martedì 29 ottobre 2024

La mia Recensione: The Cure - Songs Of A Lost World


 

The Cure - Songs Of A Lost World


“La vita dei morti dura nella memoria dei vivi” - Cicerone



Fa male.


Potrebbe bastare così.


Si entra nel mondo della verità, di ciò che non è possibile negare, dei flussi di coscienza che fanno allibire, frenano, gelano e congelano senza possibilità di replica.

Un tuffo alla mente, altro che al cuore: i Cure tornano, ma solo discograficamente parlando, e il Vecchio Scriba non si riferisce all’attività dal vivo della band quanto piuttosto al significato, all'affetto, all’adorazione e al bisogno di portare tale unicità nel luogo della continuazione inflessibile. Con questo combo non esiste la separazione e la lontananza.

Un album problematico, un esercizio di verità che nulla ha di artistico se non la forma, tuttavia non vi è dubbio che ciò che si ascolta e si legge sembri davvero una deposizione, scritta e suonata, di una arrendevolezza totale davanti all’imminente, come se il trattato della logica umana debba avere una certificazione in questa declinazione.

La sofferenza esplode con classe e tappeti di sensazioni appiccicate al gioco dello scherno, dei vapori, dei loop continui che caratterizzano le otto tracce di SOALW, il numero perfetto perché ingloba anche un minutaggio solo apparentemente non abbondante (quarantanove minuti), dimostrando, invece, il totale disarmo innanzi a questo vulcano, lento ma non lentissimo nella sua schiuma liturgica, che pare alla fine sommergerci tutti, senza pietà. Rimane la consolazione di una penna, quella di Robert Smith, capace di far uscire dolcezza e comprensione, senza però eliminare la sua nuova solitudine, il suo smarrimento e quelle domande che alla fine sono macigni insostenibili per chi, come lui, è dotato di sensibilità.

Claustrofobico e sporco, con i dipinti che cadono, uno dopo l’altro, sull’asfalto delle nostre preoccupazioni, in un abbraccio, forzato, volto a trovare un supporto impossibile.

Il suono, la sua ricerca, la ferma convinzione che Disintegration abbia insegnato che le lunghe introduzioni non siano solo atti preparatori è evidente, ma qui finalmente, diventano attestati di un lavoro che sa come escludere la parola per accentrare le attenzioni, sfiancando, innervosendo chi della pazienza non conosce la preziosità e il valore.

Snerva chi non coglie le infinite sfumature di ingressi e uscite degli strumenti per poter manipolare il tutto solo in un’apparente staticità. Morto e sepolto il lato pop, non rimane che accucciarsi nelle sfumature dell’esistenza, nel mai programmato conteggio degli affetti scomparsi, in uno sguardo al passato che evidenzia i vuoti affettivi: ci portano a questo le parole del leader ma anche la musica, in un impasto algebrico e contiguo all’album del 1989.

L’atto più ribelle di questo quattordicesimo lavoro è la nudità, la concessione dei dubbi, la memoria spalancata come i crateri che esibiscono il vuoto al suo interno (la morte dei genitori, del fratello ecc.) che sono l’avamposto di una identità mutante che ha in sé i postumi di un passato bollente e pieno di ferite (non scordiamoci Pornography ma soprattutto The Top) e che trova l’obbligatorietà dell’arresto, di una visione che esclude la modalità della fanciullezza.

Un disco adulto per gente morente.

Una bordata con tessuti delicati, per non spaventare, per non far accrescere velocemente il dissenso: alla fine la vera protagonista del tutto è la voce di Robert (again and again and again), qui paralizzata ancor prima che paralizzante, in un calvario mnemonico che srotola la pergamena dei ricordi nella sua ugola ancora potente e graffiante, come se la ruggine trovasse, in quelle vibrazioni, il lasciapassare della credibilità.

Sconvolgente, asciutta, girandola acuta e impazzita, questo dono del cielo si è genuflesso dinanzi a una costruzione ritmica perlomeno incline alla lentezza, con due eccezioni, per sollevare il corpo ma non l’umore, relegando l’eventuale danza a una continuazione, solamente diversa, di un accasciarsi in pieno disagio e consapevolezza.

