venerdì 8 dicembre 2023

La mia Recensione: The Churchhill Garden - Dreamless



The Churchhill Garden - Dreamless



Anche gli angeli chiedono aiuto, vuotano il sacco, tendono la mano, si afferrano al non so pur di ritrovare la luce. E se a farlo sono due artisti sempre in stato di grazia, che mai ci farebbero pensare a un momento di difficoltà, ecco consegnata una notizia sorprendente: accade tutto nelle note di questa canzone con il pigiama, una meteora lenta che cerca il rientro nell’atmosfera celeste, nella vita, nella condizione terrena. Sono pensieri che scivolano tra le mani di Andy Jossi, sempre più concentrato ad attraversare gli spazi con le sue atmosfere delicate ma piene di tensioni, rese ubbidienti dal suo inconfutabile talento. E nelle parole e nella voce di Krissy Vanderwoude, qui più che mai una fata dalla faccia triste, raccolta nella sua nuvola, alla ricerca del raggio giusto. Brano strepitoso, un concentrato del marchio di fabbrica del duo svizzero-americano, capace di rivelare come la vera amicizia diventi l’ambiente per una scrittura complice, aderente alla realtà, lasciando il tutto al destino destino di questi quasi sei minuti, nei quali ciò che accade è un grido addomesticato da chitarre in modalità alternative prima, dream pop poi, e infine shoegaze, per circolare nella palude di un testo che sembra privo di ossigeno e che viene interpretato dalla cantante di Chicago con un trasporto che non rinuncia alla delicatezza, ma che questa volta comprende gocce di amare lacrime. Senza sogni si potrebbe precipitare, musicalmente parlando, in un putiferio sonoro, nella rabbia, o smettere proprio di suonare. Invece…
Invece ascoltiamo sussurri che accolgono momenti specifici degli ultimi trent’anni, raccolti come ispirazione da Andy che poi, nella sua camera piena di artifizi splendenti, cuce sul manico della sua chitarra un disegno melodico che ancora una volta ha il suo stile, riconoscibilissimo. Dal canto suo Krissy lavora come sempre con il gioco delle doppie voci, con il suo angelico respiro che questa volta ha gli occhi bassi ma potenti, con la scorza doverosa che fuoriesce per portare a compimento il suo bisogno: ritrovare i sogni e farli camminare nel suo cuore. Sia la musica che il testo visitano, con classe e leggerezza, l’inferno: nel groviglio di note colme di liquidi in salita verso il cielo, le parole scendono in un'indagine che trova la verità.
La drum machine apre la danza lenta, poi sono le chitarre che si fanno accompagnare da una delicata tastiera e, sempre delicatamente, si arriva al ritornello che scuote con la sua leggerezza, come se fosse una goccia di brina di fronte all’ingresso del dolore. Appena finito, Andy entra dritto come un fuso in un arpeggio straziante e la voce ritorna, per compattare questa poesia invernale nel centro dei nostri ascolti.
Si piange abbracciando questa coppia di artisti e si esce sudati ma convinti che a volte l’arte compia dei miracoli: ci ritroviamo tutti insieme a brindare a questa sincera canzone, umile e che farà del nostro ascolto una benedizione celeste…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8 Dicembre 2023






