celesti risuoni come il perfetto loop per fare dell’eternità un luogo incantevole, avendo in dote la colonna sonora migliore…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Maggio 2022
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