L’album più triste dei Cure?

Sicuramente. Non c’entrano i sistemi operativi bensì l’intensità di un male evidente che non ha possibilità di scioglimento: davanti alla scorza dura della morte non vi è arte in grado di sfidarla.

Diviene inevitabile la presenza di due strumenti in clamoroso eccesso: la tastiera e il pianoforte, dove spesso le campionature ci mostrano fraseggi di musica classica imbottita di modernità. 

Non soltanto Roger ma anche Smith: ecco una compensazione, un laboratorio che vede due anime sofferenti (non scordiamoci il cancro al sangue del tastierista dei Cure) in un pellegrinaggio nordico, per sconfiggere l’idea che la Coldwave sia soltanto una lastra di ghiaccio abile nel farci ballare.

La band decide di ripristinare il momento conclusivo di Sinking per generare un caos camaleontico, colorato con tutte le sfumature del grigio, come punto di contatto con una copertina che già ci fa intendere quanto sia presente nel lavoro questo senso di precipitazione e stabilità che soltanto la pietra sa donare. Un’opera del 1975 che pare essere la chiave di ingresso interpretativo di questo agglomerato di consapevolezze impervie che necessitano della musica, più che delle parole, per conferire al tempo (inteso come ritmo) il senso drammatico della staticità.

Si spiegano in questo modo i riff ripetuti, la brevità della fantasia, la forma canzone ridotta al lumicino, l’intenzione di imbalsamare la fantasia in quanto considerata una nemica inopportuna.

Le composizioni delineano in modo impressionante il raggio d’azione di questi dieci anni in cui tutto si è sviluppato: una tartaruga che dalla capitale inglese è arrivata alle scogliere di Dover, per testimoniare, attraverso la musica, la fallace intenzione dell’eternità.

E su questo argomento il gruppo ha costruito quattro dischi: non si può negare il dna, impossibile soprattutto per chi ha sempre avuto paura della demenza senile.

È in questa caverna concettuale che si individua la necessità di non avere fretta nell’ascoltare la regina, quella voce su cui molti hanno costruito il legame. Qui, anche se si tratta solo della seconda volta nella quarantennale carriera, tutto è stato scritto da Robert Smith e lui per primo ha deciso di effettuare l’operazione che prevede, da parte dell’ascoltatore, la capacità di saper accogliere ciò che accade e non ciò che accadrà: una delle tante lezioni di questo album.

Che trasferisce, partorisce e pone fine a ogni sogno e velleità e che in questo è più devastante di Pornography, perché non necessita del delirio dolorante dell’anima bensì di un’accortezza, devastante e imponente, che si chiama arrendevolezza.

La musica fa arrendere.

Come le parole.

In un parco giochi di Felliniana memoria con il senso gotico di Tim Burton, per una spruzzata di ossigeno tossico mal conservato.

Non c’entra ciò che si vorrebbe sentire, ma quello che si definisce: il funky arriva e sorprende, il rock fa lo stesso nell’unico episodio concessogli, per la purezza di un concept sonoro che nulla ha a che fare con i messaggi: Robert non cerca l’audience, bensì uno specchio muto che urla senza suoni e lui, come un mago delirante e tuttavia lucido, trasforma il tutto in un vocabolario di cui noi siamo costretti a imparare termini che questa volta, pur avendoli sentiti pronunciare tante volte da lui stesso, trovano una forma elastica che scavalca la sicurezza.

Songs Of A Lost World ripresenta le trame di Wish, solo per quell’istante in cui l’amarezza si concede un bicchiere di whiskey, per riprendere i tuoni di un brano che non faticherete a immaginare come invecchiato nel tempo.