My Review: The Churchhill Garden - Dreamless


 The Churchhill Garden - Dreamless


Even angels ask for help, they spill the beans, they reach out their hand, they grasp at the don't-know-what in order to find the light again. And if to do so are two artists always in a state of grace, who would never make us think of a moment of trouble, here we receive a surprising news: it all happens in the notes of this song with pyjamas, a slow meteor seeking re-entry into the heavenly atmosphere, into life, into the earthly condition. These are thoughts slipping through the hands of Andy Jossi, increasingly focused on traversing the spaces with his delicate but tension-filled atmospheres, made obedient by his irrefutable talent. And in the words and voice of Krissy Vanderwoude, here more than ever a sad-faced fairy, gathered in her cloud, searching for the right ray. Stunning track, a concentrate of the Swiss-American duo's trademark, capable of revealing how true friendship becomes the environment for a complicit writing, adherent to reality, leaving it all to the doom of these almost six minutes, in which what happens is a cry tamed by guitars in alternative mode first, dream pop then, and finally shoegaze, to circulate in the swamp of a text that seems to be devoid of oxygen and that is interpreted by the Chicago singer with a transport that does not give up delicacy, but that this time includes drops of bitter tears. Without dreams one could plunge, musically speaking, into a sonic ruckus, anger, or stop playing at all. Instead.
Instead we listen to whispers that take in specific moments of the last thirty years, collected as inspiration by Andy who then, in his room full of shining artifices, sews on the neck of his guitar a melodic pattern that once again has his own style, highly recognizable. For her part, Krissy works as always with the play of double voices, with her angelic breath that this time has low but powerful eyes, with the dutiful zest that comes out to bring to fruition her need: to find dreams and make them walk in her heart. Both music and lyrics visit, with class and lightness, hell: in the tangle of liquid-filled notes ascending to heaven, the words descend in an inquiry that finds truth. The drum machine opens the slow dance, then it is the guitars that are accompanied by a delicate keyboard and, ever so gently, we come to the refrain that shakes with its lightness, as if it were a drop of frost in front of the entrance of pain. As soon as it is over, Andy enters straight as a spindle into a heartbreaking arpeggio and the voice returns, to compact this winter poem into the centre of our listening.
We weep as we embrace this pair of artists and leave sweaty but convinced that sometimes art performs miracles.We all come together to toast this sincere, humble song that will make our listening a heavenly blessing...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8th December 2023

martedì 5 dicembre 2023

La mia Recensione: Melga - Figli


 

Melga - Figli


Non è ancora venuto il momento di veder scomparire le storie dei rapporti umani, per quanto intossicati, imprigionati e pesanti, perché esiste chi sa vederle, inventarle, raccontarle con classe, precisione e una intimità che corrisponde a un grande rispetto.

Viene da Taranto, da una Puglia meravigliosamente impegnata a lasciare i suoi figli liberi di dare alle creazioni artistiche un senso, un luogo, una innegabile capacità di affascinare e conquistare, dolcemente.

Gaia Costantini, in arte Melga, è una figlia sensibile che compone musiche come se una foglia oscurasse il male e restituisse raggi tiepidi, per scaldare il cuore. Il suo nuovo lavoro è un EP che profuma di sogni, di intenzioni responsabili, della maestria di utilizzare generi che, partendo da uno spirito World, entra nell’entroterra pugliese con abilità, convincendo per via di schemi che riescono a rendere credibili testi scritti davvero con notevole capacità, con il canto che sembra il respiro di una fata in attesa sui bordi di nuvole bianche. Gli archi arrangiati dall’instancabile Marco Schnabl (nonché il produttore, eccelso, dell’intero lavoro) si uniscono al piano e alla fisarmonica di Melga, consegnando agli altri strumenti la completezza di una impalcatura forte e resistente. I ritmi variano, le melodie vengono corteggiate da invenzioni che, nello specifico, fanno divenire cinematografico il tutto, provocando stupore e sorrisi liberi di camminare nella strada delle fantasie più pure. Sono storie che hanno modo di far scorgere il baricentro del bisogno primario, quello dell’amore che parte, raggiunge, disperde, il tutto con il timbro di incontri significativi, decisivi, incontrastabili. Gaia soffia le parole come incantesimi nel tempo in cui la maggior parte dei figli non crede più in essi: si oppone, dolcemente, con grande dilatazione, per consegnare verità e realtà che abbisognano di essere mostrate. E senti tutto questo nei rintocchi di un piano che suona moderno, aggraziato da una vicenda lontana che esprime timidi sussurri, in quanto l’artista Tarantina è ben conscia di quanta non sopportazione esista nei confronti della musica classica e di quella considerata ormai sorpassata e vecchia. Disegna un armistizio, poi un compromesso, per vincere come un'apoteosi ristoratrice che veicola sollievo e riflessione. L’opera commuove, tocca le corde ormai stonate di una esistenza che non riconosce la forza positiva delle relazioni, di quei legami ai quali ci si dovrebbe rapportare con rispetto. Canta come un sogno disposto a scendere nella quotidianità, perché proprio da quella lei fa volare le sue perlustrazioni, indagini concrete e poetiche, inclini alla saggezza. 

