domenica 27 novembre 2022

La mia Recensione: Leech - Live 06.06.2020


Leech - Live 06.06.2020

 Spesso il desiderio è figlio di un’ipnosi inconscia, il territorio sospeso tra ciò che vorrebbe nascere e la sua inconsapevolezza. Lì e solo lì nasce ogni cosa. Ci risiedi senza conoscere ancora nulla e può durare un attimo come un’eternità.

Nella musica può capitare tutto questo e quando lo scopri esci da una trance che ti fa uscire le note dalla pelle e te le ritrovi sparse, mentre ti osservano e reclamano il tuo sguardo. Anche i sogni sanno ballare…

Partecipare a un concerto degli Svizzeri Leech conduce proprio a vivere questo marasma emozionale, senza attrito, con la materia di sconvolgimenti che generano purificazione continua. Uno shock gentile che regala elettricità nei circuiti di desideri sconosciuti: nel bel mezzo del tuo ascoltare sei immerso nella loro profonda ricerca di trame melodiche e ritmiche per una danza degli occhi e dei pensieri dal vestito più lucido che esista nei tuoi battiti sbigottiti. Definiti Post-Rock  per il genere musicale che suonano, lo scriba non ci casca e va oltre, si riduce e si rifugia a un silenzio che non disturbi la loro messa limpida di voli angelici, terrificanti per profondità e suggestioni. Perché con loro si sogna, si freme, si precipita nella bellezza di un incanto, tra le nuvole e la polvere.

Sì, chiamatelo Post-Rock, Instrumental, perdetevi pure nelle certezze che possano far stare insieme tutte le vostre fameliche esercitazioni di bravure raggiunte, io sono altrove, completamente, beatamente perso nei loro valori sonici, nei circuiti onirici di storie che non necessitano di parole. Tutta la storia musicale di un genere trova il suo momento più alto (non mi pare possibile che ciò non esista), la sua perfezione indiscutibile, ma il fatto più eclatante sono le anime poco attrezzate alla intelligenza  che debbono affannarsi nella ricerca, per vivere pacificamente questa condizione. Se volete per forza limitarvi a definire quello che fanno questi angeli delle montagne svizzere allora avete già trovato tutto. Questo Live è assolutamente l’esaltazione che trova il palco del cielo perché certa musica la si ascolta, la si vive guardando all’interno di nubi gonfie di miracoli irresistibili e irripetibili. Si viaggia per strade mentali piene di ricette per l’estasi, con le loro atmosfere imbevute di sfumature desolate e melanconiche, fiumi di delicata propensione alla ricerca di quella vibrazione che annetta e faccia dimenticare tutto. Musica che fa sospendere i pensieri e diventa immagini, film continui per  sceneggiature mutanti, attori che si scambiano sguardi e ruoli, per divenire la colonna sonora di brividi multipli. Trame mai sfocate, tantomeno frammentate, vi sedurranno conferendo a queste undici pillole di trasportare il nucleo originale lontano, trasformandosi in liquidi bollenti, colmi di fascino, ci si perde, come conseguenza non programmata, nella accattivante storia di un percorso dove tutto rimbalza continuamente nello stupore, nel buio che accende i fari di deliri che conoscono la ripetizione. Le chitarre, la tastiera, il basso e la batteria sono corpi creati per dare all’azzurro un colpo di tosse, facendo uscire molecole contagiose di quella parte del rock che non puoi controllare. La sfrenata collezione di fantasie divaricate, generose, si materializza nella magia: chiudete gli occhi, il loro magnetico esercizio di sublimazione cancellerà la noia producendo respiri e sospiri imprigionati dalla intensità e dalla bellezza, nel giardino della profondità. Conoscerete filastrocche, pastiche sensuali, morbosità antiche con la forza del fragore moderno. Sperimentatori audaci dell’impossibile, disegnano la perfezione in trame lunghe e continuamente aperte alla manipolazione, ricordando a tutti che non esiste solo il Prog a fare questo. Miscugli di surreali percorsi ipotetici qui trovano concretezza: vibrazioni ammalianti che fanno sentire le loro canzoni come se fossero lo starnuto perfetto di un angelo in cerca del sonno eterno. Ogni composizione tesse trame che non conoscono sosta, con loop che convincono a divenire ubbidienza implacabile perché siamo pure noi musicisti ascoltandole, non paresi ma pennelli a nostra volta. Raggiunta l’epicità, la riflessione, il vibrato interiore che fortifica l’età adulta, si può trovare agio nella loro identità selvaggia ma ragionevole: solo il nomade cambia la pelle, così facciamo noi ascoltando questo concerto, il loro primo dopo il disastro pandemico. Sapendo spaziare nei decenni, negli stili, mettono la benda ai cliché per respirare la libertà espressiva maturando continui sconvolgimenti. Ecco arrivare le condizioni attraenti del surreale a favorire la curiosità e gli estremi che si danno appuntamento in questi minuti benedetti dal Dio della musica, della ricerca interiore e della gioia più spavalda. Pennellate liquide, languide, nervose ed erotiche per un disegno di legge che stabilisce completo abbandono, per incontrare la violenza di emozioni fortissime. Tutto si fa marziale, abrasivo, lancinante e piacevolmente insostenibile: regalatevi cento minuti di follia totale, farete la più bella doccia emotiva degli ultimi anni…

Struggenti, nervosi, pacifici con interezza sublime, un concentrato di contraddizioni ribelli ma educativi, i Leech sono il guanto perfetto per toccare ogni instabilità uscendone intonsi, senza possibilità di infezioni bensì guariti da ogni male interiore, perché capaci di spazzare l’inutile.

Il migliore Live degli ultimi vent’anni per il vostro scriba: sono talmente sicuro che la vostra intelligenza coglierà questi fiori meravigliosi da potermi congedare felicemente… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Novembre 2022


https://leechofficial.bandcamp.com/album/live-06062020


https://open.spotify.com/album/3cc8yjj31E6toviqZsLoo4?si=djpFQAgpR7eN30-hbdA8eA







sabato 26 novembre 2022

La mia Recensione: Claudio Baglioni - La vita è adesso

Claudio Baglioni - La vita è adesso


Ci sono pozze di fango che cercano poesie: di solito sono i poeti a concedergliele, ogni tanto gli scrittori di canzoni, ma a regalargliele sono sempre le anime sensibili e solitarie. C’è un abbraccio da donare a chi non ha ascolti, a chi non ha parole da offrire. 

Esiste però la sorpresa di chi sa farlo a distanza attraverso versi che donano entrambe le cose, che si incollano perfettamente. E certi cantanti permettono questo raro idillio, facendo divenire quelle persone fortunate, equilibrate, finalmente nella condizione di sentirsi vive in una migliore propensione verso il presente.

Tra i solchi più generosi in tutto questo vi sono quelli de La vita adesso, un crocevia di scrittura elevata e suoni perfetti, per un combo che resiste all’uscita, perché la vita più che adesso è per sempre, con le sue magagne, le sue storie appese agli alberi dei bisogni, a quegli istinti che possono donare un bacio come un proiettile in testa. Ciclica, è uno spazzacamino dell’anima che in più mette dentro di noi piume e mattoni.

Claudio Baglioni nel 1985 ha completato il suo cammino fatto di un meritato successo scrivendo però (sino a quel momento) il suo album più riuscito, centrato, in grado di rendere gli italiani uniti non solo nelle spiagge bensì nelle autostrade dei sogni, nella coscienza sveglia per dovere, senza scuse, e nei quadri emozionali con la cornice perfetta. Ed è stato un botto di capodanno anticipato: era l’8 giugno, il caldo era ancora equilibrato, la stagione quella giusta e l’Italia viveva un momento critico con la modifica dei patti Lateranensi, il Presidente era Sandro Pertini, capace di vigilare come poteva sulle malefatte di una classe politica sempre in forma per fare del proprio peggio. Per quanto concerne la musica, quella internazionale del  momento  favoriva We Are The World e la finta della solidarietà viveva quasi come se fosse vera…

A Roma il Claudio nazionale mise in commercio l’album che avrebbe fatto il record del più venduto della storia italiana, valido tuttora, testimoniando che il successo fa incontrare molte anime, ma lasciando forse ancora più sole molte altre che non potevano nuotare a proprio agio tra quelle note, quello stile e quelle parole. È sempre un poco contro il molto, la guerra delle insoddisfazioni davanti alle gioie.

Però lo scriba viveva su quelle canzoni la contraddizione di trovare un oceano incantevole e pulito e la rabbia per quella musica che preferiva e di cui in quell’album non vi era presenza alcuna. E oggi sceglie di parlarne per dare voce a quella parte soddisfatta: di quell’altra lo fa già tutti i giorni.

