La mia Recensione
Auge - In purgatorio
Uno stato di allucinazione che viaggia dentro un tunnel con nove finestre scure: un briciolo di luce appare a quietare la mente sudata.
Questo è l’album di esordio della band Fiorentina Auge, composta da tre canne di fucile col silenziatore, che rovistando negli spazi silenti di anime in tensione termica, compiono il loro viaggio per stendere fogli di carta vetrata dalle piume di petrolio e alghe, lasciando la nostra pelle unta da una bellezza con la febbre costante.
È un volo pindarico e ben organizzato, le tappe si fanno trovare pronte all’amalgama e scattanti come rapite da se stesse, si spostano nel cuore per avvolgerlo tutto.
Sono angeli dalle mani potenti Sara Vettori, Matteo Montuschi e Mauro Purgatorio, capaci di scrivere sin dall’Ep di esordio Magnetic Domain canzoni che erano da me descritte come “taglienti, spigolose, complesse”, cantate in inglese e già capaci di emozionare lo scriba.
C’è stato un cambiamento di lingua nel cantato decidendo che l’italiano potesse meglio specificare le nuove composizioni e direi che la scelta si è rivelata perfetta. Con la produzione di Flavio Ferri tutto si è fatto adulto, fermo, combattivo, energico e devastante, come sa essere un viaggio dentro se stessi. Il musicista e produttore Milanese ha saputo compattare il progetto fiorentino con la sua esperienza e capacità conoscitiva dei propri mezzi e di quella della band per un risultato finale eclatante ed entusiasmante.
Le canzoni sono ipnosi con i freni e l’acceleratore ben sintonizzati, in un lavoro comunicativo esemplare, di grande impatto, capaci di condurre l’ascolto dentro ad una bombola di ossigeno, tra molecole e respiri profondi.
C’è un senso di purezza nell’album che ci rende neofiti, fanciulli curiosi e al contempo smarriti, nel quale questa sensazione non ci lascia timorosi ma incredibilmente spavaldi: si desidera perpetrare l’ascolto come rapiti da unguenti che lisciano la pelle malgrado scariche emozionali continue.
La miscela tra l’impianto musicale e quello lirico è di sicuro effetto, come disturbi collettivi allineati per lo scuotimento di menti poco allenate allo stupore e alla responsabilità. Sono minuti nei quali la fierezza risiede nelle abilità che sono radici in movimento per fare di noi operai per il futuro, votato con convinzione estrema ad un nostro progetto interiore. Quando si è scossi esiste un grazie da cedere, da fissare nella mente, in questo caso, di questi tre artisti, che hanno stabilito connessioni multiple in un pianeta musicale italiano in notevole fermento, dichiarando la propria presenza ed un posto di assoluto rilievo.
I generi musicali che troviamo sono sapientemente amalgamati e fluttuanti, come anguille nel deserto capaci di sopravvivere creando abbracci come ristori e cascate di acqua per mettere in contatto esigenze diverse. Ed è rock che si tinge la superficie cutanea di grigio e nero, con il post-punk a prendere pennelli ruvidi sino a rendere l’atmosfera vicina a impianti gotici, senza esagerazioni che tolgano quella attitudine positiva che comunque alberga dentro ad un album che non rinuncia ai sogni.
L’amore afferra gli abissi e ci contagia con il metallo più prezioso e l’impressione di uno stordimento che stende le labbra in un sorriso piccolo ma che rende il cielo soddisfatto.
Un esordio significativo e prezioso da approfondire: mi appresto nel farlo consapevole che l’ascolto sarà come giocare con una strega in un giorno di festa…
Canzone per canzone
Questo sentiero di calore incomincia con “L’avvento”, con un iniziale tappeto sonoro riconducibile agli U2 di The Joshua Tree, per poi separarsene e diventare una Desert Rock song con grovigli che a partire dal testo (un dialogo con il Divino, con la fierezza di un disaccordo sul suo ruolo) si prende la musica con spine e sangue sparso per fare di questo pezzo iniziale una bomba lenta ma con effetto micidiale.
Il cantato superlativo apre la granitica “In auge”, che sembra uscire da una cascata Darkwave che strizza l’occhio agli Afterhours scuri come non mai. Perché è proprio l’abisso il piedistallo di questo percorso nevrotico, come la gramigna più libera, capace di soffocare. Qui lo fa con una melodia secca e breve per determinare l’amore, visto da eclissi in libertà non vigilata.