Invita, dona, spartisce i suoi averi, ascolta, dialoga con i segni del tempo: Melga abbraccia i lati opposti, dal paradiso all’inferno, seminando la bellezza che mette a disagio solo chi ha il cuore gelido. Ma è proprio la provenienza (quella regione che ospita il calore e la voglia di vivere malgrado grandi disagi) a divenire il primo fattore vincente di cinque gazzelle che corrono nella prateria dei rapporti lasciando, ognuna di loro, una rosa blu nel centro di ogni sogno…


Figli è uno specchio di luce, la porta di un respiro profondo, la libertà cosciente che deve stabilizzarsi negli orizzonti, per raggiungere una salvezza possibile. Musicalmente è una semi-ballad, ariosa, colma di oscillazioni dolci per arrivare a una tenue esplosione minima, incantevole e seduttiva…


Teresa è un dialogo, una carta d’identità mostrata alla vita, con grande semplicità e una modestia umana davvero ragguardevole, con un piano prima tetro e poi divertente, quasi swing, in un'atmosfera che è un velluto in volo in una giornata autunnale. Quasi cabarettistica, piena di incursioni da parte di note e accordi per generare una dolce ipnosi, la canzone conquista per la sua leggerezza all’interno di scrosci temporali resi ubbidienti dalla confidenza di una splendida figlia nata nel 1953…


Qui ed Ora: il ritmo parrebbe sempre pronto a scattare, invece si vive una suspense tiepida, capace di splendide pause, con gli archi a conquistare fazzoletti pieni di lacrime, in una Torino sorvolata da due farfalle che entrano nel pentagramma per disegnare una traiettoria poetica, dalla pelle accarezzata da una struttura solitamente vicina alla musica classica italiana di fine Ottocento. E la fisarmonica inventa frammenti francesi per un crescendo con il guinzaglio: semplicemente, clamorosamente meravigliosa…


Con Cara Margherita, ci avviciniamo ai territori preferiti da Tom Waits negli Stati Uniti e da Davide Van De Sfroos e Vinicio Capossela in Italia. La vita fuma tra le dita, oppure vive nei tasti di un pianoforte, ma in ogni caso porta con sé un ritmo quasi sudamericano, con i lampioni francesi a inquadrare la scena. Ed è la pazzia che vince, fuggendo, rintanandosi in questi versi seducenti e pieni di saggezza.


Il brano che chiude quest’opera è un clamoroso capolavoro, nessuna difficoltà da parte del Vecchio Scriba ad affermarlo: Francesca è un battito d’ali di una poesia crudele che muta la sua pelle e la fa divenire un lenzuolo di lino per accerchiare il dolore. Una lunga proiezione nel salone in penombra di ogni paura permette alla musica di essere cinematografica, maestosa, attraversando modalità diverse, una lunga apnea che, tramite trame fitte di tristezza imbevute di speranza, si tuffa nel testo che rivela forze multiple, per assestare alla sofferenza un duro colpo. Si ritorna nella prateria, si incontrano caratteri possenti come quelli dei lupi, per poi valutare le perdite e le conquiste che vengono tradotte da una musica saggiamente straziante ma con le finestre aperte…


Un lavoro che dovrebbe conoscere l’espansione massiccia nel cielo dei vostri ascolti: complimenti davvero Gaia!



