lunedì 30 ottobre 2023

La mia Recensione: Lorenzo Del Pero - Nato il giorno dei morti

 

Lorenzo del Pero - Nato nel giorno dei morti

“La morte e la vita non cambiano mai”

Francesco Guccini


La permanenza degli uomini sul pianeta Terra è una successione di disastri ripetuti, di coscienze private della libertà perché altre, esseri incoscienti,  cancellano l’equilibrio e la giustizia. Ci sono voci che sono corpi pieni di proiettili, fermi, non uccidono, ma mostrano la fatica, la rabbia, l’indignazione, lo studio della fallibilità umana e difendono il corpo di una vita sconfitta con la poesia magica di un lamento dentro note musicali e trame argute, come un termometro lanciato sulle proprie ferite. Il talentuoso Lorenzo del Pero è una di queste sillabe, un uomo in ostaggio dell’infelicità che viene regalata dai potenti, dagli ingiusti, e che ha formato una modalità nuova per non rimanere muto. Un insieme di canzoni straordinarie, non adatte alle persone superficiali, ai ciechi per convenienza, ai sordi distratti da suoni ipnotici che tolgono la capacità di comprendere ciò che accade. Un album che mostra la misura della morte che, spavalda, offre il suo ghigno a chi ama distruggere un dono così prezioso come la vita. Non è un rosario di lamentele bensì una lettura, poetica e potente, che ingloba la scrittura di una ribellione che nasce solo da antenne pulite che possono ricevere e mandare messaggi di riscatto, per nutrire una pianta senza corteccia che aspetta il declino.

Lorenzo ha dato spazio al rock sapiente, quello che usa il rumore solo quando occorre, concedendo spazio ai silenzi e ad atmosfere rarefatte con vocaboli, storie, ragionamenti colmi di vibrazioni nucleari. L’artista pistoiese urla ancora, si dimena e percuote ma, rispetto al passato, trova un equilibrio fenomenale, fatto che gli permette di tenere alta la tensione per tutte e dieci le tracce. Inevitabile pensare che spesso ci vengono alla mente Jimmy Gnecco degli Ours e  Jeff Buckley sotto acido,  mostrando un piglio americano, con chitarre che sono ferite nella carne, per poi adoperare il suo stile cantautorale, come una dovuta anestesia, come il gesto che pone questo insieme sulla bilancia per lasciare tutto integro. Il lavoro con Flavio Ferri e Marco Olivotto ha donato al suo stile e alla sua inclinazione possibilità diverse, direi proprio una crescita notevole, per un perimetro musicale dai confini più ampi, con una fantasia e libertà di esposizione che regalano alla fine dell’ascolto l’impressione di una freschezza e vitalità che meglio si adattano al suo talento, chiaro come la luce di una grotta insanguinata, alla ricerca di un respiro. Si tocca il cielo dove vive la religione, riusciamo a scorgere le carte truccate di una politica schifosa, comprendiamo l’ansia di una soffocante disperazione, constatiamo la lunga fila di sentimenti che vengono schiacciati da comportamenti sempre più indifferenti al rispetto e alla condivisione più pura. Una trascinante processione di personaggi dalle mani pesanti, di storie nelle quali le parole di Lorenzo compiono il gesto sfrontato di una sincerità totale, assumendosi responsabilità e una croce continua, pesante ma necessaria. Principe di approcci nei confronti di chi, come lui, considera il mondo un grande cimitero di rifiuti tossici, si addentra nei vicoli di pensieri che vibrano, con la musica che ispira i suoi percorsi diretti, senza concessione alla falsità. Dato il taglio degli argomenti, ciò che si trova è uno specchio che svela le malefatte, gli sbagli ripetuti, e lui, tramite la sua voce al vetriolo, ci convince della sua autenticità, regalando un imbarazzo che ci fa compiere lo sforzo di crescere. Ruota una molecola di rock intimista, a volte quasi slow core, sicuramente un piccolo ventaglio ad aggiustare la rotta rispetto al suo passato: una modalità espressiva più snella, commovente e ancora straziante, per l’apoteosi che si inoltra nell’alternative prossimo a quello degli anni Novanta. 

I volti, i respiri, le battute d’arresto, i precipizi nervosi sono largamente espressi da una scrittura precisa come un bisturi che, con calore e passione, interviene sulla pelle per renderla ubbidiente al suo senso di giustizia. 