Inquadrare questo lavoro senza pensare a ciò che ha rappresentato è una fatica assicurata ma, tant’è, ho deciso di provarci. Risulta decisamente di appartenenza molto di più a chi l’ha amato e addirittura a chi lo ha contrastato (ed erano molti) che non al suo autore, sempre impegnato a disegnare tavolozze nuove per non sentirsi legato al suo successo. Ma ha messo radice nei cuori, nei gesti, nella modalità di osservare le persone, le relazioni, gli oggetti, e tutto l’ammasso che popola la nostra esistenza. Ha generato frenesie, brividi, pianti, specchi di sole a pettinare il buio del nostro affanno quotidiano, ed è diventato motivo di una festa da recitare ad ogni evenienza, continuamente. Disegnando il tempo, inserendolo totalmente in ogni piccolo dettaglio, Baglioni è divenuto così, velocemente, il centro di spartizione dei segreti, delle verità e finanche dei dubbi che in quelle canzoni emergono con rara raffinatezza e garbo. I quadri appiccicati al cuore consolano e accompagnano i battiti nella nostra incoscienza, avendo però il merito di lasciare un sorriso nella mente, sempre fresco. Abbandonata l’abitudine di fare fotografie alla vita con decine di canzoni che, come racconti precisi, creavano una pellicola mentale sempre disponibile alla visibilità dei ricordi, con questo disco Claudio dipinge la contemporaneità mentre decide il suo destino e indaga sul fatto che in questo la tecnica fotografica possa essere solo imprecisa. Quello fu il momento nel quale si sono aperte nuove possibilità di espressione nel suo percorso artistico, la prima davvero notevole, ed è proprio questo aspetto a stupire per il successo ottenuto: decisamente un  evento atteso da una massa di ascolti che sino ad allora ancora si spartivano liberamente, ma anche confusamente, gli ascolti. Lui avvicinò, compattò, mise le mani del suo sentire nella stretta di acquirenti che trovavano nella sua musica un appuntamento doveroso, generoso, essenziale, dove l’impegno più importante si rivelò quello privato, personale, e non quello sociale.

E il suo ruolo di cantautore tornò alla radice del tempo, ai suoi prozii, cioè i cantastorie, i primi a coniugare la necessità di un racconto di istanze personali con l’impegno. La vita è adesso è un collante, una matriosca che spazza via le convenzioni, i pruriti egoistici, ed è anche un sottofondo per pensieri confusi, una distrazione, un tuffo sospeso senza avere nel cielo l’infinito perché le canzoni, una dopo l’altra, offrono una volta celeste diversa, piena delle sue storie. Piante di note che come sempre hanno il groppo in gola, tracciano la tristezza senza mancare la precisione, in un crescendo che però sa incontrare il sogno e la necessità di smarcarsi. La capacità di precisare gli stati d’animo appartiene ai fuoriclasse e non importa lo stile, la musica utilizzata, perché ciò che è preciso avvicina le persone, le mette a contatto con la verità. Certamente l’aspetto musicale non è da meno: si assiste a un grande cambiamento, a chitarre dal piglio rock e alle orchestrazioni di Celso Valli che si amalgamano perfettamente, generando una opposizione intelligente all’elettronica del Synthpop e del New Romantic, così vivaci e onnipresenti. Fior di turnisti diedero qualità e sostanza a note, accordi, linee melodiche che, seppur avendo una tecnica decisamente distante da quella italiana, ponevano incredibilmente in risalto le peculiarità della musica nostrana, spesso avvezza a scimiottare quella di altri paesi negando la propria natura. La scrittura di Claudio Baglioni conobbe nuove necessità, nuovi agganci nel cielo, che sortirono l’effetto di un binomio non prevedibile perché lui è sempre stato legato a uno stile compositivo più classico e riconoscibile. Il suo romanticismo innato questa volta trova sede nella splendida Monte Mario, che gli consente un clima interiore perfetto, con la giusta brezza nella sua mente affamata di immagini e storie che fossero adatte al suo progetto di scrivere un album che avesse la forza dell’eternità, incentrato sull’argomento che si rivelò vincente. Ha saputo coniugare la sua modalità così profondamente legata agli anni ’70 con tutta la tecnologia della metà degli anni ’80, trasferendo la sua romanità nel centro di Londra, trovandosi così al cospetto di musicisti abituati alla grandezza, a rendere preciso ogni atomo di suono. Prese la giornata di un uomo qualunque (vittoria assoluta, senza favoritismi da contestare) e lo buttò al centro del racconto del suo percorso umano, tra incontri, soddisfazioni e lamentele, preoccupazioni varie, giochi d’amore in serie e gli inceppi di un’anima comunque turbata perché questo fa la vita con ognuno di noi. E qui viene fuori un tratto coerente e continuativo che metterà a proprio agio gli ascoltatori, potendo trovare una culla, un vestito e una scarpa da appoggiare sulla propria pelle perfettamente. Quando si scrive un disco sui singoli attimi dell’esistere il rischio di tediare, ingolfare e saturare è elevato, ma Claudio ha saputo destreggiarsi, superarlo: alzata l’asticella, le gambe della sua bravura si sono allungate compiendo un salto stratosferico verso il cielo conferendogli il mito, obiettivo che forse albergava nella sua ambizione più privata, senza la quale non si cresce. Arrivano metafore, idee di appartenenza, squilibri che ricevono il supporto di una penna dorata che dona a tutti loro la pace, dentro la pelle della sua notte avvolgente e rassicurante, perché in questo album la positività trova modo di mettere radici nella terra quasi arida delle esistenze, pericolosamente ai piedi del baratro. E quell’uomo, il protagonista che soffia in queste canzoni la sua poesia esistenziale e il suo impegno, ha il sorriso obliquo, su labbra che baciano la consapevolezza che la vita vada vissuta. Il racconto si fa illuminante, tenero, con le immancabili presenze di bolle colme di amarezza a rendere credibile il tutto. Decide di conferire trasparenza alla solitudine, baciando la sua esistenza con la possibilità di valutarne la forza e pulendo il senso della contigua sofferenza: sì, ha scritto miracoli umani dentro molti versi, donando energia elettrica ai pensieri degli uomini grigi, ops, persi. Offrendo le coordinate musicali che potessero contenere una varietà indiscutibile, l’orecchiabilità rispetto al passato è data da rime baciate perfettamente e assonanze sensate, ma esistono anche episodi nei quali l’ascolto deve essere attento perché meno facilitato, riuscendo a far sposare la semplicità e la complessità: forse anche questo aspetto spiega il perché del suo successo. Il linguaggio usato potrebbe essere risultato meno comprensibile a un pubblico più giovane, ma è stato in grado di suscitare interesse e affetto in ogni caso, perché le canzoni regalano sensibilità e intelligenza che, anche se non percepita del tutto, sono semi pronti a crescere e sappiamo bene che nella adolescenza certi appuntamenti sono solo rimandati. Altra chiave di lettura per capire questo suo dilagante arrivo alle generazioni più distanti, ognuna con il proprio tempo di assimilazione. La sfera di persone più adulte trovavano immediatamente la necessità di connettersi al lungo discorso di Baglioni, una spartizione di averi che necessitava l’assimilazione, in un momento nel quale i testi in generale stavano divenendo contenitori vuoti e inservibili. Conseguentemente lo spazio era stato preso da questo cantautore sempre più immerso nel precisare, nello sferrare calci educati alla pigrizia e alla banale contentezza che andava fermata. Un servitore socialmente utile che prestava però attenzione alla necessità dello slogan, di idee che potessero fratturare un bisogno generale. Le voci dovevano trovare un unisono e lui lo creò, lo fece trovare a nostra disposizione. Diventò capace di sperimentare l’idea di una maturità quasi obbligatoria e la formò con abilità, un tenero addio al decennio precedente dove si concesse i limiti di storie d’amore che in molti faticavano ad accettare. L’identità reclamava l’accesso verso una mutazione e affidò tutto questo non per caso alla storia quotidiana di un uomo e non di un ragazzo dal cuore acceso da impulsi ed eccitazioni varie. I brividi consegnatici sono quelli di consapevoli capogiri, di esperienze che hanno eretto il pensiero, seppure a fronte di un corpo ingobbito. Questo non fu altro che la madre di un’intesa crescente, il doveroso appuntamento di un obiettivo al quale non si poteva sfuggire: congedarsi dal passato senza dimenticare, ma maturando la doverosa esperienza per costruire basamenti concreti per il presente che divenne per la prima volta il suo bisogno primario. Un muro alzato verso la ripetizione di cliché congeniali solo per chi lo amava follemente, dal  momento che in lui emergeva una necessità di descrizione totalmente devota a un argomento specifico. Da lì partire come un sarto del pensiero per sviluppare il tutto.

Difficile è il lavoro che Claudio ci obbliga a fare: la memoria è messa sotto pressione sia per la quantità di parole che ci troviamo addosso, sia per i ritornelli che tendono a non ripetersi, sfiancando una delle caratteristiche storicizzate delle canzoni. Tutto trova una forma molto varia nelle modulazioni, nei periodi lunghi delle strofe, nel suo bisogno di scrivere un libro per ogni brano perché nulla doveva essere impreciso, per non concedere fughe ai particolari che si riveleranno essere i veri tesori di questa sua metodica. Può risultare indigesto questo percorso, capisco chi non riesce a masticare il suo stile (tra l'altro in questo album molto cambiato, quindi parrebbe stupido agli occhi dello scriba muovere accuse...), in quanto non mi pare complicato accettare l'invito a separarsi dalle convinzioni, lo faccio perché credo nel messaggio proposto, nello stile di una musica adulta, vivace il giusto, mai melensa, determinata ad avere lo sguardo fiero nei confronti delle star internazionali. Non dimentichiamo che questo disco riuscì a battere nomi altisonanti, procurando una notevole sorpresa. Per questo forse bisognerebbe concedergli almeno una opportunità, poiché le canzoni aprono il cielo verso uno sguardo scevro dai limiti che non sono i suoi ma quelli di altre persone. 

