martedì 1 marzo 2022

La mia Recensione: SECRETARY - Parallels

La mia Recensione 


Secretary - Parallels


Sin dall’inizio della presenza dell’uomo su questo pianeta si è avuta la necessità di protezione. Per quanto si siano costruite cose e situazioni di comodità, è sempre esistita una valanga di elementi che ci hanno fatto sentire , e ancora lo fanno, che senza protezione si ha paura, ci si sente scomodi e vulnerabili. E da quando esiste l’arte, con le sue varie forme, si sono create zone perfette per custodire l’agio e il disagio per l’eternità, sperando che il primo fosse e sia il vincitore.

Poi esiste chi con un album di canzoni presenta entrambe le situazioni contemporaneamente e non puoi che ritrovarti sbalordito davanti a questa intensità. Sarà per gli opposti in questa convivenza, o per l’incapacità di resistere alla bellezza del dolore che tenta di sorridere raccontandosi.

Il risultato, ad ogni modo, è un ascolto con il cuore come un terremoto che, se da una parte distrugge, dall’altra mostra ciò che fa di nascosto, ed è comunque una gioia che offre la forza di ricostruire.

Queste lacrime sono la tenerezza che trova al semaforo la solitudine, le sorride e la porta in giro per nuovi sogni da fare, in attesa di tempi migliori.

Davanti a questa intenzione si deve prestare molta attenzione: Ellison Wolf ed Em Maslich, con il progetto SECRETARY, sono capaci di frantumare, dolcemente, ogni rifugio perché questa loro intensità in realtà ci mostra come il loro sia indistruttibile.

Che sia la musica, le parole, le voci, tutto diventa una disintegrazione costante perché nulla stordisce di più della intensità, della capacità di colorare le tenebre portandole dentro di noi. Non hai possibilità di fuga.

Non puoi maneggiare il fiume, per quanto bello sia, perché in questi quarantasette minuti ti ha avvolto nel suo moto.

In queste nove tracce ogni secondo è un pugno che ti accarezza e pettina l’anima, per destabilizzare e confortare al contempo. 

Abbiamo vissuto in precedenza tutto questo, nelle canzoni più devastanti dei Radiohead (con i quali ci sono dei punti di contatto musicalmente parlando) e dei The Postal Service: di questi ultimi si avverte la comune volontà di non frenare la progettualità di un dolore che vuole vivere per poterlo poi uccidere.

Sono scintille queste canzoni, che fanno capire come l’intensità possa essere contemplata e desiderata e come diventino spade melodiche che entrano dalla punta per affondare sino al manico.

Gli anni novanta nel loro momento migliore, con quella attitudine di esplodere. Con il suono degli anni 2000.

Qui il tutto senza distorsioni, bensì con quella sensazione di soffocamento che nel suo non essere gestibile attrae e affascina.

Le chitarre, i Rhodes, il drumming indie, il basso plumbeo, le voci come perle al buio, sono tutti programmati per essere veicoli che si scontrano continuamente contro quel desiderio di protezione di cui dicevo all’inizio: tutto diventa la stagione che non esiste, somma di quelle reali, e non c’è parola che possa definirne l’essenza se non l’effetto, che è schianto.

Uno schianto dolce e amaro, consequenziale.

L’amore, in questo album, è un sillabare contemplativo e magnetico, dove l’eterno è già presente, come sorpresa con il groppo in gola, e le labbra, appiccicate alla ridda che spossa, si siedono tra le note aspettando il battito di ali degli angeli per poter morire serenamente…



Canzone per canzone 


When you know, you know 


Una preghiera.

Questo è l’inizio dell’album nei suoi primissimi secondi.

Preghiera che si unisce in fretta ad un fare elettronico per raggelare gli animi, per dare un senso psichedelico del bisogno di elevarsi.

La voce, su un pattern nebuloso ma diamantato, sequestra i nostri slanci altruistici e ci rende egoisti: che bello dipendere da questo cantato che fa della pittura il suo vestito più rispettoso e ci porta a desiderarlo. 

Le corde della chitarra sono passeggiate che partono dall’altare e ci conducono sulle strade con l’elettronica ad illuminare i fili della nostra tensione interiore.



Words


Si può unire il trip-hop, il funky, l’elettronica degli anni 60, la notte con il suo mistero e la sensazione che la psichedelia più pura viva nella leggerezza di piccoli impulsi velati ma garbatamente prepotenti?

Sì, Words è qui a dimostrarlo, con il suo fare sornione, la sua forma fisica che consta di chitarre brevi e rarefatte, di tastiera come acqua a breve getto continuo ma già capace di bagnarci il volto di lacrime. E quando la chitarra si affaccia, tutto si fa abbraccio e sudore, le note alte con il delay non sono altro che la preghiera iniziale che non ha finito il suo percorso…



Wave


Come è veloce la potatura, violenta. Come è lenta la crescita dei rami, pacifica.

Ecco: in questo brano si parte dai rami tagliati e con il passare dei minuti ci troviamo davanti alla maestosità di un albero elegante e profumato di brina autunnale.

Perché tutto cresce: partendo dalla chitarra semi acustica, alla voce, a quella elettrica e all’insieme che si abbraccia calorosamente nel ritornello dal profumo di vita in fase di addio.

Poi il cambio ritmo, le chitarre che si rimpallano per divenire riflessi di Felt e Television, con il basso che insiste e lascia lividi di memoria post-punk.

Il ritmo della musica cresce con questa voce che si appiccica al cuore.