La sacralità è un brusio fastidioso che l’artista usa, schiaffeggiando l’ipocrisia attraverso un apparato fatto di note con l’anima blues, una invocazione che offre il cadavere di un pessimismo naturale, evidenziato ed espresso senza timore. Con la formula di un sistema rock capace di evidenziare la potenza del suono, di ritmiche quasi sempre lente e deliziosamente pesanti, ci si ritrova con il riflesso di un tempo lontano nel quale produzione e arrangiamenti indirizzano la nascita dell’armonia verso un robusto palco che sostiene le torture morali di queste liriche che non concedono pause e tentennamenti. Nato il giorno dei morti è un kamikaze indomito, sorretto da una tempra resistente, un gioiello che scuote e che non scherza affatto: il dolore vissuto, espresso e rappresentato come un rosario ateo, è un boomerang che partendo da Lorenzo arriva a far tremare troni, cieli, ipocrisie, mettendo le divinità di fronte alle proprie colpe. Un disco dove l’amore non è una apparenza di comodo, bensì l'appuntamento con la responsabilità, un impegno che si mette nei panni di una madre mentre perde un figlio, di atti osceni in un teatro ribelle, nel palcoscenico delle movenze come fiumi di barbarie senza via di fuga. Il dito medio, la pulsione punk non serve al poeta del dolore: il suo vocabolario morale è un oceano di consapevolezze che devono diventare uno tsunami innaturale, senza paure, in grado di intossicare i pensieri. Bandisce i tradimenti e con il suo vibrato, il registro alto ma mai tedioso, riesce anche a divenire una carezza, piena di ansia e di progetti, per dare al cielo una possibilità di vedere il nostro pianeta migliorato. 

Impressionante è la miscela di un fare quasi anacronistico utilizzando le nuove possibilità che la tecnologia moderna offre: si ottiene una credibilità che davvero fa dire al Vecchio Scriba che Lorenzo del Pero è cresciuto in modo esponenziale, senza dover rimpiangere le antiche abitudini, non cercando la comfort zone ma con la decisione di gettarsi con ostinazione in una correttezza che l’attuale musica italiana manca di mostrare. 

Di certo il suo osare supera di gran lunga la propensione di colleghi più famosi e amati: questo aspetto depone a favore di questo coraggioso artista che nel suo specificare non teme paragoni, non perde tempo, oscilla sempre tra la verità e il voler modificare la storia. Non subisce ma patisce l’immobilità di un mondo che gli fa venire le rughe nei pensieri. Lotta e conquista una posizione che gli si deve riconoscere su larga scala: un album così potente non lo ascoltavamo da tanti anni. Tocca a noi non sprecare questo invito alla coscienza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Ottobre 2023


L'album uscirà il 3 di Novembre per l'etichetta Vrec





giovedì 26 ottobre 2023

La mia Recensione: Indro Fiume - Io non sono qui

 

Indro Fiume - Io non sono qui


Granelli di gocce decidono di fare un party nella splendida Venezia: assumono personale qualificato per trasformarsi in musiche che sappiano espandere il desiderio di introspezione e mostrare luci rare. La fila concede una chance, un artista all’album di esordio, animato da cellule in discesa libera nel mare che sa definire e collocare molto bene. Il suo nome è Giovanni Conigliaro, in arte Indro Fiume, e sin dal titolo di questa opera marca la sua presenza, il suo magazzino delle qualità pronte a fuoriuscire, nel tentativo di seminare e fortificare la propria città interiore. Suoni agili sia nella potenza che nella rarefazione del suono, uniti per scuotere il nucleo di testi particolarmente abili nel creare crepacci, sia nel fuoco che nei ghiacciai di ognuno di noi. Una chiara venatura poetica si adagia nei versi, ma sempre con trame che si avvicinano alla filosofia e alla sociologia, con il risultato che scuotimenti, riflessioni e slanci partono proprio da lì per raggiungere il palco delle attenzioni celesti: gli Dèi sapranno abbracciare il controllo del suo sapere.