Ma la musica che troviamo? Non si può negare il lavorio mirato, curato, specializzato verso un'apertura a cui in quel momento pochissimi artisti e band avevano il coraggio di pensare, figuriamoci proporla. Il coraggio qui presente è manifestato nelle architetture, negli strumenti utilizzati, nei campionamenti, nelle teorie che conobbero la capacità di divenire realtà, dove il respiro classico delle arie ottocentesche non si chiusero timidamente, ma decisero di palesare le loro grazie davanti a quella tecnologia che sembrava essere così spavalda, piena di sé. Un matrimonio di modalità che ampliò il mare delle accoglienze e di una intelligenza che voleva essere ancora umana e non artificiale. Quando la musica vive la necessità di contemplare il nuovo e l'antico crea conseguentemente messaggi nuovi, dando l'esempio, forza, possibilità e La vita è adesso lo fa davvero molto bene. Abitare la luce nei suoni magnificamente espressivi di queste dieci composizioni è un dono e non un regalo, sottile differenza ma importante da recepire: dono perché esistente e accolto solamente se c'è necessità e interesse, non un regalo, la musica non deve esserlo, e chi lo riceve spesso ha la memoria corta.

Aggiungo che ascoltarlo, oggi nel 2022, non dovrebbe solo essere una cavalcata nella nostalgia, nei ricordi che si sa svuotano il senso e il valore principale della musica, vale a dire la sua evidente connessione con l'eternità, sempre in grado di insegnare, bensì l'occasione per evidenziarne le qualità. Stimola ancora pensare che per una volta non ci troviamo davanti a un album infarcito di misteri, ma a un raggio di sole che illumina le esigenze di anime alla ricerca di luoghi, cancellando il bisogno di legarsi alla modalità interpretativa per concedere quella libertà che un ascolto profondo non dovrebbe mai avere.

Capitolo voce e interpretazione: non vi è dubbio che il range, notevole e come sempre valido, qui trova il picco della sua carriera, esse sono legate a parole maestre e quindi desiderose di avere l'interpretazione e l'intonazione corretta. Non una di loro offre esitazioni, sono perfettamente centrate, dando una sensazione di coesione e non quella di iati che in passato avevano mostrato il volto. Una modalità che si affida a zone per lui nuove, con le tonalità basse che non congelano, anzi, sono quelle maggiormente preposte a scaldare il cuore. Il suo registro alto, la sua estensione, i suoi acuti sono ancora capaci di far vibrare i lampadari del nostro padiglione uditivo, e in un paio di episodi direi ancora di più. Interprete efficace, sicuro, mai spavaldo, sempre in grado di dare verità e credibilità a quegli esercizi raffinati che sono quelle parole magicamente incastrate tra loro.

Non scriverò la descrizione canzone per canzone, non è necessario questa volta, non voglio toccare la vostra storia con loro, rispettando anche solo l'idea di un mio esercizio sterile e privo di senso.

Concludendo: non è un supermercato questa uscita discografica, non una lista di cose dove prendere ciò di cui necessitiamo, bensì l'occasione di accendere la luce delle nostre intelligenze, perché è come se lo scrivessimo ogni giorno noi questo disco, adesso...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/07gMifgQGXzeoHjo7b1wbj?si=vJm1ixu-TQ2slElxtZrkpg




venerdì 25 novembre 2022

La mia Recensione: Low - I Could Live In Hope

 

La mia Recensione:


Low - I Could Live In Hope


“La paura è l’emozione più difficile da gestire. Il dolore si piange, la rabbia si urla, ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore.”

Gregory David Roberts


La semplicità, questa sconosciuta: una donna che fatica a resistere al dominio del nuovo che avanza e che, dimentico di lei, spazza via millenni e millenni per imporre le proprie colate di inutile ammassamento di verbose attrazioni composte di complicanze a cancellare la storia. Nella musica abbiamo assistito alla comparsa di generi musicali vogliosi di imporsi, cercando acrobazie stilistiche fatte di pallottolieri colmi di ogni tipo di esercizio sterile, di convenzioni dannose. Negli anni ’90 a predominare è stata la mancanza di stile, il caos sonoro, gli incroci a rovinare le razze che donavano chiarezze e, appunto, semplicità. Grunge, Brit pop, elettronica confusa e tanto altro hanno però dovuto fare i conti con lo slowcore, una rarità che ha fatto breccia in quegli ascolti che volevano conservare la purezza. Chi poteva fare meglio degli americani Low, il quadro senza futilità composto da Alan Sparhawk e da Mimi Parker? I due hanno deciso di combattere la paura, lo smarrimento, il vuoto, la banalità, affidandosi alla semplicità che coglie tutto e che regala mezzi enormi, come significato, per legittimare l’unico metodo utile per non sprecare la storia, per preservare il futuro dalla disperazione e dalla dispersione. Nel 1994 esce quello che sarà il loro big bang, la madre di ogni resistenza certificata, il capolavoro indiscutibile, il braccio e la mano per sostenere il vuoto. L’esempio. La partenza, la conferma che le lucciole per lanterne andavano condotte alla resa, sterilizzate, accantonate. Perché le cose semplici fanno chiarezza e impiegano solo l’indispensabile. Il suono, il metodo stilistico, gli elementi considerati per creare splendide canzoni hanno ingredienti brevi ma suggestivi, non un insieme di ingovernabili giochi beceri, che necessitano di una organizzazione faticosa e vaporosa, lasciando in bocca il gusto di un nulla privo di senso. Dalla cittadina del Maestro Bob Dylan escono timide ma determinate queste due querce dalle rughe bellissime, con le loro foglie figlie di incantevoli movimenti lenti, quasi pigri, ma dotate di nerbo e resistenze, determinate a non lasciarsi corrompere, a opporsi al vento della modernità. C’è qualcosa di pregnante, di liturgico, di irresistibile nei loro dipinti poetici, nella loro naturale propensione a sottrarre, nell’estremizzare una intuizione lasciandola nuda. Ed ecco scendere nel circo fluorescente undici giocatori senza sponsor, senza scritte stupide sulle loro magliette, con un unico schema preciso: segnare goals con un solo tocco, un tiro scagliato sotto l’incrocio dei pali. Tutto striminzito sin dai titoli: un’unica parola, secca, in cui il significato è già chiaro. Ecco che vediamo come il silenzio sia l’alleato migliore della musica: le permette il minimo indispensabile per abitare il cielo dell’eternità, del valore che non abbisogna di sovrastrutture. Un esordio tra i più grandi della storia musicale entra negli scaffali delle “cose semplici a disposizione dell’intelletto”: prendere o lasciare, facile…

La prima cosa che arriva, tra le poche ma essenziali, è una bacinella di lacrime leggere, a portata di vento, per divenire rugiada in assorbimento.

Nel bisogno di alleanze che siano in grado di tenere un profilo “basso”, ecco che gli strumenti rock per eccellenza si spogliano, si siedono ai piedi del nuovo che avanza per mostrare il loro vasto potere deduttivo, resistente, ammaliante: basso, chitarra, batteria e voce.

E come un pongo malleabile e offerto alla Dea del fato, avanzano cercando appigli, donando molecole che si appiccicano al veleno di esistenze multiple, uccidendole elegantemente. Le regole usate si riducono a due: arrivare al cuore e alla mente, affidandosi più al progetto essenziale che al talento (che non manca, sia ben chiaro), per scrivere storie pregne di valore, di resistenze significative, per dare all’esempio un trono stabile, una leva che sappia spostare quintali con un dito solo.

Sono fiori delicati nella nostra mente, dal profumo intenso, con lo scopo di distribuire nell’aria fritta e puzzolente dei nostri battiti una sequenza imbattibile di bellezza estroversa, tra piume e passi a contatto con lo stupore, che finisce per coinvolgere sentimenti ormai segregati, ma ancora dannatamente preziosi.

E cosa fanno i fiori se non rendere visibile il reale, spesso soffocato, sottratto alla vista proprio dalle cose inutili? L’album in questione è un campionario, una distesa di fiori, resi tristi dalla nostra scelta di lasciarli soli, non coltivati, non guardati con attenzione e amore vero. Brani come culle, carillon, ululati nel centro della notte a rendere chiaro che la presenza abbisogna di voci, spesso acute, spesso basse, ma costantemente accese per non regalare assenze. E i due sono angeli in continua fioritura, sempre disponibili con la loro disarmante capacità di sottolineare come ciò che diventa il loro progetto artistico in realtà sia l’essenza di personalità generose, dai pochi strumenti ma dai mille petali.


Assistiamo, in questo incredibile lavoro, a una trasposizione e alla trasfigurazione evidente e ineccepibile di un Giacomo Leopardi ai giorni nostri, nei quali decadenza, solitudine e poesia sono il matrimonio indispensabile per rendere la coscienza un punto di partenza e non di resa, per scrivere in musica la verità, il più grande nemico di ciò che al contrario ingolfa il loro quotidiano dando spazio a volumi di sciocchezze. Sono canzoni di seta in un mondo plastificato, sono briciole di pane volanti in un luogo pieno invece di luci artificiali che abbagliano uccidendo la vista. E allora l’ascolto si fa liturgico, silenzioso e abbondante, ridondante perché ciò che ci viene offerto è utile e prezioso. Unico, spazioso, profondo: undici petali che cadono inesorabilmente nel baricentro dei nostri battiti, con il loro impeto rock ridotto all’osso.