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Dicembre 2023


https://open.spotify.com/album/1CkWdOGM0QaHiukbRDIc0Z?si=oeBNEKsrTMaQfXZwaxaeyg

sabato 2 dicembre 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester


Una bolla può riempirsi di emozioni volute, improvvise, e poi anche sospendere il respiro, vagabondare nello stupore? Se partecipi all’evento musicale dell’anno certamente sì, ed è esattamente ciò che è accaduto nell’elegante Canvas di Manchester, dove sul palco si è assistito a un miracolo generoso: l’unione di modalità, ruoli e approcci diversi alla musica, per un risultato che fa, questa volta, dello shock un beneficio multiplo. L’ipnosi ha toccato le spalle di ognuno dei partecipanti, tranne che di quelle poche persone che hanno preferito chiacchierare, pagando, finendo per disturbare pure Aaron. Ma è innegabile che il risultato sia penetrato negli animi sensibili e votati all’attenzione. Le canzoni scelte dai fan ed elaborate da Joe Duddell in pochissimo tempo hanno modificato l’interpretazione nei confronti di quelle originali: tutto si è trasferito su un altro piano emotivo e sensoriale, con la piacevole sensazione di una nascita notturna dentro i cuori. Struggevolezza, malinconia, tristezza, che sono spesso l’habitat naturale di queste composizioni, hanno spiccato il volo fasciate da un foulard di lino, per poter arrivare, indenni, all’interno dei raggi lunari. Pazzia, tremore, tensione ma mai senso di perdita hanno governato i sedici flussi pieni di magia per ritrovarsi in un’entrata diversa: una catapulta infinita di brividi ha stabilito che questa esperienza potesse creare con la memoria uno strumento infinito colmo di forza e vitalità. I cambiamenti, i ritocchi, la verve di un direttore davvero capace di intuire prima e di portare poi il tutto in uno status intoccabile fa di questa serata la rappresentazione di unioni che sono parti naturali, e di cui si può solo sperare in una continua proliferazione. 

Gli archi, come già avvenne nel 2017, spingono sia verso l’addome che verso la volta celeste consapevolezze nuove, diramando nei sentieri dei pensieri nuovi luccichii. E si è fragili, avvolti da segreti interpretativi che esaltano l’individualità, mentre a pochi centimetri dalla propria persona altre sembrano essere riempite di scuotimenti simili. Su un piccolo palco undici persone hanno avuto la capacità di avvicinare il pop alla musica classica, di annullare eventuali distanze per esaltare il calore, il colore delle note e sintonizzare la passione all’interno di un circuito visitato densamente, e non per caso. La voce di Aaron, molto più attenta rispetto alla settimana scorsa, ha graffiato, fatto conoscere tumulti, spaccando vene e vertebre grazie a una intensità micidiale: come se si fosse accovacciato nella propria intimità e avesse deciso di lasciarla cadere nel microfono. Accordato ai toni grevi di sette musicisti perennemente in uno stato di grazia, di serietà, e pure di responsabilità, il frontman ha fatto scivolare la sua ugola sul tappeto di vibrazioni talmente appiccicate tra loro da far nascere un unico groppo in gola per tutta la durata del concerto. Il via libera al pianto, allo struggimento è stato semplicemente impressionante e devastante: tutte le parole che conoscevamo già a memoria, e che forse avevamo la presunzione di aver capito, questa sera sono state in grado di insegnarci nuovi elementi, sbattendoci per terra, nel caos, nella gioia, nell’abbraccio tra il bianco e il nero di un cielo stellato all’interno del Canvas. Il drumming questa sera, grazie a lunghe pause, ha messo in mostra un'efficacia notevole, perfetta, esaltando anche il basso, per un insieme che ha reso illuminante l’interpretazione: è stato così per ogni brano suonato insieme. Poi, a un tratto, Aaron è rimasto da solo con l’ensemble, ed è stato come prendersi un pugno caldo nel gelido della notte Mancuniana. La lentezza, la densità, l’energia fosforescente è uscita dagli amplificatori per baciare la nostra inerzia, l’immobilità, per produrre un diverso schianto nelle nostre percezioni. Le catene, quelle menzionate in Know The Day Will Come, sono cadute sulla nostra pelle, come un generoso atto liberatorio: a volte nelle contraddizioni si stabiliscono patti di saggezza infinita…


Nella nuova prigione, le ali della agognata libertà si sono trovate ridimensionate, insegnando, sprigionando l'entusiasmo mentre le lacrime bagnavano il pavimento. Quattro delle sei canzoni, che erano state pubblicate sei anni fa, dopo il primo contatto tra la band e l’ensemble, sono state riproposte ma anch’esse modificate, accarezzate e baciate da una nuova idea, attraverso una “vivacità” espressiva che ha donato loro ancora più l’impressione di una drammaticità in estensione.