Un rock che mette in superficie chili di post-punk addomesticato, reso obbediente per via della volontà di spaziare, senza bavagli o capricci. La voce è una miscela di petrolio che è ancora bruciante pur provenendo dagli anni Ottanta, potente, assassina, ma con lo zucchero sulla coda delle parole, capace di frustare e accarezzare, di frustrare i pensieri, di rendere docili le onde di un evidente decadentismo ammaestrato. Un lavoro perfetto, davvero impressionante. Giovanni raccoglie i cocci di un mondo a brandelli, lo fotografa, poi lo ipnotizza, infine lo compatta con splendide cicatrici che mostrano il suo notevole impegno. Colora la vita con circospezione, quasi timoroso, ma poi deflagra maestosamente, equilibrando la tavolozza dei colori che riescono a emergere, solo superficialmente, dalla preferenza verso il grigio. Le chitarre provengono da una precisa intenzione di essere compagne di viaggio di amici sonori che si affiancano con fluidità e armonia, con vertici preferenziali che spesso si mostrano ai cancelli espressivi dei Cure, dei Killing Joke, dei Joy Division e dei Diaframma (soprattutto nella modalità del canto in alcuni brani). Si palesa anche una spinta cantautorale italiana che favorisce emozioni continue, come vascelli che sanno muoversi in agilità anche nei deserti. Ed ecco che un mood progressive si affaccia spesso, insieme a un'onda alternative per un bilanciere perfettamente saldo. Quando arrivano sprazzi di post-rock si capisce come l’universo musicale dell’autore veneziano sia impressionante, vasto, e come la regia perfetta riesca a saldare in modo encomiabile il tutto, elevando e seminando stupori in modalità continua. Non si tratta di imitazione, bensì di un insieme di lezioni perfettamente apprese per poi andare oltre, verso una identità che si mostra originale e sicura. Io non sono qui è un’insieme di particelle piene di creatività, sapienti nel mostrare i danni e poi una riflessione che prima le accudisce, poi le libera rinvigorite. Undici vibrazioni acquee, scie percettive in cerca di un approdo che sappia divenire sabbia fosforescente e nutriente. La capacità di amalgamare visioni, immagini, suoni fa di questa corporazione sonora un incontro doveroso, decisivo, se le braccia della nostra intelligenza si rivelano davvero tali consegnando a Giovanni affetto, stima e riconoscenza. Riuscire a far sentire la tristezza e la preoccupazione come un beneficio che lui stesso trasforma per primo è davvero strabiliante: un’opera a portata di quelle anime che fanno dell’ascolto il primo valore, la prima pedina per arrivare a giocare con la vita raccogliendo il vento pieno di palpiti mai in dispersione. Una esibizione di talento indiscutibile che va posizionata dentro la massa, come urgenza, perché il beneficio del navigare insieme a queste onde è indiscutibile: fuori dalle palle i cliché, le tendenze, che si fotta il sonno culturale italiano (e non solo) e si dia modo a questo artista di avere un palco affollato di soddisfazioni. Un album meraviglioso che arriva sulla coda di questo 2023. Conservatelo nella memoria e usatelo in quanto le sue piume potrebbero conoscere lo spazio nella vostra eternità: la malinconia veneziana ora è una sirena in viaggio all’interno di un caldo applauso…

L'album è in uscita domani, 27 Ottobre 2023

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Ottobre 2023




mercoledì 18 ottobre 2023

La mia Recensione: Gintsugi - The Elephant in the Room

 Gintsugi - The Elephant in the Room


“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo.”