I Low ci dimostrano che non dobbiamo aver bisogno di macchine con motori dai grandi regimi di potenza ma di serbatoi capienti, per fare tanta strada seppur con mezzi di piccola cilindrata ed è quello che fanno le canzoni di I Could Live In Hope: ci portano dappertutto, senza esitazioni. Tutto raffinato, drammatico, esistenziale, progressivamente legato all’abbandono di ogni superficialità, dove il suono ammutolisce il cantato (seppure di gran classe) per fare dei giri perlustrativi tra i nostri sensi, come indagine emotiva e cerebrale, come estasi mesta, schiacciata da un umore intriso di tristezza ma mai di vittimismo. Arrivano arabeschi, intonaci da spalmare accogliendo il dirigibile del loro bagliore continuo che va da qualche parte, invitandoci, senza dire nulla: la loro musica in questo esordio si fa muta, discreta, e si gira di lato volendo incontrare le nostre labbra per un bacio candido e lungo. Sono assoli di intimità le chitarre, diventano punti cardinali i colpi di basso, sono carezze le spatole della batteria, che sanno divenire spazzole per pettinare il nostro senso ritmico dando solo l’indispensabile. 

Ci fanno volare in alto queste gemme perché ciò che sta in basso è insostenibile: la bellezza si deve distanziare, deve rifiutare la contaminazione e questo è ciò che avviene in questo perimetro del loro cielo, dove tutto si allarga e vola leggero, tra melodie frustranti per intensità ma necessarie, botti di vino pregiato tra le scie di un cielo ebbro della loro purezza, canzoni come gustose gocce di amara estensione, che passeggiano per abbandonare il mondo. Sono eroi questi minuti, senza più passato né presente: la loro ricerca è volta a creare un futuro dove l’immortalità sia il loro abito, unico e irripetibile.

Una valanga di soffi per chiudere la finestra da dove si vedono i cadaveri di atteggiamenti banali: ascoltare queste tracce significa serrarla bene e accendere il fuoco che queste brillii sonanti hanno nella loro intimità, per generare una corrente, illuminante, decisamente diversa.

Note che adempiono al loro semplice ordine: creare disordine nel tempo dove tutto viene catalogato, indirizzato e sublimato dal rumore. Con i Low, con questo esercizio stilistico, i bisbigli sonori diventano i nostri nuovi esercizi spirituali, legati da un senso corale che lentamente (eh già, proprio così, inevitabilmente) costruisce una spugna dove l’abbondanza non somiglia a una fiumana tossica di possibilità, ma a poche idee che circolano con il sorriso impertinente e determinato a difendere la sua unicità. Sono momenti nei quali ci si abbandona, si deve far posto a queste due voci che cantando insieme separano la sessualità, le caratteristiche primarie, per essere uno spiraglio di luce. Si piange, si ha paura, davanti a questa distesa verticale di tremori che gli amplificatori regalano, siamo cuccioli con il pannolino perché le emozioni generano liquidi in ogni parte del nostro corpo.

La disperazione viene metabolizzata, resa efficace e maestra, condottiera verso una verità da consumare e mantenere viva: altre band slowcore ci hanno provato, sono riuscite a fare altro, pure benissimo, ma questo aspetto è una esclusiva dei Low, senza dubbi. Quando la devastazione conosce questo tipo di approccio, la lentezza è già una corsa, irrefrenabile e quindi invito alla pazienza, ad essere attenti ai pregiudizi perché questa band non li merita. 

E non è più del tutto corretto definirlo come uno dei migliori gruppi slowcore: hanno la capacità di liberarsi da quella che potrebbe essere una zavorra, per agganciare quegli impasti sonori di un Alternative in cerca del loro range, in grado anche di visitare lo Shoegaze minimalista. Accadono cose meravigliose mentre ci si approccia a questo lavoro e se ne esce alla fine maggiorati di stupore, informazioni, con l’identità in volo…

Apprestiamoci a essere visitati dai loro cosmi: non sarà solo un insieme di viaggi, ma un crescere inevitabile dentro la melodica tristezza della loro arte.




Song by Song 


N.B.

Sarebbe bene che tutti i testi di questo album ricevessero un approccio profondo e accurato: ne va della comprensione di un insieme che non merita spreco.


1 Words


Dopo 14 anni (allora era quella di Ian Curtis a bruciare) ora è l’anima di Alan a farlo e il cantato iniziale ne fa sentire il dolore, trovando poi sostegno nella voce di Mimi per un viaggio musicale tra le stelle, dove gli Slowdive si spogliano e si fanno abbracciare da questa minimalistica  forma di tormento, con il basso a strappare l’equilibrio.


2 Fear


Atomi con Alternative, donando respiri più ampi che costeggiano la canzone, in modo che sembra avere accenni di colori più solari. Il senso corale delle voci supporta la chitarra ritmica che si fa più graffiante. Ma la bellezza più estrema sta in quella parola cantata in modo decadente: Fear.

Solo 134 secondi, ma infiniti…


3 Cut


Atmosferica, per la sua dose di enigmatica necessità di viaggiare dentro un film drammatico, Cut è una pellicola visiva che crea tremori, nella quale il basso proietta scene epocali e la voce è una piuma che cade nel vuoto.


4 Slide


Vogliamo una fiaba, un appiglio tra i raggi solari mentre piove nel cuore e lo troviamo in queste note dove echi di Nick Drake e Red House Painters sembrano giocare con il duo di Duluth. Ed è incanto che si infila tra le lenzuola del cielo.


5 Lazy


Se vi mancano i Mazzy Star e Mira, ecco quello che potrebbe essere un nuovo trio congiunto, votato a una devastante esibizione di pioggia, in caduta obliqua. Quasi sorniona, quasi psichedelica, del tutto magnifica per suggestione e senso di protezione. Qui si piange che è una meraviglia..


6 Lullaby


Forse la canzone più bella degli anni ’90. Di certo capace di creare un circuito emotivo senza molte possibilità di paragone. Il cantato di Mimi è la corteccia di un dolore su una breve chitarra paralizzante e sul basso che fa cadere tutto il silenzio nel vuoto. Poi questo miracolo decide di aprire le ali verso un grappolo di note che nuotano dentro se stesse, accelerando la percezione che le lacrime siano madri e non figlie di una tristezza conclamata. La chitarra di Alan in seguito si trasforma in un uragano, visita melodie che paiono arrivare dal medio oriente per qualche frangente e ci fa attorcigliare il fiato, con una acrobazia di cui solo gli angeli sono capaci. Ci si smarrisce dentro il delirio, sentendo l’umidità divenire vapore acqueo in ogni nostro pensiero. Quando la chitarra si fa quasi cattiva non possiamo che crollare e solo il ritorno di quell’arpeggio iniziale nei suoi ultimi secondi riesce a pacificarci il cuore…



7 Sea


Consapevole per prima del fatto che non possa ripetere la meraviglia di Lullaby, decide, per legittimare se stessa, di essere una breve presenza, per il tempo necessario a togliere il peso dal cuore e donarci un sorriso incantevole, in mezzo a voci morbide e la chitarra che vola tra la melodia rock più leggera e una sequenza di accordi che fanno in tempo a portarci al mare.


8 Down


A scuola di dolcezza abbinata all’incanto. Down si rivela una scheggia non urticante che si accuccia nel cuore, con la sua struggente propensione a divenire, secondo dopo secondo, un episodio unico di sospensione della vita. Sazia, svuota il superfluo e si affaccia al cospetto della perfezione.


9 Drag


Poche devastanti parole, dentro una nuvola sonora che ci riporta agli anni ’60, quelli dove il sole non presenziava alle giornate. Ed è estasi caparbiamente contenuta, una esibizione che pare uscita dallo Shoegaze totalmente denudato dai frastuoni. 


10 Rope


Un accenno Darkwave iniziale, poi è un siluro caotico congelato, un loop amniotico tra raggi pieni di freddo. La chitarra sibila come frastornata da una centrifuga e ipnotizza, come se fosse quella di Robert Smith tornato dentro una giornata piena di dolore.


11 Sunshine


Come se fosse conclusa la messa all’interno di una cattedrale, pare di trovare qualcosa di maestoso nella chitarra a cui basta un accordo per donare l’ampiezza del cielo: tocca alle due voci congedarci, testimoni di un incanto irripetibile…


P.s.

Cerchiamo di non essere limitati dall’essere umani: siamo noi a compiere l’unico miracolo possibile e rimettiamo la puntina sul disco per non separarci da questa infinita bellezza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/61dByu8oBt4qdym9Rkz39w?si=3o2_rvkZR2aVria9zt-zAQ



giovedì 24 novembre 2022

La mia Recensione: carillon del dolore - fiori malsani

La mia Recensione:


carillon del dolore - fiori malsani 


“Fa parte delle imperfezioni e delle rinunce della vita umana il fatto che la nostra infanzia debba diventarci estranea e cadere nell’oblio, come un tesoro sfuggito a mani che giocavano, e precipitato in un pozzo profondo.”


Herman Hesse


Qualcosa di eterno vive nel dolore, nella corsia cattiva di ogni oblio, nella supremazia del male che rappresenta l’uccisione dell’esistenza.

A una città in particolare tocca il triste primato di simboleggiare perfettamente tutto questo ed è quella nativa dello scriba: la maliziosa e velenosa Roma, la Regina di nefandezze, turpiloqui, devastazioni, colei che ha rubato il sole solamente per mostrare gli incanti illusori della bellezza, mentre nei sotterranei della sua mente scorrevano getti di morte senza chiusura.