Raccoglie anche il desiderio di assottigliare la produzione che da sempre ha cercato di dare vita a composizioni in procinto di morire: tutto diventa alienazione con fiori secchi, con il distributore di idee in riserva perché se si è senza benzina non significa non si ha l’auto…

I Cure sembrano morenti, stanchi, sfiduciati però, più di tutto, emozionati: la base di una gioia perversa per i numerosi fans, che, senza rispetto, si butteranno a cantare questi testi per testimoniare il loro amore. Quell’amore prevede il silenzio, il rispetto, lo studio e l’individuazione di questo spogliarello dell’anima di cui si diceva pocanzi. 

È arte come quella antica, quella che volta le spalle, che non ascolta, che offre la schiena poiché non interessata al confronto, in una micidiale forma di rifiuto del rifiuto, senza bisogno di affondare gli artigli nel nichilismo centrico.

Ci si ritrova con suoni molto affini agli anni Novanta (in un brano Never Enough sembra risorta e quasi felice di graffiare ancora…), ma con la certezza che sia un gioco perverso volto a  storicizzare quell’epoca in quanto vi erano ancora anime presenti e determinanti.

Un lavoro somigliante a un pallottoliere che spara missili, lenti, sudati, mai tentennanti: lo potrete adorare così come detestarlo come farebbero le persone con la puzza sotto il naso, ciò nonostante non potrete negare la fatica e l’immersione nei circuiti dove la luce della vita si trova a inchinarsi davanti a quella della morte. Nello stesso cielo accadono cataclismi, che in questo album vengono messi in campo nella partita dello sconforto.

Piange la musica, la voce, l’anima, in questo vagabondaggio che offre un aspetto traumatico per quanto incline alla concessione, al ristoro che non consola e che regala qualche anno in più da vivere.

I testi sono maniglie, sentieri, racconti (anche intimi), come perlustrazioni che non hanno il lato giusto per essere giudicati: la  capacità di Smith di flirtare con una bellezza incandescente ma irraggiungibile è rimasta e forse è addirittura più voluminosa.

E poi lui, il drumming, vigna dai contenuti poderosi, che per una volta non fa rimpiangere quello di Boris Williams: accade quasi sicuramente perché vi sono dei punti di contatto e, prima di tutto, una libertà artistica mai ricevuta prima.

 I giochi ritmici sono ali metalliche: è la prima volta, da quando Jason Cooper è entrato nella formazione, che l’attenzione si incentra sui suoni,  doverosamente cupi e pieni di artrite, per meglio configurare l’invecchiamento del soggetto, della concessione segreta di un uomo e del suo gruppo qui più che mai coesi nell’eliminare i dubbi.

E le verità mostrate parrebbero facilitare il paragone, appunto, con Disintegration.

Non per il Vecchio Scriba.

Quell’episodio, ingiustamente considerato un capolavoro, presentava l’esistenza forzata di canzoni diverse tra di loro, e comprendeva (sicuramente) un blocco unito, ma era evidente che vi era dell’uva buona e altra meno.

Si era in presenza di riempitivi e di diversivi, di singoli fatti per scalare le classifiche.

Che c’entra Alone con quell’album? Un singolo che, anche se ricorda nella modalità momenti di quel disco, è una canzone che affligge, urta, impressiona, decolora l'umore, gonfia l’aria di tossine multiple. Solo i Cure, in questo viaggio nella completa maturità, possono permettersi un'operazione simile, come indiani dalle frecce ancora piene di vigore, al rallentatore…

Si celebra l’infinito della vita eterna, lo smarrimento della presenza in attesa di spegnimento e la musica pare un rosario moderno, con guitti, pergamene e pezzi di calce che cadono sulla epicità di un lavoro che per bravura e validità può convivere con la band che con The Top ha reso il suo percorso artistico finito dal punto di vista della sincerità in cerca di manutenzione. Le produzioni successive mostravano forza e una straordinaria programmazione, facendo morire l’istinto e il trambusto impellente.

Che qui trovate, rallentati ma vivi. 

La presenza della musica classica camuffata diviene intrigo e castigo, gioco e ubbidienza, in un contrasto evidente che fa cadere il sogno, il vero protagonista dell’album.