Sigmund Freud


Questo battito, pellegrino, stanco, voglioso, bianco, scende dal suo trono e si schianta sui piani scoscesi della mente, la centrale nucleare di ogni dolore. Storie, vicende, contorsionismi vari, ben assortiti e mal assortiti, si stringono nell’esistenza che cerca appigli. In questo contesto arriva una donna dalla lingua tagliente, dal polso di ferro, dalla disciplina che si posiziona in ogni gesto, pensiero, con la ferocia gentile, per permetterle un ampio raggio di azione. Si chiama Gintsugi, la voce che scioglie le crepe di metallo per appiccicarsi alla dolcezza, con un piano vivace volto a stregare le stelle, il creato, il tempo per unirli a un esercizio che abbaglia: portare l’oscenità del dolore a scuola, insegnarle la vita e gettarla in mezzo a note vergini ma già ferite… Le corsie immaginifiche, le espressioni mai troppo didascaliche lanciano la giovane artista italo-francese con continuità in un confine mai squadrato, dalle lunghe sponde incontrollabili. Si finisce per tremare, piangere, riflettere, con impianti di luce a visitare l’imprevisto del vivere, i suoi arti spesso poco graziosi, per entrare in una lavanda gastrica all’altezza del cuore. Ci si ritrova, sbagliando, con la presunzione che l’intera opera abbia propensioni oniriche: è la realtà, le verità e le menzogne del vivere che Gintsugi ci mostra, in un pentagramma accordato all’autenticità. Si incontrano modalità espressive che variano, ma che senza dubbio fanno dell’art rock il principale punto di riferimento. Non si possono negare altre matrici, impronte classiche e pop oliate, come garanzia di un progetto molto largo nelle intenzioni, sino a creare un clamoroso concept album, pur magari non avendone avuta intenzione. 

Già a partire dal titolo (una frase idiomatica inglese davvero esaustiva e potente) per continuare con la toccante immagine di copertina, tutto si posiziona, sin dall’inizio, sul piano dell’impresa totalizzante, paralizzante, per concludere nello stato di necessità di continui ascolti. Non è un insieme sonoro fuori dal tempo attuale, non si confonda l’assenza di frastuono come un appiglio verso espressioni  più antiche. La freschezza di questo incredibile talento sta nella maturità, per trasformare la clessidra in un doveroso esercizio di intese al fine di non sprecare nulla di ciò che sta accadendo. Quando, oltre al suo strumento principale (il pianoforte), si sentono gli archi, arrivano piccole vibrazioni nei parchi del suo sentire, posizionando perfettamente il concetto di fruibilità, continua e incessante. La sua dolcezza è una sonda che affonda, porta la schiuma alla bocca per essere sputata, con classe, sui tasti del suo pellegrinaggio emotivo, in un dinamico visitare gli animi, spostando accenti, sciogliendo torsioni e paure. Quattro singoli, due brani strumentali, una cover pazzesca, basterebbero per rendere inossidabile questo disco: difficile che possa subire graffi.

Si prenda Lilac Wine: la splendida cover di Elkie Brooks, del 1978, che parla della perdita di un amante con il conforto del vino ricavato da un albero di Lillà, rivela una portentosa attenzione ai colori della sua ugola e viene cantata come se quel dolore le appartenesse, orchestrando il tutto in una miscela di lacrime e speranze.  È proprio questo magnetico bisogno di affrontare quello che è disagevole e contrario a insegnarci molto sul piano umano. Le musiche sono il suo primo vocabolo, il suo nascente nervo, il crescere confrontandosi con suggestioni senza freni, con il fiato infinito, il suo affiancarsi a riflessioni che trovano voce nelle note, perché non si attribuisca solo alle parole il ruolo di comunicare pensieri…

L’elettronica, i timpani, i tamburi, quello  che sembra laterale alla struttura è invece un magnete quasi invisibile che compatta queste cascate espressive, emotive, razionali, che diventano spesso maree struggenti, incontrollabili. Ci si può schiantare davanti questo insieme, occorre essere preparati e molto forti.