Non sorprende che la band più significativa della capitale sia un riflesso fenomenale di antichi riti e quindi rilevante e sublime per questa contemporaneità ignorante che rifiuta la conoscenza e la coscienza del vero.

Questo serpente dal veleno incestuoso optò per un nome stratosferico, un’ottima potenza conquistatrice: già, è insito nel dna che al destino non si possa porre opposizione. Perfetto, per spalancare il cuore verso capricci di bisogni impestati, i ragazzi iniziarono proprio da quell’aspetto fondamentale, una attrazione fatale, obliqua, spigolosa, morbosa, cadaverica. 

Provenienti da due formazioni diverse, iniziarono subito a mettere le mani sulle frattaglie di pozioni lancinanti di scarnificazioni dal puzzo angelico nero, senza dubbi, per distinguere ogni atomo di melmosa illusione. Dovevano trafficare con ciò che suona perverso, ricoperto dalla pesantezza che schiaffeggia, ferisce, uccide.

Misero in atto una processione del suono, una facilità di note grasse e sgraziate, perfettamente allineate al selvaggio senso di soffocamento, nel vuoto cosmico di esistenze lamentose, come un vascello dai buchi pieni di sangue, naturalmente annerito e puzzolente. Sicuramente davano fastidio senza curarsi di verificare: come sacerdoti menefreghisti dovevano continuare a professare il verbo del dolore, dipingendo le note di una malattia incurabile. Fu proprio questo esordio il momento della più grande esibizione di classe marmorea del loro breve ma intenso percorso: sebbene la stragrande maggioranza abbia preferito l’Ep “Trasfigurazione”, lo scriba definisce invece “fiori malsani” il loro tempio perfetto, per la purezza vomitata senza eccessi di bravura tecnica e di produzione, ma con l’indiscutibile capacità di mostrare un talento puro, con la giusta dose di contaminazioni. Ancora capaci di non dover necessitare di termini di paragoni ingombranti, offensivi, limitativi e dannosi, tutto ciò che sta al suo interno è una fragorosa bomba sensoriale che trafigge la pelle e la mortifica.

Con un prologo e sei vere e proprie successive lame metalliche a completare quella che allora fu una uscita su cassetta, l’album permise alla band di trovare martelli come puntine da disegno con le quali graffiare la scena gotica italiana avvezza al copia e incolla. Lo fecero pure loro nel secondo lavoro, poco male: qui si trova il Sacro Graal della band capitolina, il suolo consacrato all’eternità che, come sappiamo bene, è l’unica perfezione che qualifica qualsiasi cosa e qualsiasi presenza umana. I suoni sono gli avamposti di inclinazioni atti ad attivare reazioni immediate, con le future architetture melodiche a definire la loro validità, tra devastazione e diabolico piacere. Quote di raffinatezza raggiungono i sepolcri del cielo, attraverso un filo diretto con i corpi mefistofelici del centro del pianeta Terra, in una congiunzione funzionale e sequestratrice. Sono scintillii, lucidi, metallici, che schiacciano le adenoidi e i respiri, un funerale con i nostri corpi ancora in vita ma pronti a scendere nell’abisso. 

Questo lavoro mette distanze, si separa dal flagello imitativo e proprio per questo motivo riesce a sostenere, come calamita impavida e crudele, un esercito che arriva come il prodotto dei due fratelli fondatori di quel delirio senza catene che è Roma.

Si scavalcano i generi, si oltrepassa il confine di ogni limite interpretativo e ci si libera di ogni zavorra: tutto si fa sudore, lacrima, confusione, annettendo il libero arbitrio che sfugge alla dipendenza, all’interno della nostra sconfitta, perché si finisce per adorare il tutto, dando loro, in modo manifesto, il più gonfio dei trionfi.

Ascolti queste canzoni come se avessi la consapevolezza della velocità di trasformazione della nicotina in un mare di petrolio che velocemente arriva ai tuoi gangli della base: rischi una malattia degenerativa, per diventare succube di uno strazio in grado di rendere il tuo apparato uditivo uno schiavo nero, gotico, preso a calci.

Il drumming è l’ingresso del precipizio, con memoria post-punk di manifeste influenze, in grado di un punto di contatto, come il soffio divino rappresentato nell’affresco di Michelangelo Buonarroti all’interno della Cappella Sistina, e le chitarre sono oscene rappresentanti della ferita mentale della storia dell’uomo. Un delirio di perfezione che rallegra seppur in mancanza di ossigeno. Ed è il festival del rumore che danza tra accordi e pulsioni estorte, nella via crucis obbligatoria di uno stordimento continuo. Carillon del Dolore è un bambino che sconfigge la vita sin da subito, non spreca il tempo e comincia ad assassinare i sogni, usando la fantasia per creare campi magnetici, e non immaginifici, per sconfiggere il pietoso mondo adulto.

In questo album più che canzoni troviamo compartimenti stagni di suoni continuativi, dove ciò che emerge è il senso e non il vestito semplicistico e fuorviante di schemi volti a differenziare le creazioni. I Romani giocano sporco, vogliono spaccare il sistema dell’omogeneità, del catalogabile, del già sentito, e salgono sul palcoscenico di un teatro temporale per massacrare la canzone: un omicidio dove gli strumenti sono alleati fedeli di un nichilismo che forma intelligenze innegabili, solitarie, chiuse in loro stesse mentre ci aprono le carni. 

In seguito arrivò l’attrazione per la già nota forma Deathrock, eleggendo i Christian Death come i loro Vangeli apocrifi, da cui attingere e apprendere. 

Qui no.

Qui, nel volume macabro che non abbisogna di maestri, sono loro stessi gli insegnanti che hanno sviluppato studi, teorie, esercitando il potere di uno stupore continuo, abrasivo, pelvico, senza possibilità di smorzare la loro forza.

L’Italia musicale, agli inizi degli anni ’80, importatrice schiava dell’assenza di uno spirito di avanguardia necessario (ormai da molto tempo), non poteva meritare questa effervescente dimostrazione di genialità e originalità, e li ha condannati al culto di una minoranza che però non si è lamentata: ancora oggi questa band genera cupe propensioni adoranti, rendendo ridicolo il potere dell’industria musicale e di gran parte di quella editoriale del settore, che ha sempre mostrato un colpevole disinteresse. 

Poche eccezioni: espressioni di un tutto vergognoso.

Nello scenario vacuo italiano, i Carillon del Dolore diventano angeli che, dall’alto di tenebre temute, allacciano un discorso per le anime vogliose di perlustrare i confini laceranti di ascolti massacranti che pochi volevano sperimentare: tutto trova esaltazione proprio all’interno di “fiori malsani”, un sisma di cui l’informazione ha voluto tacitare l’esistenza, perché la democrazia si prefigge solo e sempre di portare il finto bene e, quando si parla di cronaca nera, solo un ammasso di uccisioni ahimè convenzionali. Ma questo plasma nerastro abita altre forme sinistre, evoca l’intollerabile, e già per questo motivo entra nei territori pieni di ringraziamento dello scriba. 

La voce e il cantato in questo primo episodio è l’autoscontro immediato tra la comodità e la fascinazione del ventre verso poltiglie che stimolano reazioni adoranti e piene di piacevole disagio. 

Prendete le vostre contorte curiosità e prestate attenzione: si va nel petrolio emozionale dipinto di nero, per meglio conoscere queste sette spade insanguinate.


Song by Song 


1 Prologo 


Quarantanove secondi usciti da frammenti di luce di un film di Mario Bava per creare la tensione sinistra di una ninnananna di malate vicissitudini a noi segrete. Il crooning è ipnosi e le note che appaiono giocano con l’ombra.



2 A Kind Of Love/A Kind Of Hate


Tra Death in June e Super Heroines, inizia il colloquio sonoro di chitarre come frecce bagnate nei pressi di pendii di allucinanti pendenze e tamburi medievali ricoperti di molecole infette di peste bubbonica. Grida come code di lamenti e non resta che farsi trasportare dal vorticoso ritmo che accelera ogni paura.



3 On A Poetic Morning 


La pioggia invita il binomio basso e chitarra a fare della batteria una tempesta di lampi accaldati con la voce lamentosa che sembra un malevolo sottofondo. I Virgin Prunes mediterranei suonerebbero in questo modo, con la frustrante sensazione che la canzone sia il luogo della nostra totale devozione. Giungono chitarre come strali perpetui a rinsaldare il legame come una sezione ritmica avvelenata.



4 R.H.S.


L’episodio più “convenzionale” dell’album si apre con una chitarra semiacustica sorprendente per poi condurre il brano nello schema Darkwave, ma con il marchio di fabbrica di piccole schegge deathrock che preparano la base futura della band. È caos ragionato perché melodico quanta basta per consentire spazi di un classicismo che, in mano a questi suoni, incanta.



5 Elegy For A Friend


La malata esibizione di una classe hors catégorie è composta di metalli fuori dagli amplificatori, sbigottiti dai vortici di greche rimembranze, che sfidano Roma la spavalda. Il cantato è un processo di depurazione che consente alla sezione ritmica uno spazio che si alterna per rendere il brano omogeneo. Ed è San Francisco nel tempio gotico che aspetta la cugina Los Angeles, per un banchetto sonoro che lascia bava ai lati della bocca.