Continua la catarsi con “Cadendo”, un temporale che ci fa cadere, danzare, preoccupare con la sua storia tra sogni e la realtà più marcia. Nel suo essere un micidiale mantra che potrebbe gonfiare le radio, si prova la scomoda sensazione che sia il testo che la musica nascondino una drammaticità in questa nostra esistenza e allora non ci resta che chiudere gli occhi e muovere i nostri corpi, scevri di tutto per poter godere di questo proiettile bellissimo, precipitando…
Ascolti la successiva “Sai” ed entri nelle grinfie di un amore rapace e devastante, con tutto l’album nel mio modo di percepirlo rappresentato da questo brano, è un flash illusorio che trova giorni ridimensionati dal sentimento più potente, capace di essere creativo come distruttivo. Ed è un saliscendi di suoni come di penitenze, di funi con sangue torbido impresso in ogni secondo, dove la musica si muove acuta e sbilenca sino al fragore per tornare a farsi piccola. Una clamorosa esibizione di classe compatta che lascia brividi nel cervello, ipnotizzando e facendo tremare ogni certezza acquisita.
Chiude il lato A del vinile “Indispensabile”, torbida corsa di una obbedienza e lo fa con la sua robusta propensione Americana, quella che aveva preceduto il grunge, con maggiore snellezza, con una chitarra sibillina che sa cogliere l’incubo, cosa che il protagonista non sa fare: ed è strategico il cambio ritmo, le atmosfere che vivono dentro una matrioska maligna e dicotomica. Saper far coesistere suoni multipli, di decadi diverse, e miscelarli con altrettanti generi differenti è segno di una qualità innegabile e alla fine del brano indispensabile…
Il senso di sorpresa questa volta è dato da una cover che non ti aspetti, ma che nel congegno dell’album funziona perfettamente: diviene come per mistero parte della band che la sequestra mutandone la pelle. Un serpente di rara bellezza che si chiama “Anima Latina” di Lucio Battisti (che amerebbe di sicuro questa trasformazione) apre il lato B come un bagliore che spoglia le paure, ma inietta veleno sibilante con questo flusso di elettronica e rock compattato e sigillato per aggiungere alla band Fiorentina i segni particolari di un fare complesso, sposato alla fascinazione e al corso del tempo. Una rivisitazione che illumina la superficie del corpo lasciando la scia di una bava corrosiva.
“Tu sei me”: un piano inatteso e triste apre la strada ad un proiettile acuto e sbilenco nato per uccidere le illusioni e i ricordi. Si corre nel deserto con chitarre e basso gonfi di polvere e spietate melodie contagiose, dove ciò che è fugace muore e rinasce nella bellezza di questo vapore acqueo che svela ancora di più come i tre sappiano assorbire l’energia per liberarla in una storia sonora amletica e potente.
Ed è tuono: partendo dai primissimi secondi che odorano di The Mission del secondo album Children, “L’ultimo pensiero” è il diario sonoro che scrive la sua direzione con un fare armonioso e lacrimevole, dove i Livornesi Malfunk sembrano resuscitare.
Il cantato è un rasoio melodico che nuota su chitarre come rovi trattenuti, pronti per cadere ed esplodere ma che si trattengono dal farlo. E giunge un fischio sensuale che attira ancora di più la nostra attenzione su un crooning ipnotico per far scemare la canzone dopo aver sudato e conosciuto l’estasi.
Tutto si conclude con la schiena di una duna colma di rock che si chiama “Fantasmi”, con la sua abilità nel variare propensioni e nel gestire pulsioni quasi psichedeliche e donarci una bufera lenta di sabbia. Le voci raddoppiate ad un certo punto sembrano provenire da una antica sessione dei Black Sabbath, mentre le chitarre diventano rivoli che trattengono il calore ed il senso di morte che si aggira sornione tra le note. E sembra una siringa che punge il tempo questo brano, un insieme di crepacci tenuti in vita miracolosamente, dove tutto sembra pronto per congedare la propria esistenza. Ogni cosa scivola e rende evidente che lo stile è il marchio del dna della band toscana che può guardare il mondo con fierezza.
Un album che rivela l’ottima condizione di salute del tanto criticato rock che in questo caso, anche se mischiato ad altri generi, dà la sensazione che la sua attitudine abbia nel suo ventre migliaia di vene pulsanti perfettamente in attività. E quelle degli Auge brillano per intensità e capacità.
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