Sono composizioni che rivelano impeti, capogiri, pianificazioni tenuti insieme da un arco equilibrato che sa scagliare frecce nel cielo di ogni imprevedibile bisogno. Gintsugi è una direttrice d’orchestra di un tutto che ci arriva addosso, adoperando momenti più accessibili ad altri nei quali ci si sente gettati violentemente a terra. Le sue peculiarità vengono, facilmente direi, riassunte da una voce e dalla modalità del canto che oscilla, come un’altalena mistica, nel tempo, per spostarsi, avendo grandi punti di riferimento, artisti che hanno fatto la storia dell’interpretazione. Doti naturali, innegabili, però si consideri anche che in questo album non possono sfuggire studi profondi, accurati e intensi: tutto doveva profumare di un odore prossimo alla perfezione. Quando i suoni dell’ugola si assentano (dopo aver procurato intensi traumi), la parte musicale fa altrettanto: non c’è competizione, bensì un acclimatarsi nell’unica direzione voluta che è quella di non essere solo performanti ma soprattutto efficaci. Si riscontrano momenti di grandi fragori (l’iniziale Mon Coeur e Hex), per poi sentire il fruscio delle nuvole accarezzare i nostri capelli, sino a penetrare il cranio e ad arrivare al cervello. In quel luogo, grazie a questi sfavillanti terremoti sonori, tutto si fa argilla, in uno stato febbrile. Si sfiorano attimi in cui la tensione pare prossima all’horror, dove le nuvole degli accadimenti umani sembrano schiantarsi e cadere sino a raggiungere il ventre del pianeta terra. Altri, invece, in cui le canzoni sembrano respiri invisibili, imprendibili, che veicolano colori pieni di vita. La sofferenza, in questo innegabile capolavoro, non è un impedimento: direi invece una occasione per imparare, trasformare il nero in un atto di vincita. Esiste lo spazio per i sogni, possono essere visti, coccolati, vissuti in queste tracce? Assolutamente no, ed è proprio in questo aspetto che si deve esaltare la grandezza di una donna che cammina a testa alta con il vento della contrarietà che l’affronta, uscendone a pezzi: Gintsugi ha una serie di armi dolci e potenti per vivere il presente come una volontà e attitudine. Il Vecchio Scriba scriverà presto una recensione sui testi: altri miracoli che rendono questo ascolto un beneficio doveroso e piacevole, soprattutto istruttivo. In un brano specifico vediamo emergere la sensazione che lei abbia imparato ad attingere da una fonte preziosa: il brano è To Grace, figlio splendido delle assurde capacità visionarie di Tori Amos. Molte sono le frequentazioni del suo potente background, ma nessuna poi così decisiva: il suo più grande merito è quello di possedere uno stile proprio, intrigante, strabordante, capace di una identità personale indiscutibile. Prodotto da lei stessa e dalla Beautiful Losers di Andrea Liuzza (anch’esso presente nell’album), questo vascello di piume risulta compatto, in uno slancio che pare portare dietro di sé scie di lacrime sorridenti in un giorno in cui tutto sembra essere sottoposto al duro giudizio di un cielo pieno di lampi. Nove esplosioni con le redini, dove tutto ciò possa andare all’interno di una pellicola per posizionare il proprio destino: un esordio così potente sarà una delle meraviglie che rimarranno nella sfera temporale per la durata dell’infinito.

Non scriverò la recensione canzone per canzone, perché non puoi entrare dentro il vento e perché per vedere una rosa sbocciare non puoi mettere le dita al suo interno…

Rimane la convinzione che questo sia il primo vero CAPOLAVORO dopo tanti anni, e per farlo rimanere tale bisogna essere discreti: lo si ami, lo si ascolti, lo si porti nel centro del nostro bisogno, ma si tenga sempre una distanza che si chiama rispetto, in quanto Gintsugi lo merita più di tanti altri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19 Ottobre 2023


In uscita il 20 Ottobre 2023


https://gintsugi.bandcamp.com/album/the-elephant-in-the-room-2




My Review: Gintsugi - The Elephant in the Room

 Gintsugi - The Elephant in the Room


"We are never so helpless towards suffering as in the moment when we love."

Sigmund Freud


This beat, pilgrim, tired, eager, white, descends from its throne and crashes on the craggy planes of the mind, the nuclear powerhouse of all pain. Stories, vicissitudes, various contortions, well-assorted and ill-assorted, squeeze into the existence that seeks footholds. Into this context comes a woman with a sharp tongue, an iron wrist, a discipline that positions itself in every gesture, thought, with gentle ferocity, to allow her a wide range of action. Her name is Gintsugi, the voice that melts the cracks of metal to cling to sweetness, with a lively plan aimed at bewitching the stars, creation, time to unite them in an exercise that dazzles: bringing the obscenity of pain to school, teaching it life and throwing it into virgin but already wounded notes... The imaginative lanes, the expressions that are never too didactic launch the young Italian-French artist with continuity into a border that is never squared, with long uncontrollable banks. One ends up trembling, weeping, reflecting, with implants of light visiting the unexpectedness of living, its often unpretentious limbs, to enter into a gastric lavage at heart height.

One finds oneself, mistakenly, with the presumption that the entire work has dreamlike propensities: it is reality, the truths and lies of living that Gintsugi shows us, in a pentagram tuned to authenticity. We encounter modes of expression that vary, but which undoubtedly make art rock the main reference point. One cannot deny other matrices, classical and pop imprints oiled, as a guarantee of a project very broad in its intentions, even to the point of creating a resounding concept album, even though it may not have been intended. 