6 Crawling Over The Window (Just Like A Fly)


Non mancano i Joy Division portati al manicomio, bloccati da catene pesanti, la voce si esibisce da molto lontano, con timidezza, ma le tonsille sono graffianti ed efficaci. Una cantilena uscita dalla porta dell’inferno, una trascinata zoppia gotica che isola la voglia di vivere, schiacciata dal drumming post-punk imbevuto di sale e dal basso che pare una percussione a sua volta.



7 Pain


I capolavori sono vestiti spesso di piccoli cenni, contemplano la lentezza e la precisione, tutelano ogni spreco con l’abbondanza di drammi rappresentata da una parata di codici. Si può essere adulti solo quando il dolore separa il sogno dai bisogni e questo accade nella presente voluminosa dimostrazione di crateri che si sciolgono davanti alla classe di questi ragazzi dai respiri imbrattati di morte. È acidità gotica che esce dalle catacombe romane per immobilizzare il benessere e scatenare le corsie della sofferenza, sempre in una modalità lenta, al fine di assicurare la riuscita, per poi lanciare la sfida con accelerazioni che portano la mente e i corpi nel precipizio che aspetta travolto dal godimento. Qui regna la Roma del dolore e qui inizia la nostra gioia.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Novembre 2022 




mercoledì 23 novembre 2022

La mia Recensione: Ultravox! - Ha! Ha! Ha!

Ultravox! - Ha! Ha! Ha!

“Avremo bisogno di conservare per più tempo possibile la traccia, l'identità congelata della nostra decadenza.”

Giorgio Falco


Non siamo immuni dalla decadenza, avendo scelto di maritare il progresso e quindi seppellire valori, abitudini, possibili appigli. Ci si è velocemente connessi al cambiamento e ai suoi deliri, che abbisognano di tempo per essere smentiti e che raramente capita di vedere.

Ecco allora la musica, spugna epocale dei passaggi, di stratificazioni che tendono a esaltare, spingendo l’ascoltatore al convincimento.

Si era quasi alla fine del 1977, al termine del periodo nel quale il Punk stava facendo scivolare la sua breve storia nel cestino, nella zona “oggetti inutili”, e molti ragazzi, più saggi di parecchi adulti, colsero l’occasione per fare di quel movimento artistico qualcosa da cui prendere solo la parte migliore. Il Post-Punk fu innanzitutto una vicenda di costruzione di nuovi valori e il basamento per connettere arte e cultura su un piano decisamente migliore. 

Tra i primi sicuramente ci furono gli Ultravox, band culto e esseri umani dalle molteplici capacità, in grado di disegnare, all’interno di una immensa creatività, la mappa di attitudini con l’intenzione di scaldare l’ingegno e raffreddare l’impeto del Punk. La loro musica era solo la parte che emergeva maggiormente, ma all'interno dei loro percorsi intellettivi vi erano processi evolutivi di grande spessore. Molteplici e fuori moda. Imponenti e coraggiosi. Spavaldi e saggi, con il misuratore di una intelligenza naturale coniugata a quella artificiale. Una navicella spaziale in orbita dentro il pianeta terra per portare le informazioni al mistero dell’inconscio. Questo e tanto altro sono le particelle visibili a occhio nudo del loro indiscutibile peregrinare tra mistero e pazzia senza redini.

Dopo l’album di esordio, uno dei migliori di sempre e tenuto magistralmente a bada dall’ignoranza discografica e collettiva, il secondo fu un gioiello dadaista, il figlio dei fiori di una ribellione composita e ingovernabile, con il suo mutare costante, senza il mantello soffocante di definizioni qualunquiste. 

Capace di tenere una luce finta sul punk, lo affossa e lo spurga da ogni tediosa tendenza nichilista, trasformando l’impeto in una selvaggia parata tra nonsense e follia ripulita dall’esagerazione, per far invece venire a tutti l’idea che dopo un tramonto brutto esista un mattino in cui il sole deve arrivare solo attraverso una musica che, oltre a non dimenticare il passato, illumini il bisogno di un futuro dai nuovi raggi. Un album capace di usare il fuoco non come distruttore del tutto, bensì come metodo per disinfettare le ferite e rifare il letto del mondo occidentale. 

Con una valanga di accenni musicali capaci non di spaziare tra i generi musicali ma di collegarli alla geniale convivenza, questo è il culmine del loro fragore interiore ed estetico, un epitaffio precoce, dove tutto ciò che doveva morire trova la sua lapide, piena di oscillazioni sonore, riferimenti acculturati e la diabolica impressione che a essere defunto è un certo concetto dell’arte: anestetizzata la semplicità, i cinque crearono mulini a vento tra le note, con caleidoscopici affreschi, di incontenibile bellezza. 

Destinazione? L’Olimpo che non riproduce ciò che va lasciato all’originalità.

Perché senz’altro questo lavoro presenta un collage visivo senza precedenti, sapendo perlustrare le fruibili esigenze e proposte di cui l’arte musicale necessitava, concludendo la prima parte della fulgida esistenza della band con il figlio legittimo dell’esordio, ma impedendo al terzo di avere le stesse caratteristiche e capacità così rilevanti.

Ha! Ha! Ha! è l’ingresso anticipato di quei anni '80 che volevano la separazione a tutti costi dai ’70. Ed eccolo il primo ruggito del nuovo che desiderava emergere, ma senza averne consapevolezza.

Dalla periferia del mondo arriva la vita superficiale ad attivare nuove emergenze e gli Ultravox saranno tra i pochi a determinarne il senso e il valore con canzoni pilota.

Su otto composizioni solo 2 vedono, tra gli autori, tutti e cinque i membri della band: segno rivelatore di una centralità compositiva determinata soprattutto da John Foxx, Currie e Cross, senza però togliere agli altri due membri, Cann e Shears, la possibilità di contribuire a un disco che come segno primario rivela il suono collettivo di una nuvola pesante, in grado di spargere raggi pieni di invenzioni molteplici e ben legate a una spaventosa duttilità di strumenti, che perdono il senso convenzionale per essere indirizzati verso una egemonia sorprendente e scambi di identità.

Un album che genera influenze continue, con l’occhio vigile nel guardare al recente passato, il genitore meno famoso di un’onda, di un impeto che vide quei primi dieci mesi del 1977 come, forse, i più generosi e fluidi degli interi anni ’70. Il giovane produttore Steve Lillywhite inizierà proprio con gli Ultravox a esplorare soluzioni di impatto collettivo, a dare libertà alle sue innovazioni per consentire alla band di abbattere i confini dei limiti. Il suono si fa riflessivo, aggressivo, lancinante, voluminoso, esplorativo e molto sensuale. Non mancano le zone folli e cupe per un perfetto crocevia sensoriale che è in grado di essere devastante e premonitore di lì a breve di una fioritura artistica incontrollabile: il futuro inizia in queste otto tracce, dove il rock e l’elettronica si prendono l’onere di ruoli marginali ma fissano un gemellaggio che si rivelerà di indiscutibile valore.

Scrittori di un romanticismo moderno e di una chimica elettronica che sfiora la freddezza più acuta, i ragazzi avvolgono le ipotesi di un senso pratico indiscutibile, rinnovando il guardaroba musicale attraverso l'invenzione di una nuova stagione: quella della zona lunare della paura che trova il coraggio dell’autoanalisi. Sono capaci di responsabilizzare il ruolo sociale di informazioni che, tra sconvolgimenti e razionalità, abbisognano di un luogo dove possano essere riconosciuti. 

Il rock viene decomposto, fatto avvicinare alla ricchezza del glam (sicuramente in qualità minore rispetto al successivo Systems of Romance), alla pulsione arrogante di suggestioni progressive minimaliste e alla integrazione di stile punk per lo spazio necessario per non escludere quel genere musicale che così tanto aveva fatto sperare chi non capiva che era nato già morto. Gli Ultravox gli diedero una splendida sepoltura ricordandolo per il tempo necessario.

Pionieristico, intraprendente, sganciato da schemi soffocanti, questo lavoro diventa l’alba del futuro, senza affossare il passato e già per questo motivo da considerarsi un capolavoro, essenziale per capire, studiare quel periodo e per tracciare nuove direzioni, dove su tutto si eleva il matrimonio artistico tra John Foxx, il londinese con cittadinanza nell’universo di una incontenibile saggezza, e Billie Currie, il mago della esplorazione e al contempo della sintesi sonora, capace di scovare il segreto della perfetta miscelanza tra scoperte e confermate attitudini stilistiche.

Non sarebbe corretto non riconoscere agli altre tre il loro contribuito ad una progettazione stilistica di avanguardia, donando un senso di insieme quasi unico. Londra capitale del fermento, di un sentire che prevedeva e precedeva, innaffiando la scelta di nuovi entusiasmi. Gli Ultravox di Ha! Ha! Ha! proiettarono la forma canzone nel bisogno di una nuova energia, di smentire chi la voleva ancorata a dei limiti e a delle regole. Il loro stato connettivo riempì le canzoni di un furore diverso, mise le abrasioni della scomodità a disposizione della genialità, dandole ringhiosi approcci, che, con tastiere e sintetizzatori malinconici e lugubri, aveva gettato le basi per  nuovi accessi a melodie e per ritmi in attesa di esposizione.

Non perdiamo tempo: una buona osservazione di queste canzoni forse aiuterà  a capire meglio di quale immensità vi sto parlando.


Song by Song


1 Rockwrok


Si incomincia con una danza eletto-punk, il corpo che sprinta su chitarre lancinanti e graffianti e un piano ossessivo, con l’ombra ribelle dei Roxy Music a tenere vivace la tensione.