Non puoi rimanere gelido davanti al sole nero che invade la tua pelle con quelle interazioni intense di note e di voci (con controcanto e falsetti che sono le tue lacrime che si specchiano), che fanno di te, alla fine, quando anche il ritmo cede, uno straccio su cui riflettere…



Retroacting 


Quasi come fosse un moderno canto Gregoriano, il brano si butta su un folk antico che sapientemente si miscela al fare moderno e i Radiohead sono lì, come guardiani di questo incanto, dalla faccia triste.

Come carnalità in fase di riposo, il brano, nella sua lenta drammaticità, si offre per togliere la nostra pelle ormai fradicia, da buttare.

Il titolo della canzone, quando viene cantato, da solo è già lo sparo che sconquassa il silenzio della notte. La chitarra e la Rhodes ci inguaiano, tutto scende a rendere la nostra pancia una discarica. La melodia ci riporta al fare straziante dei Saybia, la band Norvegese regina in queste particolari condizioni nel renderci muti. I Secretary sono allo stesso livello.

E allora la sfida è verso la nota che riesce a farci cadere più velocemente.

Dal fascino irresistibile, questo brano è l’acido che al momento ci farà svenire. Ne verranno altri.

Intanto trovate fazzoletti per accarezzare la vostra malinconia che sta facendo l’amore con la tristezza, dove il vero orgasmo è il nostro ascolto.



I know It’s Wrong


Jeff Buckley, quello del secondo album, arriva all’inizio del brano, con il drumming e il basso che sono corsari che ci rubano le forze. Poi però il cantato ci traumatizza ancora di più, con quella sua delicata movenza, portandoci nei pressi del rifugio delle marmotte dove i fischi diventano la tastiera che ci avverte che di notte le emozioni sono nude. Il drumming, articolato e vivace, ad un certo punto si ferma, dando alla voce e al basso, e a seguire alla tastiera, il compito di offrire al cuore il ritmo seducente della paura: quanta bellezza che si mostra!

Ed echi dei Sophia di Mr. Robin Proper-Sheppard si affacciano nel cantato, struggente e dolce al contempo, che aggiungono pathos a quei millimetri di calore che possono servire in qualunque momento.



Too Far, Too Late


Il cuore come un magazzino al quale rubare i segreti della sua propensione al sogno. In questo spettacolare insieme molecolare di incanto e pulsioni vitaminiche, il brano che ascoltiamo è forse quello più di tutti capace di evidenziare come le progressioni, i cambiamenti, siano le persiane del loro talento che aprendosi si mostrano senza ombre. Le chitarre, due, perfette, come acrobati del mare, si tuffano nell’aria vuota e sgombra di attriti, per volare sull’acqua di questa modalità incandescente. Se non è la canzone che meglio di tutte mostra che il loro mazzo è fatto di 336 carte, quanti sono i secondi di cui abbisognano per stordirci, allora non so quale altra possa convincervi che Secretary è il fascino del moderno che getta le sue reti per intrappolarci. Che bello sentirsi sconfitti davanti a questa  processione di pennelli intinti nell’olio sacro della perfezione.


Tramadol


Il basso è un terremoto, la tastiera il suo scudiero, la voce la coscienza che si perde nel riverbero, dove tutto graffia di dolcezza, con il falsetto celestiale, sull’elettronica minimalista ma di immenso impatto.

Questa è la struttura di un duo che amplifica la direzione avviata dai Radiohead di inizio anni 90, per personalizzare il mistero verso una teatralità più consapevole, nel fracasso dolce e surreale che siamo costretti a vivere. 

E gli ultimi cinquantadue secondi sono il congedo che non sognavamo nemmeno. E invece…

E invece siamo benedetti da questa sacralità cadenzata che annichilisce.

Quando il genere musicale diventa quello che è per davvero: un qualcosa di inutile davanti alla maestosità di artisti capaci di detronizzare i concetti più errati.


Fires 


Cosa succede?

Un quasi Fado, un quasi infarto consegnato da una chitarra col vestito rosso caldo, ci sorprende, la voce di Ellison diventa ortica triste e beata nel suo camminare, rossa come la chitarra, sulla nostra pelle che cedendo si colora di bianco.

E poi via, tutto accelera, spinge come un animale arrabbiato, il cantato tenuto un po’ lontano per dare spazio all’angelica  orchestrazione di un tessuto in ebollizione. E tutto diventa strazio da indossare per poter correre lontano dal mondo.



Wisdom


Come ultima portata, la nona, ci portano una macedonia: Mazzy Star, The Postal Service, Alt-J, Radiohead, The Doors, Can, in un balletto di riferimenti e suggestioni, nell’impasto lento di comete e detriti, di beat ed elettronica semi nascosti dagli incendi di un piano incantato su poche note, per stabilire il nostro senso di godimento più saggio: ora sappiamo che abbiamo ascoltato un Rito perfetto.

Ed è lode all’orizzonte, ai corpi in attesa di riprendere fiato, alla sensazione che tutto abbia senso proprio nell’atto finale di questa foresta piena di splendida ombre, dove la muffa balla lenta, felicissima.

Ed è il Signore della Saggezza, il basso, a pilotare la melodia e la forza di questa Dea, dalle note esatte, al congedo, certo che tutto diventerà inevitabile e si tornerà subito all’antipasto di When You Know You Know perché la miseria  della nostra ignoranza merita di commettere l’unico peccato giusto: mangiare ancora questa mela che si chiama Parallels…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

1 Marzo 2022


https://open.spotify.com/album/6SLwm8OqURTkEe5VYn1XCB?si=jy-dEE0OTJmSxxwt6BE8hg


https://music.apple.com/gb/album/parallels/1334522196


https://secretaryband.bandcamp.com/album/parallels-2





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