Si palesa nella sua ostruzione, negazione, nel modo felino di versi che non lo menzionano ma che ne fanno sentire la fragranza, con il risultato di far divenire le lacrime di Robert Smith il palcoscenico dove le parole trovano luce e apoteosi. Diventano i momenti in cui il cantante decide di immergerle nel vaso dilatatore di ricordi e di storie nelle quali non esistono più i respiri di chi si è amato (il riferimento al fratello è davvero calzante, oltre che la radice quadrata di un dolore non ancora in fase di constatazione amichevole), per poter usare un violino (spesso campionato) su cui disegnare la debolezza e consegnarla.

E poi una cosa meravigliosa accade, elegantemente, di nascosto, come un suicidio in diretta: la concessione pubblica di un patto con la paura che, partendo dal bisogno di ripetere lo stesso giro armonico, giunge sino a parole che adoperano la stessa modalità. Si conferma, si sgretola la fantasia e si offre il limite, anche quello dell’arte.

Un altro aspetto è la scaletta: divisa per colori, per umori e bagliori, per dare modo agli otto episodi di giocare da soli come pipistrelli in volo obbligatorio, con le corsie delle grotte che non permettono di virare, perché l’album si può ascoltare solo seguendo questo ordine per avere l’illusione di gestirlo, di capirlo e ancora peggio di possederne il senso.

Ma…

Inutile: SOALW è un labirinto che arretra, non permette di correre, di cercare spiragli, come una sedia elettrica si stabilisce nel cranio prima che nel corpo e allora, sì, fa davvero molto male.

Un’opera che sicuramente mostra alcuni limiti ma che vive di una grande sincerità. E per questo motivo non si può che applaudire…



Song by Song


1 - Alone


Una dolce piuma, sotto forma di abbraccio, apre le ali per chiuderci nel suo intimo sorriso: l’apertura è un flusso di musica classica con il trucco adatto a un'occasione speciale, che è quella di fornirci le prime indicazioni di cosa accadrà. Minimalista, con il suo incedere che raccoglie a mano a mano mirtilli di suono, il brano ci riconduce al climax di Wish con la lentezza che ipnotizza e seduce.

Poi arriva la voce ed è gioia, mentre le note di una mente lucida si sciolgono nella gola che ancora una volta sa come rendere il suono una foresta in attesa del pianto… 





2 - And Nothing Is Forever


Aumenta la gittata dell’armonia musicale, con una miscela malinconica data da archi e pianoforte, come un anticipo accattivante di una quasi esplosione, una crescita che ci fa vibrare, nel puro stile Cure: l’unicità di questa band ha molteplici verità e la canzone ce ne mostra una, attraverso un’affermazione che rivela l’antica paura dell’abbandono, ed è proprio in quel contesto che la musica si fa ottocentesca con i transistor, per meglio legare l’ampiezza di questo percorso…



3 - A Fragile Thing


Un momento di leggerezza, un quasi incontro con la spirale pop: attenzione, è un bluff in quanto tutto pesa anche se la melodia e la voce sembrano parenti stretti di un raggio solare. Basta il ritornello per capire come l’essere sornioni permetta alla band di giocare, laddove invece il testo sfianca e logora: e pensare che ci sarà chi lo prenderà per il pezzo più soft di questo lavoro. Apparentemente parrebbe di ascoltare uno scarto, riveduto e corretto, di una parte di Wendy Time, con in aggiunta fiori e petali crudeli, mentre le note fanno smorfie scherzose…



4 - Warsong


L’impegno sociale del testo permette alla canzone di essere vibrante, connessa alla realtà, con grande energia e probabilmente una delle più belle della band degli ultimi trent’anni. Nel suo mistero i muscoli rivelano l’antico versante rock, con l’odio delle liriche che rende rovente, ma con classe, l’intero ascolto.