2 The Frozen Ones


I Simple Minds ruberanno clamorosamente l’attacco iniziale di questa canzone divisa in due parti: di atmosfera, suggestiva, melodica, per poi divenire un TGV, con un assolo stridulo su una base synth semplice ma efficace, mentre il basso devasta lo spazio rimanente per un risultato davvero in grado di riassumere i primi sette anni di rock alternativo.


3 Fear In The Western World


Precursore dello stile degli imminenti The Police nei primi secondi del brano, tutto si compatta nel cantato allucinato di John Foxx, una scarica di parole che aprono il cielo. Nel ritornello la chitarra si fa sbilenca, sino ad esaltare il basso che farà scuola.


4 Distant Smile


I Cure di Robert Smith prenderanno parecchio dalla parte iniziale di questa canzone per i loro Seventeen Seconds e The Top: quando l’horror music si avvicina al cabaret per suggerire inquietudine e mistero. Tutto si fa nebuloso e tetro sino a raggiungere la drammaticità con suoni dissonanti e contemplativi di una dolcezza dal sorriso amaro. John Foxx poi raggela e la chitarra di Stevie Shears raggiunge l’Everest con la sua schizoide propensione a stiracchiare le corde.


5 The Man Who Dies Everyday


In un ipotetico incontro tra Kraftwerk e Television, la canzone è una marcia vocale ipnotica con la parte musicale a suggerire ipotesi di catastrofi industriali tenute con eleganza su un piano catartico, dove tutto fuoriesce compatto. Strabiliante esibizione di come gli strumenti sappiano coinvolgere gli altri, in un gioco di comparse e scomparse che definiscono il tutto su un piano di perfezione assoluta.


6 Articial Life


Su un piano di coinvolgimento spiazzante, le tastiere impazzano crude con la chitarra ritmica a cementare, solidificare questa galassia di pulsioni, dove il cantato di Foxx prepara il terreno alla teatralità di Peter Murphy di lì a poco. La chitarra infiamma l’aria, il basso tira colpi nello stomaco e la batteria consolida il tutto per una dimostrazione di potenza dove esiste un clamoroso passaggio di consegne: la musica diventa luogo di coinvolgimento totale. Sino all’accelerazione finale a gettarci in un burrone di detriti metallici.


7 While I’m Still Alive


Forse la meno nota dell’album, ma indubbiamente quella che presenta la più grande commistione di stili e approcci musicali. Una elegante processione melodica, non priva di tensione e mistica propensione a consolidare il rock capace di intossicarsi di bellezza e insicurezza. Stacchi Glam, quasi al limite dell’hard rock sapientemente camuffato, donano ampi spazi immaginifici, per pilotare la mente verso una doverosa domanda.


8 Hiroshima Mon Amour 


Si conclude questo straordinario percorso di incredibile valore e di disumana bellezza con la calata nelle tenebre portando il merito di aver inventato il synthpop con un indirizzo teatrale imponente e l’uso della drum-machine, per conferire all’insieme un senso algido, un brivido che il sax di C.C. cerca di scaldare, sciogliere, per dare un senso umano a questa pioggia di lapilli tecnologici, riuscendo a creare un insieme cacofonico e subliminale per un’atmosfera unica e perfetta. Se il delirio ha modo di essere calmo e sottile allora si chiama Hiroshima Mon Amour…


Produttori: Ultravox!, Steve Lillywhite


Alex Dematteis

Musicshockworld

24 Novembre 2022


https://open.spotify.com/album/2qglzVkWCBALdZ8JHMgJhT?si=lFErK3TnSCm6EAE6cIyugA







martedì 22 novembre 2022

La mia Recensione: Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate

 Adrian Borland - The Scales Of Love And Hate


La memoria scende nel cuore per fare ordine, per una reale necessità, per dare un senso che viva per i giorni a venire. L’amicizia vera tra gli uomini è cosa possibile, rimane anche quando qualcuno lascia questo pianeta. E in questa circostanza il cuore si fa pesante, ma ricordare è mantenere quella vita in viaggio perenne proprio qui, in questa fiumana di lacrime instancabili.

Un disco non potrà mai sintetizzarne la profondità, ma ne testimonia in parte il cammino e i suoi arcobaleni, imprendibili.

E allora finisci col mettere i tuoi pensieri dentro le riserve segrete di due esseri che si sono confrontati, amati, supportati, con il talento a sostegno di entrambi, con quello di uno dei due che è già nel cielo con la sua voce piena di piume e graffi, mentre l’altro lo ricorda, portando avanti il suo nome per fissarlo il più possibile nel cuore di molti.

Adrian Borland e Carlo van Putten sono l’abbraccio di cui necessitano le anime piene di riconoscenza e amore vero. E c’è un album in arrivo che sussurra l’invito ad adoperare la curiosità, l’affetto, la giusta misura di rabbia e nostalgia, la volontà di non staccare mai la spina dal guardare il cielo alla ricerca della chioma di Adrian e della sua classe, che ha già il suo spazio sul palco degli assi.

Non è una raccolta con tre inediti: direi, piuttosto, la sua esistenza messa a nudo, con semplicità, attraverso la modalità che gli restituisce, eternamente, l’ingresso nella nostra famelica accoglienza, per accompagnarci perché è  lui ad amarci, a essere a nostra disposizione.

Cosa serve a un fuoriclasse per rimanere eterno? La sua nudità, senza abbellimenti, sovrastrutture, arrangiamenti, perché la genialità sta nella visione di una cellula, che quasi segretamente prende possesso di un intero corpo. 

Sono dita che planano sulle corde con maestria, eleganza, necessità, trascinandosi una voce che tutte le volte ipnotizza, commuove e suscita sommosse senza fine. Adrian è l’ultimo fuoriclasse a testimoniare come la giustizia non sia cosa umana, come il gusto e le scelte musicali siano stupide, banali e violente.

Intanto lui è un oceano di bellezza che non dorme mai, come le onde, sempre in moto, presente, a disposizione.

Ventidue canzoni che sono stordimenti e schiaffi per chi, amandolo, sente la struggente impotenza davanti al terremoto interiore che l’ha fatto franare. Non si è negato a noi ma a se stesso, nel furore di complessità che non possiamo conoscere e tantomeno giudicare.

Allora lo si ascolta, come assiderati dal suo calore unico, perché nelle sue canzoni (qui nello stato pulsante della nascita, quando nulla occorre se non apparire) c’è il suo volo, il suo tremare, il termometro e il goniometro della sua intensità, che è la sua bellezza, umana e artistica. 

Si frana mentre le orecchie assorbono, captano suoni e liriche che si fanno un tutt’uno, indivisibile e perfetto.

Emergono, incolonnate in una splendida scelta della scaletta, ventidue petali di seta che avvolgono e prendono spazio nell’unico posto dove devono farlo…

Quelle diciannove composizioni che già conoscevamo sembrano nascere per la prima volta, dentro ai loro impulsi, frenesie, con la cortesia di chi non vuole disturbare portando invece in dono una ricchezza incalcolabile.

Le tre inedite sono germogli di stupore in avanzamento, atti continui di una classe che non ha bavagli né bende: Adrian è un fuoco fatuo davanti al tramonto, e tutte e tre confermano la misura di un talento senza sosta.

Carlo e le persone che ancora oggi sostengono il valore di Adrian ci deliziano con questa fascia purpurea che non è una rivisitazione o un miglioramento di materiale già edito.

Bisogna ascoltare con attenzione perché qui siamo al cospetto della nascita di voli che saranno capaci di portarci con lui dentro il suo universo. Occorre rispetto e consapevolezza.

Non esiste lamentela, delusione o pretesa davanti a questo insieme di brani. Bensì la premura nell’adoperarsi in una ricerca che se fatta bene sarà fruttuosa: lui è una certezza.

Il lato acustico dell’autore Londinese è quello della perfezione che non è data dall’assenza di errori tecnici o imprecisioni, bensì dal frastuono che genera il sentire tutta la purezza che non necessita di altri strumenti: è tutto generosamente offerto in questa ampolla luminescente, dove forza e debolezza convivono insieme nella magia che genera stupore.

Raffinate, estroverse, introverse, ammalianti, tristi e veritiere, sono tuffi continui nel suo mondo dalle finestre chiuse, mentre Adrian ci mette a disposizione la gittata del suo sguardo. 


Ascoltando ti rendi conto di come il silenzio sia stato gentile con lui: gli ha permesso di penetrarlo con accortezza, senza invasioni. Queste canzoni sono il confine tra l’esercizio artistico e il suo incontro, dove tutto si appoggia alla meraviglia.

Ti ritrovi a dimenticare quello che è successo, non piangi per la sua assenza, non ti tormenti, non urli ma taci mentre le dita delle sue mani sulla chitarra e la sua voce ti conducono alla sua sensibilità, prendi appunti, non canti le sue parole, spegni ogni atomo di presenza e lo lasci libero di chiacchierare intimamente con il tuo bisogno di contatto con la sua anima, lucida e potente.


Lui ci dimostra che i sogni si possono toccare, specialmente quelli che si infrangono contro una realtà contraria. Non ci resta che capire che dobbiamo camminare con i suoi pensieri in una direzione opposta a quella dei desideri ed è in quel momento che sentiamo il suo respiro soffocare, la testa impazzire e il cielo cadere. Si piange tantissimo ascoltando questo album, perché la tristezza punge la pelle.