Le luci hanno veicolato la rara capacità di connessione con le note: fatto che ha impressionato il Vecchio Scriba, che non ha rinunciato a chiudere gli occhi per volare, con precisione, in uno stato di assorbimento più che mai necessario. Il tempo è sembrato uno speleologo lanciato nel cratere dei brani per mettere in luce frammenti di meraviglia continua, con lo stupore in grado di correre nelle vene senza volontà di fermarsi. Il pubblico, entusiasta e inebetito, ha potuto ancora una volta legittimare il proprio amore e portarlo nello spazio di un ricordo dove poter bussare spesso: serate come queste non capitano spesso.
Un’esperienza che mette in risalto anche la fiducia della band di Manchester nel lasciare che qualcuno, esternamente, metta una lampada nel ventre di questi gioielli: se esiste una perfezione questa va cercata negli altri e i quattro lo hanno ampiamente dimostrato. La lotta, l’abnegazione, il limite e il suo opposto hanno stabilito una pioggia di lacrime e riflessioni che hanno generato paralisi e al contempo una “strana” gioia: parole come messaggi francobollate a note che hanno cambiato d’abito sono riuscite a spalancare il raggio d’azione delle nostre antenne consegnandoci la mappa di nuove verità. I sorrisi non sono mancati: durante l’esecuzione di Grace of God Aaron è caduto nell’esitazione, con il sostegno dell’adorante pubblico, per concludersi in un applauso ritmato che ha veicolato un’emozione incandescente: laddove esiste un errore, esiste anche un supporto…
Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife e All the Idols sono stati i momenti più spettacolari della serata, con Block Out The Sun a guardarle dall’alto. Ma innegabile è la qualità dell’intero concerto, un ammasso denso e generoso che ha spaziato nella discografia esaltandone ancora di più la bellezza, la forza, l'intensità per rendere preciso il senso di devota appartenenza alla band. Il lavoro di Joe è da premio Nobel per la letteratura emozionale, per aver consegnato ad Aaron lo scettro di angelo indiavolato ma rispettoso, e per aver consentito ai suoi ragazzi di lasciare un incredibile tatuaggio raffigurante l’arte al massimo livello su quel palco: la storia ha una data, una direzione e un incanto che renderà per sempre quelle catene libere di essere sentite come ali dei nostri sogni migliori…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Dicembre 2023

My Review: The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble - Live at Canvas Manchester / 1-12-2023