Right from the title (a truly exhaustive and powerful English idiomatic phrase) to continue with the touching cover image, everything is positioned, from the start, on the level of a totalising, paralysing undertaking, concluding in the state of need for continuous listening. This is not a sonic ensemble out of step with the present time, nor should the absence of din be mistaken for a clinging to older expressions. The freshness of this incredible talent lies in maturity, to turn the hourglass into a dutiful exercise in understanding so as not to waste anything that is happening.

When, in addition to her main instrument (the piano), strings are heard, small vibrations arrive in the parks of her feeling, perfectly positioning the concept of usability, continuous and incessant. Her sweetness is a sinking probe, bringing foam to the mouth to be spat out, with class, on the keys of her emotional pilgrimage, in a dynamic visit to the souls, shifting accents, dissolving twists and fears. Four singles, two instrumental tracks, a crazy cover song, would be enough to make this record stainless: it is unlikely to be scratched.

Take Lilac Wine: the splendid cover of Elkie Brooks' 1978 song about the loss of a lover with the comfort of wine made from a lilac tree reveals a portentous attention to the colours of her uvula and is sung as if that pain belonged to her, orchestrating it in a mixture of tears and hope.  It is precisely this magnetic need to face what is uncomfortable and contrary that teaches us much on a human level. Music is her first vocabulary, her nascent nerve, her growing up confronted with unrestrained suggestions, with her infinite breath, her coming together with reflections that find their voice in the notes, so that the role of communicating thoughts is not only attributed to words.

The electronics, the timpani, the drums, what seems lateral to the structure is instead an almost invisible magnet that compacts these expressive, emotional, rational cascades, which often become poignant, uncontrollable tides. One can crash in front of this ensemble, one must be prepared and very strong.

These are compositions that reveal impulses, dizziness, planning held together by a balanced bow that knows how to shoot arrows into the sky of every unpredictable need. Gintsugi is an orchestral conductor of a whole that comes at us, employing moments that are more accessible to others in which one feels thrown violently to the ground. Her idiosyncrasies are, I would easily say, summed up by a voice and mode of singing that swings, like a mystical swing, through time, having great points of reference, artists who have made the history of interpretation. Natural talents, undeniable, but consider also that in this album deep, accurate and intense studies cannot escape: everything had to smell close to perfection.

When the sounds of the uvula are absent (after having caused intense trauma), the musical part does likewise: there is no competition, but an acclimatisation in the only desired direction, which is to be not only performing but above all effective. There are moments of great brittleness (the opening Mon Coeur and Hex), only to hear the rustle of clouds caressing our hair, penetrating the skull and reaching the brain. There, thanks to these sparkling sonic earthquakes, everything becomes clay, in a feverish state. There are moments in which the tension seems close to horror, where the clouds of human happenings seem to crash and fall until they reach the belly of planet earth. Others, however, in which the songs seem like invisible, impregnable breaths, conveying colours full of life. Suffering, in this undeniable masterpiece, is not an impediment: instead, I would say an opportunity to learn, to transform blackness into a winning act. Is there space for dreams, can they be seen, pampered, experienced in these tracks? Absolutely not, and it is precisely in this aspect that the greatness of a woman who walks head-on with the wind of contrariety facing her, coming out in pieces, must be exalted: Gintsugi has a series of sweet and powerful weapons to live the present as a will and an attitude.

The Old Scribe will soon write a review on the lyrics: other miracles that make this listening a dutiful and pleasant benefit, above all instructive. In one specific track, we see the feeling emerging that she has learned to draw from a precious source: the track is To Grace, a splendid child of Tori Amos' absurd visionary abilities. Many are the frequentations of her powerful background, but none so decisive: her greatest merit is that she possesses a style of her own, intriguing, overflowing, capable of an unquestionable personal identity. Produced by herself and Andrea Liuzza's label Beautiful Losers (also featured on the album), this feathered vessel is compact, in a momentum that seems to carry behind it trails of smiling tears on a day when everything seems to be subjected to the harsh judgement of a sky full of lightning. Nine explosions with the reins, where everything can go within a film to place its destiny: such a powerful debut will be one of the wonders that will remain in the temporal sphere for the duration of infinity.