5 - Drone:Nodrone


Il funky di Kiss Me Kiss Me Kiss Me torna, con in più la vibrazione sonora di Never Enough: quando i watt tendono le braccia, l’impatto diventa una forza e l’ascolto un momento di estasi, zuppo di nuvole in caduta libera…



6 - I Can Never Say Goodbye


Il fragore di The Same Deep Water As You apriva le sue piogge malinconiche. E torna in questo nuovo episodio: non esiste armistizio e pace nel dolore per la perdita di un fratello e il brano conferma l’incredibile capacità di Robert Smith di scrivere testi che inquadrano il lutto, lo smarrimento e il rimpianto. Così come la musica, una carezza su una sedia a dondolo che pare riuscire a mettere in scena anche quello che erano i Cure più di trent’anni fa: davvero toccante…



7 - All I Ever Am


Simon Gallup torna a spingere, a lanciare la band ed è ipnosi ad alti ritmi, con chitarre piene di ruggine e l'ammaliante voce in tono baritonale che stupisce e rende il tutto una scossa tellurica notevole. Rimangono impresse nell’ascolto la sensazione di positività delle chitarre, mentre le parole affrontano (come solo Smith sa fare a questi livelli) la tensione per la paura della morte, con il tempo che si assottiglia sempre di più. L’ultimo momento dell’album in cui si hanno ancora delle difese… 



8 - Endsong


Qui crolla tutto: un apparato polifonico, previo un lungo atto di minuscole variazioni, rende quasi impossibile sostenere l’introduzione, perché la drammaticità che si sente già paralizza. E quando arriva la voce di Robert Smith tutto diventa temporale, con le note che portano via il cielo in uno dei brani più toccanti di sempre della band inglese. Il caos trova un covo e si srotola, per poi raggomitolarsi nuovamente non in un gioco ma in una obbligatoria modalità riassuntiva. Ed è così che le lacrime scivolano con l’ascolto, mentre pare presentare una canzone che avrebbe potuto sostituirne diverse di Disintegration. Torna la morte, per rendere epica e sacra la tensione, con i confini della sicurezza che abbandonano i respiri. Epico, fragoroso, con cimbali e chitarre incatramate, questo delirio di tensioni trova il suo emissario che rende davvero amara la consapevolezza della velocità con la quale la vita ci abbandona, facendolo, per contrapposizione, con una semi-ballad.

Alone e Endsong sono i confini di questo ritorno, fratelli siamesi di una fede incrollabile: quella di un cammino consapevole mentre è tempo di andare a dormire…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Ottobre 2024

My Review: The Cure - Songs Of A Lost World


 The Cure - Songs Of A Lost World


‘The life of the dead endures in the memory of the living’ - Cicero



It hurts.


That might be enough.


One enters the world of truth, of what cannot be denied, of streams of consciousness that daze, freeze and freeze without the possibility of reply.

A plunge to the mind, rather than the heart: The Cure are back, but only discographically speaking, and Old Scribe does not refer to the band's live activity so much as to the meaning, affection, adoration and need to bring that uniqueness to the place of unyielding continuity. With this combo, there is no such thing as separation and distance.

A problematic album, an exercise in truth that has nothing artistic about it but the form, yet there is no doubt that what one hears and reads really does sound like a deposition, written and played, of total surrender before the imminent, as if the treatise of human logic should be certified in this downdrift.

Suffering explodes with class and carpets of sensations stuck to the game of mockery, vapours, and continuous loops that characterise the eight tracks of SOALW, the perfect number because it also encompasses a minute length that is only apparently not abundant (forty-nine minutes), demonstrating, instead, total disarmament before this volcano, slow but not very slow in its liturgical foam, which seems to eventually submerge us all, without mercy.


What remains is the consolation of a pen, that of Robert Smith, capable of bringing out sweetness and understanding, without, however, eliminating his new loneliness, his bewilderment and those questions that in the end are unbearable boulders for those who, like him, are endowed with sensitivity.

Claustrophobic and dirty, with the paintings falling, one after the other, on the asphalt of our worries, in an embrace, forced, aimed at finding an impossible support.

The sound, its research, the firm conviction that Disintegration has taught us that long introductions are not just preparatory acts is evident, but here at last, they become attestations of a work that knows how to exclude the word in order to centralise attention, exhausting, unnerving those who do not know the preciousness and value of patience.