The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester

Can a bubble fill with deliberate, sudden emotions, and then also suspend your breath, wander off in wonder? If you attend the musical event of the year, certainly yes, and that is exactly what happened at the elegant Canvas in Manchester, where a generous miracle took place on stage: the union of different modes, roles and approaches to music, for a result that makes, this time, shock a multiple benefit. The hypnosis touched the shoulders of each of the participants, except for those few people who preferred to chat, paying for it, and even ended up disturbing Aaron. But it is undeniable that the result penetrated sensitive and attentive souls. The songs chosen by the fans and processed by Joe Duddell in a very short time altered the interpretation of the original ones: everything moved to another emotional and sensory plane, with the pleasant feeling of a nocturnal birth within the hearts. Wistfulness, melancholy, sadness, which are often the natural habitat of these compositions, took flight wrapped in a linen scarf, in order to arrive, unharmed, within the moonbeams.
Madness, trembling, tension but never a sense of loss governed the sixteen magic-filled streams to find themselves in a different entrance: an infinite catapult of thrills established that this experience could create with memory an infinite instrument full of strength and vitality. The changes, the retouches, the verve of a conductor truly capable of first intuiting and then bringing it all to an untouchable status makes this evening the representation of unions that are natural parts, and of which one can only hope for a continuous proliferation. The strings, as they did in 2017, push both towards the abdomen and the vault of heaven new consciousnesses, branching out into the paths of thoughts new shimmers. And one is fragile, shrouded in interpretative secrets that enhance individuality, while a few centimetres from one's own person others seem to be filled with similar tremors. On a small stage, eleven people had the ability to bring pop closer to classical music, to annul any distances to enhance the warmth, the colour of the notes and tune the passion within a densely visited circuit, and not by chance. Aaron's voice, much more attentive than last week's, scratched, made tumult known, splitting veins and vertebrae thanks to a deadly intensity: as if he had crouched down in his own intimacy and decided to let it drop into the microphone. Tuned to the gravelly tones of seven musicians perennially in a state of grace, seriousness, and even responsibility, the frontman slid his uvula across the carpet of vibrations so strung together that there was a single lump in his throat for the duration of the concert.

The release to weeping, to yearning was simply impressive and devastating: all the words that we already knew by heart, and that perhaps we had the presumption of having understood, this evening were able to teach us new elements, knocking us to the ground, into chaos, into joy, into the embrace between the black and white of a starry sky inside the Canvas. The drumming this evening, thanks to long pauses, was remarkably effective, perfect, even enhancing the bass, for an ensemble that made the interpretation illuminating: it was like this for every song played together. Then, all of a sudden, Aaron was alone with the ensemble, and it was like taking a warm punch in the chill of the Mancunian night. The slow, dense, phosphorescent energy came out of the amplifiers to kiss our inertia, our stillness, to produce a different crash in our perceptions. The chains, those mentioned in Know The Day Will Come, have fallen on our skin, like a generous liberating act: sometimes in contradictions pacts of infinite wisdom are established... In the new prison, the wings of coveted freedom found themselves resized, teaching, releasing enthusiasm as tears wet the floor. Four of the six songs, which had been released six years ago, after the first contact between the band and the ensemble, were re-proposed but also modified, caressed and kissed by a new idea, through an expressive 'liveliness' that gave them even more of an impression of extended drama.
The lights conveyed the rare ability to connect with the notes: a fact that impressed the Old Scribe, who did not give up closing his eyes to fly, with precision, into a state of absorption that was more necessary than ever. Time seemed like a speleologist launched into the crater of the pieces to bring out fragments of continuous wonder, with amazement running through his veins with no will to stop. The audience, enthusiastic and inebriated, was once again able to legitimise their love and bring it into the space of a memory where they can knock often: evenings like these don't happen often. An experience that also highlights the Manchester band's confidence in letting someone, externally, put a lamp in the belly of these jewels: if perfection exists, it should be sought in others and the four have amply demonstrated this. Struggle, self-denial, the limit and its opposite have established a rain of tears and reflections that have generated paralysis and at the same time a 'strange' joy: words like messages frankly glued to notes that have changed clothes have managed to open wide the range of our antennae, giving us the map of new truths. There was no shortage of smiles: during the performance of Grace of God Aaron fell into hesitation, with the support of the adoring audience, ending in a rhythmic applause that conveyed an incandescent emotion: where there is error, there is also support...

Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife and All the Idols were the most spectacular moments of the evening, with Block Out The Sun watching from above. But undeniable was the quality of the entire concert, a dense and generous heap that spanned the discography, bringing out even more of its beauty, its strength, its intensity to make precise the sense of devoted belonging to the band. Joe's work is worthy of a Nobel Prize for emotional literature, for handing Aaron the sceptre of an unbridled but respectful angel, and for allowing his boys to leave an incredible tattoo depicting art at its highest level on that stage: history has a date, a direction and an enchantment that will forever make those chains free to be felt as the wings of our best dreams...

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford, England
2 December 2023