Forse dovremmo immaginare che lui fosse felice solo cantando e suonando: potrebbe essere una supposizione inevitabile. Ma non lo si ama per questo capriccio, bensì per la certezza che non abbia lasciato sfuggire nulla di sé nelle canzoni, che si sia speso nella lealtà. Sono ventidue doni che non ingombrano, non disturbano lo spazio ma generano un vulcano in eruzione perenne, dove ciò che sbava è la malinconia che si eleva a essere la fedele compagna. Patimenti, frustrazioni e tristezza si presentano e dobbiamo tenerne conto: può essere uno tsunami, dovendo decidere se lasciarsi travolgere o costruire in tempo la modalità che possa spegnerne la potenza.

Impossibile.

Andiamo a vedere da vicino le sue canzoni, con tremore e rispetto, in generosa modalità di una propensione all’attenzione, consci in anticipo del fatto che non saremo capaci di comprendere sino in fondo tutta la sua arte, ma saremo consolati dal sapere che in ogni caso sarà puro stordimento…


P.s. Non commettiamo l’errore di pensare che esista una parte migliore di Adrian e che appartenga al periodo del meraviglioso combo chiamato The Sound. Ciò che Adrian ha fatto successivamente ha la stessa valenza e capacità di scrivere canzoni maestose. Le comparazioni lasciamole agli stupidi, agli ignoranti, perché non essere in grado di capire che quell’uomo fosse incapace di scrivere cose brutte significa ammazzarlo una seconda volta…


Song by Song 


1 Scales Of Love And Hate


“Seems like we've shut and locked every door

The deeper the cut, the colder the war”


Si incomincia con i sogni che crollano, a confermare la distanza tra loro e la realtà, nell’impossibilità che si fa palpabile. Ed è un brano che scalda immediatamente, la chitarra ritmica e la voce che cade sul microfono, tenerissima.


2 Love Is Such A Foreign Land


“You're not easy to forget

But you're no reason to get upset”


Anche gli angeli fanno i bagagli e hanno sicuramente questa voce mentre decidono la destinazione. La chitarra, tenuta quasi nascosta, mostra di essere perfetta per il cantato, sussurrato, che vola tra i registri bassi e quelli alti sino a sfiorare il falsetto. 



3 Weekender Berliners


“Maybe I see you again, maybe I never will
But I'll always have this picture that I hold very still”


Un arpeggio vola su, nella voce di Adrian, e tutto è sottile, dentro una storia che scivola, senza rimpianti, mentre i brividi si raccolgono.



4 Falling Off Your Horse


“I've tried to ride your dark wild eyes

Took a breath of air twelve feet up there

And then I tasted sand”


Tra equilibri perduti e ciò che si deve pagare di conseguenza il brano mostra un ritmo vorticoso, rigorosamente acustico, e il cantato breve di Adrian, tutto versato nel vuoto con grande intensità. E sono accordi che scuotono, sono parole che fanno gonfiare gli occhi mentre la voce ci porta a cavalcare nei prati della vita.



5 Downtown


“I could be the ocean

Crashing into your land”


La voce inspira, le parole escono vibranti, e si sale in macchina con lui per scendere in città con una canzone che manifesta la sua intensità, abbottonata a una melodia efficace, per ricordarci che la sua ugola sa avere artigli meravigliosi.



6 Tired Man


“These eyes are closing now

I've got nothing to say”


L’atmosfera rallenta, echi di un passato remoto mostrano il volto in questo testo breve ma capace di suscitare sobbalzi in un cantato che mostra quanto Adrian e Jim Kerr avessero molto in comune. Ma qui ci si emoziona, ci si sente abbattuti angelicamente, e la stanchezza esce dalle sue labbra mentre la chitarra accelera il suo ritmo.



7 Unkissable


“Oh your sideways glance is like a lance 

And your whisper seems to shout”


Il primo dei tre inediti è scritto insieme a Carlo ed è anima blues e country che viaggia dentro il buco di una testa che fa fuoriuscire lava e grigiori. Incantevole, amara quanto basta per entrare nei nostri bisogni.



8 Street Of Flowers


“And with smiles set back into stone again”


Il secondo brano pare provenire dalla nebbia della periferia di un geyser, cupa e toccante, con una scia di luce che sembra essere presente per sbaglio. Adrian ha una voce che smuove ogni strada con i fiori che si inchinano, silenziosi. Un sussurro notturno meraviglioso.



9 The Sea Never Dies


“Still the heart is an ocean and the sea never dies

Love comes and goes like the sun and moon”


Ultima canzone inedita: ecco la ballad per eccellenza arrivare, toccare le ombre in movimento per poterci raccontare una storia fatta di parole e amore, con le dita sulle chitarre che scivolano ed emettono un rumore che è poesia. Tutto è delicato ma non timoroso, per un brano che esplode nel cuore e non nel suono…



10 Our Forest Ghost


“Our forest ghost is looking out for us

Two hundred years he watched that clearing “


Questa voce ti sequestra, uscita da un miracolo che ci trova sempre impreparati. Tutta la dinamica del suo cantato lo puoi trovare qui, passato e presente che prendono possesso in questo brano della loro necessità di non separarsi neanche per un attimo. E si sogna mentre si ascolta la colonna sonora di un film, quella del suo talento.



11 Time Standing Still


“The moment you turn to go

Everything seemed to slow”


L’amore cura ma è anche la ferita, e te ne accorgi dalla voce di Adrian che sembra abbandonare il pianeta in anticipo in questa esibizione folk che oltrepassa le nuvole.



12 Walking In The Opposite Direction


“And every day the things you crave

Make a play for my affection”


Per lo scriba è arrivata la tempesta, il momento che assolutamente gli devasta il cuore, saranno gli accordi tristi e immensi, sarà la voce di Adrian che trova assolutamente l’ingresso del paradiso piangente, saranno le parole soffocanti, sarà l’anarchia che rende liberi ma sicuramente non felici, che fanno di questa canzone un pugno ripetuto, senza che gli si riesca a sfuggire…



13 Excavation Bones


“So you peeled away the skin

Past the ribs straight to the sin”


Ecco l’appuntamento con l’oscurità più densa e rivelatrice della solitudine come conseguenza, dentro note basse della chitarra che sembra bussare al nostro inconscio sino a che il ritmo giunge insieme a questa interpretazione vocale che ci stende per terra, con il testo colmo di immagini fragorose a cui non riusciamo a sostenere…



14 Running Low On Highs


“I took my pleasures one by one
Hovered closer to the sun”


Si cade, dentro a una ritmica che seduce per sensualità, mentre invece le parole suggeriscono pensieri che affaticano la felicità e le sicurezze. La musica ha più spazio ma poi, quando le note si fanno vive, Adrian ci fa cadere con lui…



15 Valentine


“Unwelcome lodgers in my head”


L’amore non è immune da ciò che è sgradevole e qui ne abbiamo la dimostrazione: con una chitarra nei pressi dei Doors, la storia si fa netta subito e tutto si trascina verso l’amara consapevolezza, con la chitarra che scende sino al nostro ventre… Scritta con Carlo.



16 The Last Days Of The Rain Machine


“We sucked this world down to its brittle bones”


Adrian Borland è uno straordinario scrittore di testi: sa adoperare l’ascolto per trasformarlo in semi, spesso amari e indiscutibili. Purtroppo, la sua maturità è figlia del dolore e in questo brano ve n’è molto. La chitarra disegna schegge di pioggia e la sua voce cade pesante, nel racconto di un qualcosa che finisce…



17 Snakebitten


“You say I should have learned by now

Yet I've only learned to forget”


Il ritmo diventa un ramo che ci sposta, bello compatto, con la voce angelica che raccoglie tempesta, tra morsi e cose da dimenticare. Molto 80’s, un mantra che conquista, sconquassando.



18 Inbetween Dreams


“A great slab of day gets in the way

Of where you want to be

Breathing out, breathing in”


Seducente, accattivante nella parte musicale, una danza acustica che si trova dentro le parole che si riferiscono al tempo, il padrone assoluto di tutto. E la voce si fa veleno e spina sino ad abbandonarsi ai sogni.



19 Hallucinating You


“Heat-haze at your edge

Where you protecting me”


La confusione arriva con una serie di domande a raffica, mentre tutto ha l’umore tetro di una perdita in arrivo. 



20 Wild Rain


“I don't belong here, I belong to the storm”


Adrian ci porta nei suoi vertici artistici, con un gioco di ruoli, fatto di domande e risposte, mentre la splendida chitarra fissa la perfezione.



21 Four Lonely Hours Away


“Waiting for the early trains

Kicking cans in the square

Funny how it always rains

On people going nowhere”


Mi scuso, ma su questa non posso scrivere nulla: solo lacrime…



22 Dead Guitars


“Now I see all these new faces

And they look to me like a row of trees

And of all the friends that have now departed”


Quando muore tutto, anche una chitarra, l’elenco delle scomparse trova il suo arresto, l’immobilità che apre le porte alla vita eterna, senza garanzia che ci sia qualcosa di meglio. L’ultimo brano consacra la sua vena poetica con la violenta amarezza sui bordi di labbra pronte per morire insieme alla loro chitarra…


È possibile ordinare l'album qui: soundshaarlem@gmail.com


Un ringraziamento speciale a Jean-Paul van Mierlo per il suo contributo alla promozione della musica e dell'anima di Adrian e per il suo meraviglioso lavoro artistico.


Alex Dematteis

Musicshockworld

22 Novembre 2022