It enervates those who do not grasp the infinite nuances of the inputs and outputs of the instruments in order to manipulate everything only in an apparent static manner. With the pop side dead and buried, all that remains is to crouch down in the nuances of existence, in the never planned counting of lost affections, in a glance at the past that highlights emotional voids: this is what the leader's words, but also the music, lead us to, in an algebraic and contiguous impasto of the 1989 album.


The most rebellious act of this fourteenth work is the nakedness, the concession of doubts, the gaping memory like the craters that exhibit the emptiness within (the death of parents, brother, etc.) that are the outpost of a mutant identity that has within it the after-effects of a boiling past full of wounds (let us not forget Pornography but above all The Top) and that finds the compulsory stopping, of a vision that excludes the mode of childhood.

An adult record for dying people.

A broadside with delicate fabrics, so as not to frighten, so as not to quickly increase dissent: in the end, the real protagonist of the whole is Robert's voice (again and again and again), here paralysed even before being paralysing, in a mnemonic ordeal that unrolls the parchment of memories in his still powerful and scratchy uvula, as if the rust found, in those vibrations, the pass of credibility.


Overwhelming, dry, high-pitched and maddening, this gift from heaven genuflected before a rhythmic construction at least inclined to slowness, with two exceptions, to lift the body but not the mood, relegating the eventual dance to a continuation, only different, of a slump in full discomfort and awareness.

The Cure's saddest album?

Definitely. It has nothing to do with operating systems, but rather with the intensity of an evident evil that has no possibility of dissolution: in front of the hard shell of death, there is no art capable of challenging it.

The presence of two instruments in clamorous excess becomes inevitable: the keyboard and the piano, where often the samplings show us phrasings of classical music stuffed with modernity. 

Not only Roger, but also Smith: here is a compensation, a laboratory that sees two suffering souls (let's not forget the Cure keyboardist's blood cancer) on a Nordic pilgrimage, to defeat the idea that Coldwave is only a sheet of ice capable of making us dance.

The band decides to restore the final moment of Sinking to generate a chameleon-like chaos, coloured with all shades of grey, as a point of contact with a cover that already makes us realise how present in the work is this sense of precipitation and stability that only stone can give. 


A 1975 work that seems to be the interpretive key to this agglomeration of impervious consciousnesses that need music, more than words, to give time (understood as rhythm) the dramatic sense of staticity.

This explains the repetitive riffs, the brevity of the fantasy, the song form reduced to the bare minimum, the intention to embalm the fantasy as an inappropriate enemy.

The compositions impressively delineate the range of these ten years in which everything has unfolded: a tortoise that has come from the English capital to the cliffs of Dover, to bear witness, through music, to the fallacious intention of eternity.

And on this topic the band has built four records: you cannot deny DNA, which is impossible, especially for those who have always been afraid of senile dementia.

It is in this conceptual cavern that one identifies the necessity of not being in a hurry to listen to the queen, that voice on which many have built a bond. Here, even though it is only the second time in his 40-year career, everything was written by Robert Smith and he was the first to decide to perform the operation that requires the listener to be able to take in what is happening and not what will happen: one of the many lessons of this album.


This transfers, gives birth to and puts an end to every dream and ambition, and in this it is more devastating than Pornography, because it does not require the soul's aching delirium, but rather a devastating and imposing shrewdness called surrender.

Music makes one surrender.

Like words.

In a Fellini-esque playground with the gothic sense of Tim Burton, for a splash of poorly preserved toxic oxygen.

It has nothing to do with what you would like to hear, but with what you define: funky comes in and surprises, rock does the same in the only episode granted to it, for the purity of a sound concept that has nothing to do with messages: Robert is not looking for an audience, but rather for a mute mirror that screams without sound, and he, like a delirious yet lucid magician, transforms it all into a vocabulary from which we are forced to learn terms that this time, despite having heard them pronounced so many times by himself, find an elastic form that overrides security.

Songs Of A Lost World re-presents the textures of Wish, only for that instant in which bitterness indulges in a glass of whiskey, to resume the thunder of a song that you will not struggle to imagine as aged in time.