I won't write the review song by song, because you can't get inside the wind and because to see a rose bloom you can't put your fingers inside it...

The conviction remains that this is the first true masterpiece in so many years, and to keep it that way, one must be discreet: love it, listen to it, bring it into the centre of our need, but always keep a distance that is called respect, because Gintsugi deserves it more than many others...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

19 Ottobre 2023


Out on 20 October 2023


https://gintsugi.bandcamp.com/album/the-elephant-in-the-room-2




martedì 17 ottobre 2023

La mia Recensione: Drama Emperor - Eden’s Gardens

 Drama Emperor - Eden’s Gardens


Come è gustoso l’inganno che vive segregato nella storia, quello che scivola in ogni anfratto mentale, senza liberatoria. Ci sono, nell’arte e non solo, esempi che certificano questo malaffare, questa sconcezza inaccettabile: dovrebbe essere impedito il fatto che la bellezza non abbia un trono visibile da qualsiasi latitudine.

Le Marche, musicalmente la terra che ha portato alla luce limpidi fuoriclasse come Paul Chain e i suoi Death SS, i Gang, i Soviet Soviet e tanti altri, nel suo grembo fertile e dorato ha spinto nel furibondo panorama musicale anche questa band, della quale il Vecchio Scriba celebra la nuova pubblicazione: un fascio sonoro illuminato da genialità assortite per generare emozioni ad alte quote. Non semplice, non fruibile con agilità, per favorire, da parte dell’ascoltatore, un profondo lavoro di assemblaggio, in quanto il duo composto da Michele Caserta e Cristiano Ballerini sonda continuamente, sin dall'esordio del 2009, ogni resistenza che sia contraria alla programmazione di un impegno preciso per poter decifrare le onde multimagnetiche di cui loro sembrano i generatori benedetti dalla divinità musicale. Sono vagiti elettrici, nei quali la melodia è uno scheletro privo di pelle ma funzionale alla motricità che renda i corpi all’ascolto magneti in attrazione mistica verso un luogo che sembra divenire, episodio dopo episodio, una radura radioattiva, riuscendo a bruciare il superfluo. Indicazioni ne abbiamo avute in questi anni, malgrado la produzione non sia mai stata prolifica: perfetto, perché le ambizioni dei marchigiani non devono entrare in una catena di montaggio. Seminano canzoni come granelli di sabbia nello spazio: laddove, apparentemente, sembra mancare il senso, tutto viene ribaltato da una qualità effervescente, dinamica, coinvolgente.

Due le composizioni nuove che aprono l’E.P., una coppia di assalti con modalità diverse, nello stile, nella velocità, ma entrambe pregne di meravigliosi approcci metafisici. Il nucleo è un approfondimento decisamente intenso rispetto alla provenienza delle loro “antiche” rappresaglie sonore. Se apparentemente si denota l’abbandono di una matrice Post-Punk, per favorire inserimenti di origine elettronica, è necessario però fare i conti con la teatralità, nuovo elemento che pare essere un colpo di genio definitivo. In aggiunta, si noti una orchestrazione che, partendo dalla musica classica, si spinge verso la sperimentazione tedesca della seconda metà degli anni Sessanta: non solo brani con un mantello, ma note che entrano nelle ossa. Spruzzate generose degli anni Ottanta meno ortodossi si palesano soprattutto nei due pezzi finali, con il sistema pericoloso ma in questo caso ben riuscito di due remix.

Il lavoro proposto è una incudine che divide la morbidezza dal gelo: è innegabile che i cavi che si muovono tra le composizioni siano pieni di una potente capacità di indagine, per generare una veloce selezione naturale. Risalta la poderosa propensione, che sia voluta o si tratti di uno splendido incidente poco conta, di assorbire i generi musicali, per stordirli, renderli obiettivi e non doverosamente riconoscibili. Tutto vive di pochi secondi con determinate movenze, per essere poi seguiti da altri che paiono nascondere il recentissimo passato e dileguarsi nel vuoto. Come in una bancarella rovesciata nel fango, così le canzoni arrivano al nostro ascolto: mettendo un magistrale disagevole agio, nel registro emotivo di un ossimoro che paralizza, conquistando.