It also gathers the desire to thin the production that has always tried to give life to dying compositions: everything becomes alienation with dried flowers, with the distributor of ideas in reserve because if you're out of petrol it doesn't mean you don't have a car...

The Cure seem to be dying, tired, challenged but, more than anything, excited: the basis of a perverse joy for the many fans, who, without respect, will throw themselves into singing these lyrics to testify their love. That love involves silence, respect, study and the identification of this stripping of the soul mentioned above. 

It is art like the ancient art, the art that turns its back, that does not listen, that offers its back because it is not interested in confrontation, in a deadly form of rejection of rejection, with no need to sink its claws into centred nihilism.

One finds oneself with sounds very akin to the 1990s (in one track Never Enough seems resurrected and almost happy to be scratching again...), but with the certainty that it is a perverse game aimed at historicising that era in that there were still souls present and decisive.

A work resembling an abacus that shoots missiles, slow, sweaty, never wavering: you can adore it as well as detest it as people with a stench under their noses would do, nevertheless you cannot deny the fatigue and the immersion in the circuits where the light of life finds itself bowing before that of death.

In the same sky cataclysms happen, which in this album are played out in the game of despondency.

It weeps the music, the voice, the soul, in this wandering that offers a traumatic aspect however prone to concession, to refreshment that does not console and gives a few more years to live.

The lyrics are handles, paths, tales (even intimate ones), like scours that do not have the right side to be judged: Smith's ability to flirt with an incandescent but unattainable beauty has remained and is perhaps even more voluminous.


And then him, the drumming, a vine of powerful content, which for once does not make one regret that of Boris Williams: it almost certainly happens because there are points of contact and, first and foremost, an artistic freedom never received before.

 The rhythmic games are metallic wings: it is the first time since Jason Cooper joined the line-up that the focus is on the sounds, dutifully dark and full of arthritis, to better configure the ageing of the subject, of the secret concession of a man and his group here more cohesive than ever in eliminating doubts.

And the truths shown would seem to facilitate comparison, precisely, with Disintegration.

Not for the Old Scribe.

That episode, unjustly considered a masterpiece, presented the forced existence of different songs, and comprised (certainly) a united block, but it was evident that there were good grapes and less.

There were fillers and diversions, singles made to climb the charts.


What does Alone have to do with that album? A single that, although reminiscent in the mode of moments from that record, is a song that afflicts, impresses, discolours the mood, swells the air with multiple toxins. Only the Cure, on this journey into complete maturity, can afford such an operation, like Indians with arrows still full of vigour, in slow motion...

The infinity of eternal life is celebrated, the bewilderment of presence waiting to extinguish, and the music sounds like a modern rosary, with unhinged impulses , parchments and lime pieces falling on the epicness of a work that for bravura and validity can live with the band that with The Top made its artistic journey finished from the point of view of sincerity in search of maintenance. Subsequent productions showed strength and extraordinary planning, making instinct and impelling hustle and bustle die away.

Which you find here, slowed down but alive. 

The presence of camouflaged classical music becomes intrigue and chastisement, playfulness and obedience, in an obvious contrast that brings down the dream, the real protagonist of the album.

It is revealed in its obstruction, negation, in the feline manner of verses that do not mention it but make its fragrance felt, resulting in Robert Smith's tears becoming the stage where words find light and apotheosis. 

They become the moments when the singer decides to immerse them in the dilating vase of memories and stories in which the breaths of those one has loved no longer exist (the reference to the brother is truly fitting, as well as the square root of a pain that is not yet in the process of being amicably ascertained), in order to use a (often sampled) violin on which to draw weakness and deliver it.

And then a marvellous thing happens, elegantly, covertly, like a live suicide: the public concession of a pact with fear that, starting from the need to repeat the same harmonic turn, comes down to words that use the same modality. It confirms, crumbles the fantasy and offers the limit, even that of art.

Another aspect is the set list: divided by colours, by moods and flashes, to give the eight episodes the chance to play on their own like bats in compulsory flight, with the lanes of the caves not allowing them to veer, because the album can only be listened to by following this order in order to have the illusion of managing it, of understanding it and even worse of possessing its meaning.

But...

Useless: SOALW is a labyrinth that retreats, it does not allow you to run, to look for loopholes, like an electric chair settles in the skull before the body and then, yes, it really hurts.

A work that certainly shows some limitations, but which lives on a great sincerity. And for that one can only applaud....


Song by Song


1 - Alone


A sweet feather, in the form of a hug, opens its wings to enclose us in its intimate smile: the opening is a flow of classical music with the make-up suitable for a special occasion, which is to give us the first indications of what will happen. Minimalist, with its pace that gradually collects blueberries of sound, the song takes us back to the climax of Wish with the slowness that hypnotizes and seduces.

Then comes the voice and it's joy, while the notes of a lucid mind melt in the throat that once again knows how to make the sound a forest waiting for the cry...


2 - And Nothing Is Forever


The range of musical harmony increases, with a melancholic mix given by strings and piano, like a captivating anticipation of an almost explosion, a growth that makes us vibrate, in pure Cure style: the uniqueness of this band has multiple truths and the song shows us one, through a statement that reveals the ancient fear of abandonment, and it is precisely in that context that the music becomes nineteenth-century with transistors, to better connect the breadth of this path...


3 - A Fragile Thing


A moment of lightness, an almost encounter with the pop spiral: be careful, it's a bluff as everything weighs even if the melody and the voice seem close relatives of a sunbeam. The chorus is enough to understand how being sly allows the band to play, where instead the text exhausts and wears out: and to think that there will be those who will take it for the softest piece of this work. Apparently it seems to listen to a scrap, revised and corrected, of a part of Wendy Time, with the addition of flowers and cruel petals, while the notes make playful grimaces...


4 - Warsong


The social commitment of the lyrics allows the song to be vibrant, connected to reality, with great energy and probably one of the most beautiful of the band of the last thirty years. In its mystery the muscles reveal the ancient rock side, with the hatred of the lyrics that makes the entire listening scorching, but with class.


5 - Drone:Nodrone


The funky of Kiss Me Kiss Me Kiss Me returns, with the added sound vibration of Never Enough: when the watts stretch their arms, the impact becomes a force and the listening a moment of ecstasy, soaked in free-falling clouds…


6 - I Can Never Say Goodbye


The roar of The Same Deep Water As You opened its melancholic rains. And it returns in this new episode: there is no armistice and peace in the pain for the loss of a brother and the song confirms Robert Smith's incredible ability to write lyrics that frame mourning, confusion and regret. Just like the music, a caress on a rocking chair that seems to be able to stage what the Cure were like more than thirty years ago: truly touching…


7 - All I Ever Am


Simon Gallup returns to push, to launch the band and it is hypnosis at high rhythms, with guitars full of rust and the bewitching voice in a baritone tone that amazes and makes everything a remarkable earthquake. The feeling of positivity of the guitars remains imprinted in the listening, while the words face (as only Smith can do at these levels) the tension for the fear of death, with time that is thinning out more and more. The last moment of the album in which you still have some defenses ...


8 - Endsong


Here everything collapses: a polyphonic apparatus, following a long act of tiny variations, makes it almost impossible to sustain the introduction, because the drama that can already be felt paralyzes. And when Robert Smith's voice arrives, everything becomes temporal, with the notes that take away the sky in one of the most touching songs ever released by the English band. Chaos finds a lair and unrolls, to then curl up again not in a game but in an obligatory summary mode. And that's how tears flow with listening, while it seems to present a song that could have replaced several of Disintegration. Death returns, to make the tension epic and sacred, with the boundaries of safety abandoning the breaths. Epic, thunderous, with cymbals and tarred guitars, this delirium of tensions finds its emissary that makes the awareness of the speed with which life abandons us truly bitter, doing so, by contrast, with a semi-ballad.

Alone and Endsong are the boundaries of this return, Siamese brothers of an unshakable faith: that of a conscious journey while it is time to go to sleep…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30th October 2024