Il tempo ora lo si riservi alla vicinanza di questi elettrodi pieni di ruggine viola, per assegnare a ogni momento il nostro ruolo…



Song by Song


1 - Eden’s Gardens


Una giostra temporale alla ricerca di un luogo dove seminare immagini e introspezioni, verificando la storia di ogni inganno: questo è il tempio della più grande bugia umana, un giardino che contempla solo il piacere, lasciando il passato alle spalle. La chitarra è feroce, straziante, perché si oppone, mentre la parte vocale è un pianto malinconico, nel quale il perfetto cantato in inglese posiziona gli accenti sulle vocali in modo incantevole. Il drumming cucina i fianchi e l’assolo della sei corde è un sacrificio che spacca quel giardino. La sorprendente orchestrazione classica del finale sembra dipingere un addio nei confronti di ogni illusione. I Death in June, gli Echo & The Bunnymen, e le code sonore dei Kitchens of Distinctions si posizionano nella prima parte e nel coinvolgente ritornello, in piena ammirazione. Ma è il cambio dopo la seconda strofa che rende il tutto sfuggente, sacro, definitivamente perfetto…



2 - Pulse


Nessun dubbio: sul podio delle canzoni più interessanti e atroci di questo fulgido 2023! Pulse è il talento espressivo, l’indagine sonora che parte da un loop assassino, contornata da un brillio di matrice industriale, per poi aprirsi nel momento dell’entrata del canto, che è un vero esercizio di studio, con conseguente laurea. Il tema espressivo è un circuito cacofonico con un recitativo che snerva, toglie le forze e incanta, per via della sua magrezza melodica, inducendo il pensiero a viaggiare nei confini di un labirinto mentale pulsante. Questa è la profonda ricchezza dei due artisti: la strafottenza del compiacimento nello scrivere musica dall’effetto gradevole, per proiettarsi, invece, nel caos lento di trame e spinte psichedeliche, viste da un vetro appannato, che le rendono come una sottile esplosione di un magma che rovista le resistenze. Sublime!



3 - The Ghost In You


Un petalo Darkwave che frequenta le zone calde della Coldwave più puttana e sensuale, vola dentro questo sibilo che richiama alla memoria grandi realtà degli anni Ottanta: Neon e Gaznevada, due eccellenze che amavano creare per esorcizzare la paura della sperimentazione all’interno di quei generi musicali. Sicuramente cupo, introverso, attraente, rende visibile le loro affinità e bisogni.

Ma, e so che qui si aprirà una polemica straordinaria, non riesce a tenere lo sguardo delle prime due, perché più manieristico, meno in grado di mostrare le genialità e le quote visive. Nulla, sia chiaro, che faccia venire al Vecchio Scriba il desiderio del non ascolto: avrebbe pagato di tasca sua nel 1985 per sentire una composizione del genere!



4 - Awake (Soft Rior RMX)


Fate uscire a cena gli Yello, portateli nel porno cinema dei Frankie Goes To Hollywood, e constaterete come questo remix sia un miracolo celestiale: tutto si apre, con continui inserti elettronici a rendere questo esercizio sonoro un ibrido in direzione della follia che diventa una perfetta dance hall. Vivace, il cantato disegna sogni, mentre le scariche vitaminiche dei Synth sono miracoli che fanno arrossire le luci stroboscopiche.



5 - The Final Song (Guido Möbius RMX)


Un leggero dolore frequenta lo spazio mentale: un incipit che vaga nella secchezza di una parola che sbatte su un impianto striminzito ma straordinario, con uno speciale controcanto che richiama Blixa Bargeld in stato catatonico. Una spruzzata di dub e proto-house si inserisce nel circuito della canzone: si è costantemente in nevrotica attesa…


Una dimostrazione di come il tempo possa essere messo sul tavolo di un laboratorio, per progettare un fluido che renda l’eternità superflua: il duo marchigiano ha generato lo stupore che viaggia nei paradisi incantati della perdizione, dove le passioni e i sogni sono splendidi cadaveri da conservare.

 E.P. italiano dell’anno per Musicshockworld!


P.S.

Da rilevare anche lo splendido Artwork dell’artista Francesco Pirro.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

17 Ottobre 2023


https://dramaemperor.bandcamp.com/album/edens-gardens